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Lunedì 06 APRILE 2020
Dopo il Coronavirus non basta qualche toppa, serve una riforma

Una crisi, una pandemia, migliaia e migliaia di morti, per me valgono una nuova idea di tutela, perché quella vecchia della quale siamo ancora impregnati fino alle ossa, oggi, non funziona più e una nuova idea di tutela vale una quarta riforma. Questa è la mia proposta politica.

Continuo a leggere avvincenti articoli divinatori sul dopo coronavirus che mi fanno venire in mente quando da ragazzino una famiglia piuttosto numerosa, vicina della mia, confondendo il sogno con la realtà, discuteva ore fino a litigare, su come avrebbero speso i soldi della lotteria nel caso in cui avessero vinto.
 
Chi vuole ridisegnare il sistema, chi vuole rifondarlo, chi cambiarne il paradigma, altri che ci dicono molto pensosi che sarà un cambiamento difficile, ancora altri che fanno interessanti elenchi di “dovremmo” e di “dobbiamo” e ancora altri che ci propongono decaloghi di cose da fare, e poi coloro che ci esortano a trasformare le avversità in “opportunità” e infine quelli che ci invitano ad andare semplicemente “oltre” il virus. Gli oltranzisti. Ma intanto la lotteria resta chiusa in casa e ancora nessuno ha vinto.
 
Denominatori comuni
A parte le battute, tutti questi articoli, i cui autori, vorrei sottolineare, sono dei disincantati “esperti” in vari campi, sono interessanti per i loro denominatori comuni, tutti:
• non vedono l’ora di uscire da questo incubo del coronavirus e sognano un dopo,
• sono convinti che la sanità dopo il coronavirus dovrà essere quanto meno ripensata fino ad auspicare un cambiamento epocale,
• implicitamente credono che la tragedia dell’epidemia proprio perché è una evidenza innegabile produrrà il cambiamento necessario, chi potrebbe rifiutarsi?
• evitano di usare la parola “riforma” cioè di un progetto organico in cui sistemare le tante idee di cambiamento,
• pensano che il dopo coronavirus inizierà a partire da una specie di ora x. 
 
Sbaglio o stiamo entrando nel trip della palingenesi vale a dire in quell’idea dove alla distruzione, subentra quasi per disegno divino il rinnovamento, la rigenerazione e la rinascita?
 
La palingenesi e l’invarianza
Per un riformatore irriducibile, come me, è difficile credere, anche con una epidemia tanto atroce sul groppone, alla palingenesi. Da anni mi lamento del “riformatore che non c’è”, da anni sostengo che dopo diverse riforme di sistema, in sanità sono più le cose che non sono cambiate che quelle che sono cambiate, e da anni sono convinto che in sanità “l’invarianza” è il vero nemico. Palingenesi e invarianza, a parte essere una contraddizione in termini, è una opposizione politica di fatto non ricomponibile.
 
Per cui, comprenderete che, per uno che si è sempre opposto,al forte potere conservatore dei falsi riformatori, è proprio difficile credere all’idea di una sanità che rinasce come l’araba fenice dalla tragedia del coronavirus.
 
Ciò nonostante so che le epidemie fanno comunque spazio, perché nel fare montagne di morti, spazzano via i luoghi comuni, aprono dei varchi nei limiti del sistema, acuiscono le contraddizioni, sbattono sul grugno di ciascuno di noi delle verità innegabili, tutto vero, ma, in nessun caso ritengo che esse siano delle riforme, e un pensiero politico o possano tradursi automaticamente in esse.
 
Dopo il coronavirus è necessario che gli oppressi dell’epidemia se vogliono cambiare qualcosa “ripensino” il loro mondo attraverso oppressore, per non esser più oppressi, ma giammai può essere il contrario.
 
Il coronavirus ci ha semplicemente aperto gli occhi
Non credo che la sanità dovrebbe cambiare perché all’improvviso ci è venuto addosso il coronavirus, credo che dovrebbe cambiare perché da troppo tempo essa fa acqua da tutte le parti e che il coronavirus, più di ogni altra ordinaria follia, abbia drammaticamente smascherato e reso ancor più evidenti la situazione di crisi.
 
Grazie al coronavirus tutte le magagne del sistema, ripeto tutte, oggi non sono più negabili.
Per cui non dobbiamo ripensare la sanità perché c’è il coronavirus ma solo perché il coronavirus ha dimostrato in modo indiscutibile la necessità di una riforma di sistema.
 
Che la sanità debba cambiare, come è noto anche ai sassi, io ne sono convinto già da molto prima del coronavirus. Per me alle ragioni della “quarta riforma”, il coronavirus ha semplicemente aggiunto altre ragioni, nulla di più.

Una crisi da non sprecare
L’altro giorno ho partecipato ad una video discussione sul dopo coronavirus, organizzata da “Sinistra italiana”, insieme a personaggi e intellettuali di chiara fama, Adriano Labbucci nell’introdurre la discussione ha detto una cosa che mi ha colpito: una crisi proprio perché è una crisi non dovrebbe essere mai sprecata.
 
Ho subito pensato che:
• “sprecare una crisi” vale come limitarsi a subirla e quindi vale come capitolazione e assoggettamento ad una sopraffazione per definizione arbitraria, quindi l’accettazione fatalistica di una oppressione,
• non sprecarla, al contrario vale soprattutto come un atto di emancipazione, di riscatto, l’affermazione di una libertà.
 
Come si fa per noi della sanità a non sprecare una esperienza così dolorosa e disumana come una pandemia? E l’unica risposta politica che sono riuscito a darmi, che poi a dir il vero è quella che sto inseguendo da una vita, è stata di pensare ad una riforma per emanciparci non solo dal coronavirus, ma per emanciparci in generale, di più e meglio, e con maggiore efficacia, soprattutto dal male, dell’ingiusto, del disumano, del doloroso, dell’insensato.
 
Vorrei dire soprattutto a Trump che ormai ha il ferale primato di contagiati, che alla disumanità si risponde con più umanità quindi con più civiltà non con meno.
 
Non sprecare una crisi significa emanciparci dalla crisi
Emanciparci nei confronti del male, dell’ingiusto, del disumano, del doloroso e dell’insensato, in sanità significa praticamente emanciparci di più e meglio:
• dalle malattie, dal dolore e dall’angoscia che esse comportano,
• dalle ingiustizie che esse implicano,
• dai limiti culturali che esse tradiscono nelle concezioni di cura loro correlate,
• dalle ristrettezze economiche con le quali esse hanno a che fare,
• da servizi invecchiati nelle loro concezioni e organizzazioni di base,
• dagli sbagli politici fatti in questi 40 anni sulla sanità,
• da una idea fossile di lavoro e di professione, 
• dalle politiche sanitarie asfittiche di basso profilo che non riescono a rispondere in modo adeguato ai bisogni delle persone.
 
Se alla fine di questa tragedia, come leggo in qualche articolo, ci limitassimo, a mettere delle toppe cioè ad aggiustare le terapie intensive, ad organizzare meglio il territorio, a perfezionare la profilassi e la diagnostica, ad assicurare a tutti gli operatori le mascherine, (sia chiaro tutte cose fondamentali e indispensabili da fare) ecc , per me ,sarebbe un pò come sprecare la crisi e quindi sprecare migliaia di migliaia di morti, cioè ridurla ai sui aspetti tecnici e affogarla nel solito vecchio pensiero di cui siamo prigionieri da anni che è quello del “miglioramento senza cambiamento”, della riconferma dello status quo per mezzo della sua razionalizzazione, della semplice gestione dei problemi.
 
Ma si può razionalizzare un’epidemia e ridurla ad un semplice problema di organizzazione di servizi, ditemi voi? Io credo di no, anche se, sia chiaro, riorganizzare i servizi è ovviamente indispensabile.
 
Per me, sul piano politico ciò che è insensato non è né migliorabile né razionalizzabile. Affermando il suo contrario, l’insensato può essere solo riformato.
 
Una super cazzola (il non senso)
Una pandemia, resta per riprendere la distinzione di Frege, tra senso e significato, un evento:
• indubbiamente con tanti significati scientifici quelli in genere richiamati dalla medicina in genere,
• politico suo malgrado che sconvolge e distrugge il mondo con “un senso senza alcun senso”.
 
Questa epidemia, rimanendo solo ai nostri valori costituzionali, è politicamente senza senso, cioè una assurdità assolutamente sconveniente, quindi una vera “super cazzola”.
 
Certamente si tratta di ripensare la sanità a partire dai significati scientifici di pandemia, ma anche di uscire dall’assurdità quindi dal “non senso” definendo o ridefinendo dei valori etici, sociali, politici come quelli che ruotano intorno al valore della vita, della giustizia, del diritto, dell’eguaglianza, della sicurezza.
 
Se l’epidemia ha distrutto il senso dei nostri valori facendo prevalere l’assurdità, questo senso noi dobbiamo ricostruirlo.
Ma per fare ciò quando sarà tempo, ci vuole una “riforma” cioè un atto non solo tecnico ma anche filosofico e politico, cioè qualcosa che esprima la volontà di aggiustare tecnicamente le cose ma che nello stesso tempo accresca e protegga di più i nostri valori costituzionali.
 
Che senso ha riorganizzare i servizi della sanità dopo il coronavirus e mantenere le diseguaglianze o peggio acuirle con il regionalismo differenziato? Che senso ha tutelare la salute pubblica dal coronavirus e nello stesso tempo negare a milioni di cittadini il semplice accesso all’art 32? Che senso ha definire tutele sociali solidali e nello stesso tempo incentivare ciò che rompe la solidarietà come il welfare aziendale, i fondi, le mutue?
 
Emanciparsi dalla tirannide
Questa epidemia non ha un’ora x, scattata la quale, è tutto finito e si ritorna alla normalità, essa è come un elastico che si allungherà nel tempo, anche dopo che avremmo scoperto un vaccino e una terapia e che continuerà a condizionarci dentro e fuori.
Questa epidemia è una tirannide che ci ha obbligati a spendere una quantità enorme di denaro e a mettere a rischio la nostra economia, a deregolare un intero sistema, ad assumere gente impreparata, a correre rischi legali inauditi, a reinventare dalla mattina alla sera servizi complessi come l’ospedale.
 
Da questa tirannide non sarà facile emanciparci.
Non si tratta solo di riportare il sistema nelle regole, di gestirne i costi e renderlo sostenibile rispetto alla devastante crisi economica, di superare gli eccessi strutturali e le ridondanze che sono state create e ricreare gli equilibri compromessi, ma anche di ridiscutere il concetto di normalità.
 
Una nuova normalità
Mi chiedo se questo lavoro anziché puntare a ricostruire una vecchia normalità non debba puntare a costruire un’altra normalità, un’altra idea di sanità, di medicina, di lavoro.
 
Nella normalità prima del coronavirus avevamo certamente regole parametri, standard da rispettare, servizi da usare, ma avevamo anche il regionalismo differenziato, la privatizzazione del sistema, il sistema multi-pilastro, con in più un mucchio di crisi, dell’azienda, della professione medica, della medicina, del territorio, del pronto soccorso, a cui aggiungere le grandi questioni delle diseguaglianze e quindi le grandi ingiustizie, e da ultimo una crescente sfiducia sociale.
 
Chi ce lo fa fare a tornare alla normalità? Non è meglio approfittare del coronavirus per voltare pagina?
 
Conclusioni
Una crisi, una pandemia, migliaia e migliaia di morti, per me valgono una nuova idea di tutela, perché quella vecchia della quale siamo ancora impregnati fino alle ossa, oggi, non funziona più e una nuova idea di tutela vale una quarta riforma. Questa è la mia proposta politica.
 
Ivan Cavicchi

 
 

 

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