quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Giovedì 23 GENNAIO 2020
I medici frustrati e il nemico “sbagliato”

La condizione di frustrazione in cui vive ormai da anni la categoria medica ha spostato il focus dello scontro da quello con i veri responsabili del declino medico, e cioé le elites burocratiche politiche, a quello con gli altri professionisti sanitari con i quali si condivide invece uno stesso destino di de-professionalizzazione. E con i quali occorre invece definire un rapporto di collaborazione attiva inevitabilmente basato sul rispetto dei diversi ruoli definiti dalle leggi dello Stato

La dicotomia amico-nemico dell’agire politico
Se nella politica la differenza di fondo che definisce l’agire politico è la dicotomia tra amico e nemico, e se il nemico non è il nemico privato o molecolare (inimicus) ma il nemico pubblico o collettivo (hostis), la possibilità di affermare la propria leadership è subordinata alla esatta identificazione di tale soggetto.
 
Impresa non sempre facile laddove, come in sanità, il campo istituzionale è agito da attori istituzionali diversi in grado di elaborare strategie di opposizione ma anche di alleanze per affermare o condividere con altri il ruolo di stakeholder nella divisione sociale del lavoro.
 
In questo ultimo ventennio i medici, subito dopo il varo della riforma Bindi, hanno iniziato a coltivare la fallace illusione che il nemico pubblico contro cui intraprendere una lunga guerra di posizione fossero le professioni sanitarie; un esercito questo, numericamente superiore, e particolarmente agguerrito perché mosso da una prorompente voglia di riscatto professionale, figlia di una storica e ormai intollerabile condizione di totale subalternità ai medici.
 
L’identificazione nel personale sanitario del nemico da combattere perchè intenzionato a infliggere il colpo di grazia a un’intera categoria progressivamente deprivata di ruolo, status sociale e potere, ha in realtà fatto perdere tempo prezioso. E nulla è stato fatto per impedire che i veri responsabili di quella sorta di caduta degli dei che caratterizza l’attuale condizione professionale dei medici portasse a termine la propria vincente strategia.
 
Il medico–massa nell’ospedale proceduralizzato
L’idealtipo del medico senza potere è il medico-massa che popola le ormai desolate e insidiose corsie ospedaliere.
 
Gli ospedali, che all’inizio dell’Ottocento trasformarono le astruse congetture dei medici-accademici francesi fautori della medicina delle specie nella clinica moderna, fatta di osservazione clinica seriale e ponderazione statistica dei fenomeni morbosi, hanno rappresentato da sempre il luogo della massima espressione della professionalità medica
 
Oggi quei luoghi sono il segno di una condizione senza riscatto da cui tutti, medici e professionisti sanitari, cercano di fuggire. L’ospedale da machin a guerir, in cui le tecnologie erano al servizio del clinico - che poteva lavorare sul caso in un ambiente di lavoro di cui stabiliva in larga misura le regole del gioco - si è trasformato in uno spazio di compressione spazio-temporale in cui tempi, procedure e organizzazione del lavoro sono definiti da un impenetrabile algoritmo burocratico-amministrativo.
 
Una sorta di OPA ostile messa a segno con successo dalle elites politiche –burocratiche che dominano il campo istituzionale sanitario e che ha sottratto ai medici ogni reale possibilità di realizzazione delle proprie “capacitazioni” professionali. E’ così quella che era un’attività intellettuale fatta di conoscenza ed esperienza è stata trasformata in un lavoro universale generico malpagato e spesso retribuito a cottimo o a paga oraria.
 
Il lavoro medico, specie nei più delicati settori dell’emergenza o nella refertazione radiologica per immagini, è stato definitivamente piegato alla logica di una totale fungibilità professionale, impersonale e trans-personale al contempo.
 
Un processo di frammentazione del percorso assistenziale dove il medico è equiparabile a una sorta di operario-massa di un opificio fordista. Un anonimo agente della produzione di salute massificata che eroga prestazioni sanitarie orarie parcellari e che, pressato dai pazienti in attesa, smista il prodotto semi-lavorato (il paziente stabilizzato o l’esame immediatamente refertato) nel reparto di ulteriore trattamento. Un processo lavorativo del tutto assimilabile a quel che avviene per una qualsivoglia merce che completa il suo ciclo lavorativo nella fabbrica di spilli preconizzata da Adam Smith.
 
Nulla dunque è rimasto di quel complesso processo ermeneutico di tipo deduttivo-nomologico declinato un tempo a più voci, l’equipe e i vari consulenti di volta in volta interpellati, da cui sbocciava, come un fiore maturo, la diagnosi clinica, la prognosi e la terapia per quello speicifico malato.
 
La svalorizzazione del lavoro sanitario e la feticizzazione delle prestazioni sanitarie
La svalorizzazione del lavoro sanitario, trasformato ormai in anonima prestazione oraria, trova come contropartita necessaria la feticizzazione delle prestazioni sanitarie. La trasformazione della quantità in qualità, la valorizzazione del volume generico sul volume efficace in termini di salute resa rende superflua la ponderazione critica del medico sul cosa si debba fare o non fare su quello specifico paziente; su cosa sia effettivamente utile e appropriato e cosa  sia solo medicina difensiva o di consumo .
 
La prestazione si erge allora davanti al medico come un’attività provvista di vita propria e da cui il diretto produttore è espropriato né più né meno di quel che avviene nella produzione delle merci; essa si trasforma in semplice prodotto che dissimula nell’uso il suo valore di scambio (l’unità lavorata ai meri fini della remunerazione e della statistica) e che nasconde le reali forze che ne determinano i volumi attesi, auspicati o imposti nel processo produttivo di servizi ( spesso inutili).
 
Il processo assistenziale perde definitivamente la propria natura epistemica di ricerca delle cause della malattia, date dalle molteplici interazioni tra genotipo e ambiente, e dei mezzi in grado di contrastarle e si trasforma in semplice attività ripetitiva, misurabile in termini esclusivamente numerici, totalmente indifferente alla salute realmente rigenerata.
 
La svalorizzazione del lavoro medico, tuttavia, non è soltanto il derivato perverso della trasformazione della quantità in qualità; dell’ossessione alla misurazione di cui si vantano i Bocconiani. Essa è anche il frutto dell’arretratezza culturale di chi non vuole prendere atto di come le malattie della modernità abbiano bisogno necessariamente di un approccio integrato tra professionisti di diverse specializzazioni e competenze
 
Esempio paradigmatico di questa assoluta necessità sono le malattie a patogenesi allergico-immunologica dove il paziente dovrebbe essere preso in carico da team di professionisti (allergo-immunologo, dermatologo, gastroenterologo e reumatologo, infermiere specializzato, fisioterapista, dietista) e non dal singolo professionista come prescrive il tradizionale modello prestazionale.
 
Queste patologie, tipicamente multiorgano, richiedono un profilo assistenziale che non è più compatibile con un approccio basato sul modello lineare domanda/risposta su cui sono implementati i criteri di performance e valutazione dei servizi sanitari. Lottare per imporre un modello in cui è la qualità a diventare quantità e in cui la centralità del paziente è declinata non in modo formale ma sostanziale, è la vera battaglia che ridarebbe centralità alla figura professionale del medico e degli altri professionisti del team.
 
Le reti assistenziali: un modello avanzato di erogazione dei servizi
Una moderna organizzazione di servizi dovrebbe universalizzare il modello delle reti cliniche. Modelli basati su un’analisi epidemiologica dei bisogni sanitari, sulle caratteristiche oro-geografiche del territorio, sulla composizione demografica della popolazione e sullo studio del complesso delle malattie presenti in quell’area sotto osservazione.
 
Una rete clinica organizzata in centri a complessità clinico-assistenziale crescente tra loro collegati è in grado di realizzare la presa in carico del paziente e la corretta realizzazione del percorso diagnostico terapeutico (PDTA).
 
Una rete clinica è anche il presupposto per una corretta calibrazione quali-quantitativa dei professionisti da impiegare.
 
Se a titolo di esempio esplicativo prendiamo in esame una patologia emergente sempre più frequente e non adeguatamente trattata: la esofagite eosinofila, a cui che alcune stime attribuiscono una prevalenza di 1/1000 (sic!), è chiaro che un modello organizzativo adeguato alla patologia da trattare dovrà prevedere:
- una razionale distribuzione nel territorio dei centri in grado di trattare la patologia garantendo un collegamento funzionale con tutti i professionisti, sparsi nei diversi ambulatori o presidi ospedalieri, che possano formulare una diagnosi di sospetto;
 
- il centro a sua volta dovrebbe prevedere la presenza di un team multidisciplinare in cui operano in modo integrato:
1: lo specialista di riferimento: l’allergologo
2: il gastroenterologo che dovrà eseguire i controlli endoscopici garantendo una EGDS ogni due mesi per almeno 5 controlli se si vuole tentare un approccio dietologico alla malattia
3: lo specialista in istologia che esamina i campioni procedendo alla conta degli eosinofili per campo
4: il dietologo/dietista che predispone le diverse diete di eliminazione garantendo il rispetto dei LEAN
5: lo specialista di medicina di laboratorio per la determinazione della presenza di IgE (estratti e molecole) per lo studio di eventuali allergie alimentari e per le altre indagini mirate
6: il genetista per lo studio di eventuali patologie mucocutanee associate
 

Uno stesso discorso si applica per la dermatite atopica per la congiuntivite di Vernal o per le patologie reumatiche o della cute come la psoriasi associate a malattie croniche intestinali o assiopatie
La costituzione di una rete clinica con l’elaborazione del relativo PDTA è l’unico mezzo attraverso il quale i professionisti della salute delle diverse discipline e profili professionali possono riacquistare quel ruolo da protagonisti; un ruolo che è sostanziale ai fini della garanzia degli outcomes di salute e che è stato sottratto loro dalle burocrazie che gestiscono in modo autoreferenziale le aziende sanitarie.
 
La degenerazione delle aziende sanitarie come causa del conflitto interprofessionale
Il conflitto interprofessionale che avvelena i rapporti tra il personale medico e gli altri professionisti della salute nasce anche dalle trasformazioni e degenerazioni istituzionali che hanno investito le aziende sanitarie
 
Una finta aziendalizzazione, in cui spesso i direttori generali sono meri esecutori delle volontà di assessori o presidenti di regione, ha sottratto ai medici e agli altri professionisti sanitari ogni possibilità di contribuire n modo effettivo alla vita aziendale e al miglioramento della qualità.
 
Aziende sanitarie e ospedali sono quasi sempre luoghi di pratiche gestionali autoritarie totalmente inefficaci dal punto di vista della salute guadagnata; in un clima lavorativo sempre peggiore  al professionista è consentito  di ritagliarsi un proprio spazio professionale o personale solo a condizione  di non entrare in conflitto con il management aziendale.
 
Una situazione umiliante e screditante per l’intera categoria e per il sindacato che, invece di sottrarsi a questo gioco a ribasso, si adagia spesso nella difesa a prescindere solo dei propri iscritti
 
Quel modello partecipativo per operatori e cittadini che era la cifra della grande riforma sanitaria del 1978 è miseramente naufragato e le conseguenze sono visibili oggi nel burnout che affligge gli operatori della sanità e nella fuga di medici e infermieri che cercano di abbandonare ospedali e aziende sanitarie come una nave che affonda.
 
Questa condizione di frustrazione ha spostato il focus dello scontro da quello con le elites burocratiche politiche a quello con gli altri professionisti sanitari con i quali si condivide invece uno stesso destino di de-professionalizzazione; e con i quali occorre invece definire un rapporto di collaborazione attiva inevitabilmente basato sul rispetto dei diversi ruoli definiti dalle leggi dello Stato.
 
Uscire dalla crisi con un nuovo bilanciamento di poteri
Il riscatto professionale dei medici nasce da un nuovo bilanciamento di poteri in cui la dirigenza sanitaria non è più un mero esecutore delle fantasie del management aziendale ma diventa parte attiva nella programmazione aziendale e nella implementazione del modello assistenziale basato su lavoro in team e reti cliniche.
 
Un nuovo modello di partecipazione che deve coinvolgere la stessa regione e i suoi organi di programmazione.
 
Un modello di partecipazione che deve imporre anche una revisione delle norme legislative capestro che hanno oltraggiato i diritti delle rappresentanze mediche e sanitarie.
 
Il complesso campo istituzionale della sanità deve ripensare le proprie regole e abbandonare quel modello gestionale top-down che ha prodotto conflitti e avvelenato i pozzi del lavoro condiviso con le altre professionalità
 
Da qui occorre ripartire per rilanciare un asfittico sistema sanitario in cui la differenza in termini di salute effettiva non le fanno le astruse ricette dei bocconiani ma le buone pratiche costruite con il consenso dei lavoratori  e degli utenti.
 
Un modo di gestire i processi e i percorsi che  può fare a meno delle patetiche terminologie del pensiero aziendalistico, diventate ormai di uso corrente, e che invece non può prescindere dal consenso e dall’apporto di chi tali processi e percorsi è chiamato  a gestire e implementare. Con una razionalità non di tipo astrattto e indifferente al contesto,  ma di  di tipo incrementale e che dunque ogni giorno si adatta al variare delle circostanze di quel mondo mutevole che è la sanità.
 
Roberto Polillo

© RIPRODUZIONE RISERVATA