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Lunedì 16 MARZO 2020
Coronavirus. “Una sfida immane che ci coinvolge tutti e che sollecita risposte nuove in campo medico, etico ed economico”. Intervista a Monsignor Andrea Manto

Il Presidente della Fondazione “Ut Vitam Habeant”, ruolo in cui Manto è subentrato dopo la scomparsa dell’ideatore e precedente presidente della Fondazione, il cardinale Elio Sgreccia, ha condiviso con noi una serie di riflessioni sulla crisi globale provocata dalla pandemia di COVID-19. Netto il suo appello a “costruire ponti tra scienza e saggezza” e a un supplemento di riflessione sul documento della Siaarti: può esistere davvero “un criterio giusto per decidere chi far morire?”

Monsignor Andrea Manto, 53 anni, medico specializzato in geriatria, è docente presso la Pontificia Università Lateranense e presidente della Fondazione Ut Vitam Habeant, succedendo nel ruolo al fondatore, cardinale Elio Sgreccia, dopo la sua scomparsa. Prima di questo incarico, Manto è stato Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della Sanità della CEI e del Centro per la Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma. Ecco le sue riflessioni su quanto sta accadendo a seguito della pandemia di COVID-19 e sulle sue implicazioni sul piano della tutela della salute, sugli aspetti bioetici con essa connessi e sulle ricadute sociali ed economiche che si stanno delineando nel Mondo.
 
Monsignor Manto, l’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia di questo nuovo Coronavirus ci sta ponendo dinanzi a problemi di sostenibilità e di etica medica che pensavamo di aver ormai messo da parte, se non altro nel mondo occidentale. Gli anestesisti italiani hanno posto questioni dirimenti, delineando possibili scenari, seppur fortunatamente non ancora operativi, che ci pongono dilemmi più ampi sul dovere e sulla conseguente possibilità di curare e assistere ogni essere umano, indipendentemente dalla sua età e condizione di salute. Siamo pronti a questa sfida?
 
Penso che nessuno possa dirsi pronto a sostenere questa sfida da solo. Non si può affrontare in maniera isolata la sfida di un’epidemia causata da un virus nuovo, per il quale mancano anticorpi nella popolazione e cure mediche efficaci. È necessario condividere le conoscenze e i saperi nella comunità scientifica e coordinare gli interventi di sanità pubblica. Né si può affrontare la sfida di elaborare principi etici liquidando, unilateralmente e sotto la spinta dell’emergenza, la deontologia medica, che è un sapere condiviso e consolidato da secoli a tutela dei valori fondanti dell’umanità. Le faccio un esempio: il “first come, first served” è un principio di giustizia universale che regola tutti i rapporti umani, per capirci, dalla coda alla biglietteria, ai mercati azionari, fino a situazioni cruciali.
 
Esso serve a impedire la prepotenza e gli abusi. Minarne il valore può causare molti più problemi di quanti si pensa di risolverne. Ad esempio, ipotizziamo che ci sia un solo posto libero in una rianimazione e arrivino, a distanza di pochi minuti, due pazienti intorno ai 60 anni di età, molto simili per gravità della situazione e possibilità di sopravvivenza: Lei cosa farebbe se fosse il medico? Userebbe il criterio dell’ordine di arrivo o tirerebbe la monetina? È una scelta terribile e capisco la sofferenza di chi deve compierla. Ma la deontologia è chiara: il dovere del medico non è affidarsi soltanto a un criterio statistico o a una linea guida generale.
 
Egli deve decidere per quella persona e in quella precisa situazione il bene concretamente possibile, certamente evitando interventi terapeutici inutili, sproporzionati o esplicitamente rifiutati dal paziente, ma mai può agire contro l’interesse del paziente. Non è infrequente che il medico, come lo statista, il giudice, o chiunque abbia responsabilità rilevanti per le vite degli altri, si trovi di fronte a scelte drammatiche di cui deve assumersi il peso da solo. E purtroppo non esistono deroghe, scorciatoie o seconde opportunità.
 
Nessuno può sostituirsi a noi e alla nostra libertà e responsabilità e al nostro dovere di decidere in scienza e coscienza, anche sbagliando, ma assumendoci il carico che da questo deriva. È la vita, sempre imperfetta eppure sempre meravigliosa. È la bellezza e il dramma della nostra libertà, che desidera l’assoluto, ma vive nel qui e ora e ha bisogno di confini.
Trovo perciò che la SIAARTI abbia sollevato dei problemi di etica medica assai rilevanti, tanto più nello scenario attuale e nel contesto del mondo globalizzato. Su tali problemi bisogna tenere sempre viva l’attenzione e andare a fondo nel dibattito, perché essi non riguardano solo i medici, i malati e le loro famiglie o chi è chiamato ad amministrare la sanità, ma toccano tutti noi e il fondamento stesso della società e della democrazia. 
 
Preferisco però, come affermato dal presidente dell’Ordine dei Medici Anelli, considerare l’iniziativa degli anestesisti un “grido di dolore” di fronte alla pesante situazione che stiamo attraversando o un allarme rispetto a un suo possibile aggravamento, se non si prendono misure ancora più efficaci. Infatti, al netto del merito di segnalare il problema, il documento elaborato dalla SIAARTI non mi sembra un testo adeguato nell’approccio e nei contenuti.
 
Perché?
Anzitutto non c’è nulla di nuovo nell’argomentazione che introduce. In altri Paesi si propone già da tempo di escludere gli anziani dalle cure più costose per ridurre la spesa sanitaria, per esempio proibendo l’innesto della protesi d’anca dagli 80 anni in poi. In Italia nello scorso decennio in molti tavoli di riflessione sulle cure intensive si sosteneva la scelta di non ricoverare gli anziani in rianimazione. E non perché fossimo di fronte alla minaccia del Coronavirus, ma perché, secondo alcuni, di fronte ai tagli imposti dai piani di rientro era preferibile tenere i posti per i più giovani.
 
L’idea di fondo è che il razionamento o la scarsità delle risorse disponibili ci debbano portare a prefissare criteri di selezione del valore della vita umana. È un’idea miope e pericolosa, perché ai potenziali tagli e risparmi sulla vita degli altri non c’è mai limite, in tutti i campi (si pensi ad esempio alla sicurezza sul lavoro o all’ambiente) e perché si minano le basi della solidarietà e della democrazia. I medici, in base alle loro competenze, devono fare di tutto per curare al meglio ogni paziente in forza dell’alleanza medico-paziente e far capire alla società il valore fondamentale della tutela della vita e della salute.
 
Bisogna incessantemente costruire ponti tra scienza e saggezza, individuando scelte coerenti e modalità idonee per mettere a fuoco e affermare i valori più autenticamente umani. Occorre creare una nuova mentalità e non rassegnarsi al pensiero unico, sempre materialista, formando le coscienze a rispettare la vita umana pensandola sempre come fine e mai come mezzo.
 
Alcuni anni fa l’Unione europea, era il 2006, lanciò uno slogan affascinante “La salute in tutte le politiche” in una visione illuminata e trasversale della promozione della salute tra i popoli in grado di coniugare la salute delle persone attraverso politiche concertate sul piano economico, sociale e ambientale. Di quel programma ambizioso, in realtà, se ne è persa traccia col passare degli anni e la tutela della salute si è continuata a considerare di fatto più un fattore di costo che di sviluppo per un Paese. E ora, forse, ne vediamo le conseguenze…
Esatto! Ha colto perfettamente il mio pensiero. Le dirò che la logica del documento SIAARTI va proprio a sposare la linea che vede la tutela della salute soprattutto come un costo, e dietro l’urgenza della decisione clinica maschera un criterio di utilitarismo e di egoismo (la persona serve finché è utile e quando è un peso va abbandonata).
 
Un’idea che, per cerchi concentrici e slittamenti progressivi, “contagia” tutti e mina la struttura stessa della società. Per certi aspetti è questa la prima e più pericolosa epidemia, perché veicola l’egoismo e la legge del più forte (darwinismo sociale) e legittima quella che Papa Francesco ha definito la “cultura dello scarto”. Con la rottamazione dei valori da un lato, e con i piani di rientro dall’altro, siamo arrivati a non avere un numero congruo di posti-letto nelle rianimazioni, a spendere sempre meno per le politiche di prevenzione ed educazione sanitaria, a non investire in ricerca e formazione per affrontare le epidemie e a non accantonare risorse per l’emergenza.
E poi questo documento si presta al disegno, in corso da tempo, di sostituire la medicina ippocratica con la medicina ideologica.
 
Si spieghi monsignore.
Si vuole, in buona sostanza, sostituire al dovere di curare una persona in quanto essere umano, il dovere di curare le persone solo in base alle indicazioni del parametro ideologico dominante (culturale, politico, ecc.). Perciò di volta in volta, avremo categorie di persone che non sono degne di essere curate, o perché la loro qualità della vita a nostro (di chi?) giudizio non è adeguata, o perché costano troppo, o perché non producono, o perché sono migranti e portano malattie di cui non vogliamo contagiarci, o magari perché sono di razza, religione o convinzione politica diversa da quella della maggioranza che decide.
 
Il processo in sintesi è il seguente: con la motivazione di affrontare il problema spinoso delle decisioni drammatiche nei casi-limite si cercano i criteri di scelta, o meglio di selezione, trovati adesso nell’analogia con il triage che si opera durante le guerre(!) o le catastrofi. Poi, per semplificare la fatica della complessità di decidere e per razionalizzare l’incertezza di stare su confini scivolosi, si procede a cristallizzare i criteri in indicazioni normative e perciò valide per tutti.
 
Tali indicazioni normative, derivanti come dicevo da criteri arbitrari applicati ai casi limite e poi decontestualizzati, vengono progressivamente trasferite nella comune pratica clinica per ulteriore analogia o similitudine; per esempio ove lo Stato tagliasse fondi per le cure agli indigenti, oppure qualora la presenza di troppi anziani malati mettesse a rischio il sistema pensionistico. In questo modo viene eroso il criterio fondante della democrazia e del contratto sociale, che è appunto l’indisponibilità della vita umana. Mi permetta un’ultima battuta: il pericolo maggiore per la libertà non sta nel quasi-coprifuoco che ci viene adesso imposto al fine di impedire la diffusione del virus, ma sta nella finta libertà di avere in futuro un criterio “giusto” per decidere chi far morire.
 
Questa emergenza sanitaria, divenuta presto anche economica e sociale, sta sollevando anche altre questioni che investono la sfera ampia, e fino ad oggi apparentemente intoccabile (sempre nel nostro “Occidente”), delle libertà personali e delle responsabilità ad esse connesse quando entra il gioco il bene comune. Come sta reagendo a suo parere il popolo italiano di fronte a restrizioni e divieti mai adottati finora?
Direi che stiamo reagendo complessivamente abbastanza bene. L’impatto con l’epidemia ci ha fatto scoprire altri aspetti della nostra società e della vita che troppo spesso si danno per scontati. Per esempio il fatto che ciascuno di noi è individualmente responsabile della salute degli altri e del bene comune molto più di quanto ordinariamente lo percepisca.
 
Questa interdipendenza non dovrebbe mai consentire atteggiamenti superficiali e richiede perciò educazione sanitaria, cultura della prevenzione, responsabilità e rispetto delle regole della vita buona. Gli stili di vita sani proteggono sia nelle situazioni ordinarie che in quelle straordinarie; non a caso i fumatori sono probabilmente più suscettibili alle complicazioni gravi dell’infezione da Coronavirus.
 
La lista delle pratiche individuali virtuose sarebbe lunghissima. Questa crisi può rappresentare una grande opportunità di crescita e di maturazione collettiva, specie per le generazioni più giovani. Tutti possiamo cogliere la lezione dell’interdipendenza declinandola come educazione alla tutela della propria salute, responsabilità verso gli altri, dovere di solidarietà verso le persone più fragili, anche perché l’epidemia ci insegna i più fragili da un momento all’altro potremmo essere proprio noi. Tutti possiamo capire che non si vive soltanto da sé stessi e per sé stessi. Ma c’è anche un’altra straordinaria opportunità…
 
Quale?
La individuo nel fatto che siamo costretti a fermarci e a fare i conti con il rischio e con la paura della morte. Vivere è sempre rischioso e ogni giorno tutti noi un po’ moriamo, perché scorre il tempo della nostra vita. Tuttavia non ci pensiamo, siamo sempre di corsa e presi dalle cose da fare, preoccupati di “funzionare” più che di “esistere”.
 
L’attuale situazione di “sospensione” della vita può renderci moralmente più forti se pensiamo che, proprio perché ogni giorno moriamo tutti un po’ alla volta, dobbiamo dare un senso profondo e una motivazione alta alla nostra vita, vivere per qualcosa che valga davvero la pena e non invece sciupare la vita. Ogni vita è preziosa e ogni attimo della vita è importante. Il nostro popolo è un popolo molto resiliente, abituato a fare di necessità virtù, e sono certo che saprà risollevarsi anche da questa prova. D’altra parte, stiamo vivendo di fatto una soppressione delle libertà costituzionali e questo si può giustificare solo di fronte a un rischio di portata eccezionale.
 
Ovviamente, la chiusura di tutto o quasi tutto non potrà essere sostenuta a lungo e per accelerare la soluzione del problema tutti dobbiamo fare la nostra parte. Ci è richiesto di essere uniti e superare le divisioni, i personalismi e la frammentazione del tessuto comunitario. In questo difficile frangente la politica ha la grande responsabilità di cercare l’unità, non solo in vista dell’urgenza immediata, ma anche per le strategie di rilancio e di riprogettazione del Paese.
 
Un’altra riflessione che le propongo è sulla capacità di reazione della comunità internazionale. Al momento sembrano mancare una visione e una coesione universali sulle strategie e sui mezzi da mettere in campo, tant’è che nei giorni scorsi il Dg Oms si è detto preoccupato tanto dell’escalation dei contagi quanto dell’inazione di molti Paesi. Verrebbe da dire che il Mondo, oltre che sulla politica e sull’economia, sia diviso anche su come far fronte a un’emergenza sanitaria globale contro la quale non dovrebbero esistere barriere di alcun tipo…
Purtroppo quello che Lei evidenzia è drammaticamente vero. Contrastare una pandemia richiede interventi tempestivi e coordinati a livello internazionale. Invece, viviamo il paradosso che in un mondo globalizzato dall’economia, dal commercio, dai sistemi di trasporto e dalle tecnologie di comunicazione digitale riemergono fortemente divisioni, nazionalismi, egoismi.
 
La pandemia mette a nudo quanto queste opzioni siano irresponsabili, pericolose per tutti e di corto respiro. Nel mondo globalizzato, l’interdipendenza tra salute ed economia, come già quella tra salute ed ecologia, appare molto più chiaramente e chiede la necessità di rafforzare i luoghi di confronto, di mediazione, di pacificazione e di concertazione, partendo però dagli interessi di chi è più debole o più indietro. Più che solo nella competizione forsennata per l’ultima tecnologia sanitaria o per lo smartphone sempre più veloce, bisognerà investire nelle scelte che creano maggior guadagno di salute globale. Serve una nuova mentalità politica capace di includere e di custodire, partendo dalla dignità inviolabile dell’essere umano, la cui vita è indisponibile alla volontà del più forte e non può mai essere strumentale o funzionale a qualsivoglia interesse sovraordinato.
 
La globalizzazione non può limitarsi a essere monetaria, economica e tecnologica. È necessario e urgente costruire la globalizzazione dell’umano e la comunione tra i popoli, partendo dalla responsabilità di custodire il valore inestimabile di ogni vita. È questa la vera sfida che abbiamo davanti e la pandemia lo dimostra chiaramente.
 
Infine una riflessione sulla peculiarità della professione medica e in generale sanitaria. Quando le cose vanno bene, quando epidemie, crisi umanitarie, carenza di attrezzature e terapie non ci toccano guardiamo spesso a queste professioni con distacco, se non, come sta accadendo da qualche tempo, con diffidenza e addirittura ostilità, anche fisica. Oggi riscopriamo che dietro ogni medico, ogni infermiere, ogni farmacista, ogni biologo e ricercatore e ogni professionista sanitario c’è qualcosa in più. E torniamo a considerarli eroi, se non angeli. Finita la paura forse lo dimenticheremo ma resta il fatto che oggi quelle persone ci sono e non si sono tirate indietro…
In primo luogo desidero esprimere la mia profonda gratitudine a tutti i professionisti sanitari che ogni giorno, e non solo in questa emergenza, fanno del loro meglio per assicurare le cure verso tutti i malati. Mi permetta di dire che la loro quotidiana fatica spesso non è abbastanza riconosciuta e compresa da tutti. E mi permetta di aggiungere che la loro opera è preziosa agli occhi della società e anche della Chiesa, che prega in maniera speciale per loro e per tutti i malati, soprattutto in questo grave momento in cui sono sotto pressione e rischiano la loro stessa salute per prendersi cura degli altri.
 
Certamente, la mentalità individualista e una serie di altre derive culturali, a cui ho solo in parte accennato nelle riflessioni precedenti, hanno indebolito l’alleanza tra i pazienti e tutte le figure di professionisti sanitari e insinuato il sospetto, la sfiducia, la conflittualità.
Devo darLe atto che Quotidiano Sanità è molto attento a questa problematica sempre più diffusa, tiene alta la vigilanza e fa ottima informazione su un tema che va affrontato non con lo sdegno di circostanza di fronte all’ennesimo caso di violenza, ma con molto impegno e con interventi efficaci. Quando la crisi sanitaria da Coronavirus sarà superata dobbiamo tenere viva la memoria di tante risposte generose e silenziose fornite con coraggio ed abnegazione dagli uomini e dalle donne che lavorano nei nostri ospedali.
 
E sarà il caso di ricordare bene l’importanza di avere un sistema sanitario forte ed efficiente e di difendere e valorizzare in tutte le forme possibili le grandi professionalità che lo compongono. Speriamo che, passata la paura, si impari la lezione dell’epidemia e che si possa cambiare qualcosa superando la mentalità dei tagli lineari e del razionamento delle risorse, anche a beneficio di tutti i medici della SIAARTI.
 
Cesare Fassari

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