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Martedì 07 APRILE 2020
Detenuti e bambini, i nostri “maestri” sul come affrontare l’isolamento



Gentile Direttore,
provo a mettere la mia competenza e la mia esperienza al servizio di una lettura delle preoccupazioni che fanno da sfondo ai limiti che la Covid-19 ha imposto alle libertà di movimento dei cittadini. Da sostenitrice convinta della coazione benigna in vece dell’abbandono - di imposizioni cioè che siano necessarie, individualizzate/progettuali, declinate umanamente, interdisciplinari/interistituzionali - coltivo l’idea che, a rendere tollerabile un obbligo sia la sua necessità, spesso e purtroppo poco e male argomentata. Chi oggi reclama i diritti costituzionali o non ha capito l’emergenza o ama esercitarsi in questioni di lana caprina colpevolmente fuorvianti.
 
Una volta incamerata la necessità della prescrizione di rimanere a casa, vale la pena tenersi al riparo dai tentativi di fomentare in noi lo scontento di altri, di trascinare il nostro animo a una rivolta che non gli appartiene. Vale la pena porsi la seguente domanda: “Cosa trovo insostenibile davvero della attuale detenzione domiciliare?”. Il rinvio ai reclusori non è peregrino. Il carcere rappresenta il domicilio coatto di circa sessantamila cittadini in Italia e l’analogia può rivelarsi utile. Analogia e non sovrapposizione. Proviamo a comparare le due realtà.
 
Cosa rende la detenzione diversa dall’attuale isolamento imposto agli italiani? La prima mira a sospendere e sanzionare condotte criminali, tutelando in tal modo la società e offrendo una sponda riabilitativa al reo. Non si tratta di una coazione salvavita per chi vi è sottoposto, ma protettiva nei confronti di chi non vi è sottoposto. Come pensare che il prigioniero condivida tout court la necessità del suo arresto? L’attuale segregazione, al contrario, non commina una pena, ma serve a proteggere tutti dal rischio di contagio, a non saturare la risposta ospedaliera indispensabile, ad azzerare la replicazione del virus. Siamo necessariamente insieme sulla stessa barca per combattere una battaglia di evitamento.
 
La prigionia vera e propria, inoltre, stabilisce un taglio profondo delle relazioni con la rete familiare e amicale, oltre che un controllo di questa: dagli incontri alle telefonate, con accesso sospeso alla rete e dunque anche agli spettacoli, al cinema, alla musica e alle notizie, fatta eccezione per dei programmi televisivi. Tutte coartazioni che non riguardano l’attuale isolamento domiciliare, poiché non necessarie. Resta quindi intatta la possibilità di scambi virtuali, libertà che ha contribuito a rendere sostenibili le limitazioni cui siamo sottoposti.
 
Il domicilio penitenziario non è la casa del recluso, quella in cui abita da solo o con familiari o affini, bensì una struttura scomoda, dove può essere imposta la coabitazione con soggetti che non si sarebbero mai scelti per amici, presupposto, secondo Dostoevskij, in grado di rendere inemendabile la sofferenza detentiva. Al di qua delle sbarre, capita, è vero, di abitare sotto lo stesso tetto di un persecutore, di genitori abusanti in tutti i sensi, di un individuo che non fu buona idea eleggere a partner. In questo caso l’isolamento domiciliare potrebbe coincidere con una spietata inquietudine, non dissimile dal vissuto di molti prigionieri: a tali situazioni occorrerà pensare quanto prima per evitare prevedibili tragedie. Di solito la casa è il luogo nel quale si desidera tornare, nel quale trascorrere tranquille serate e riposanti fine settimana, non dimentichiamolo. E questo la rende diversa da una cella.
 
Eppure il carcere, così forastico, potrebbe darci lezione di isolamento domestico. I detenuti imparano a trascorrere parti non secondarie della loro vita in pochi metri quadrati, senza necessariamente perdere l’energia esistenziale. Ciascuno di loro sarebbe in grado di insegnare - e lo farebbe in maniera simpatica e convincente - il modo per costruire una routine di sopravvivenza tra quattro mura. L’attività fisica e il mantenimento di una certa forma occupano il tempo di chi abita oltre le sbarre, che ci siano o non ci siano palestre, tra esercizi a terra e camminate interminabili intorno a perimetri impercettibili.
 
Alcuni detenuti leggono libri, ma quasi tutti scrivono e leggono lettere. Lettere stilate a mano, infilate in una busta, sulla quale si appone un francobollo e che finirà dritta dritta in una cassetta postale, che un postino porterà a destinazione e che qualcuno emozionandosi aprirà. Un dono di altri tempi che scalda il cuore. L’emozione della lettera scritta attraversa senza posa l’universo carcerario. I detenuti cucinano e non pochi tra i maschi scoprono capacità culinarie impensate.
 
Tutto ciò ben prima della esplosione dei vari masterchef, perché il carcere anticipa i trend. Si arrangiano con materie prime tanto scadenti e paradossalmente care quanto difficili da reperire, raggiungendo risultati ragguardevoli. I detenuti, ricordava De André, sono i maestri dell’intrattenimento legato a una tazzulella ‘e cafè. I detenuti parlano tra loro e giocano. I detenuti imparano a decifrare la psicologia dell’altro e non si lasciano imbecherare dai pifferai magici. Quando possono, lavorano. Quando vogliono, studiano.
 
Il loro tempo è scandito da una routine carceraria precisa e non sempre piacevole, ma l’invenzione del collage con cui riempiono le ore potrebbe essere di lezione a tutti noi. Di questo collage fa parte la messa a punto dinamica e inconsapevole di un fashion trend fatto di praticità, materiali poveri e idee trasgressivamente creative, il più interessante e preveggente street style. Poi capita che Antonio Gramsci estenda in una cella I quaderni del carcere: egli pensava passeggiando in quei pochi metri, scriveva in piedi con un ginocchio appoggiato a uno sgabello e così trasformò la tragedia della prigionia nella creazione di uno dei testi più letti dall’umanità.
 
E mentre invitiamo i detenuti a lavorare a un kit per l’isolamento ad uso dei ristretti in casa propria, non scordiamo che le carceri italiane attraversano un momento di grande confusione che richiede un brainstorming cui siano chiamati a prendere parte coloro che di carcere si sono seriamente occupati, oltre a chi se ne sta occupando, ma sembra stentare a partorire utili idee sul dafarsi per evitare che la Covid-19 esploda in una prigione impreparata e attonita.
 
Chiudo con una riflessione sui bambini, di cui si parla come di creature sull’orlo di una crisi di nervi a causa dell’impedimento di uscire. Ho visto per anni fanciulli vivere accanto alle loro madri in carcere senza esserne turbati, perché le madri illustravano loro la necessità di una situazione estrema, anziché usarli per rompere una prigionia insopportabile per l’adulto.
 
Quei piccoli costretti in cella capivano quale straordinaria opportunità fosse vivere accanto alla madre, seppur detenuta. Come pensare che il loro fresco atteggiamento filosofico e interrogativo sui fatti della vita non arrivi ad afferrare tale distinguo? E come pensare che l’accesa curiosità che li attraversa non permetta loro di leggere l’isolamento domestico come una nuova avventura?
 
Un intellettuale ebreo ultraottantenne mi parlava l’altro ieri del fatto che, il periodo bellico vissuto in Lombardia, fu per lui, tra i mille rischi che corse con la sua famiglia, non più che una divertentissima avventura. Ecco, rinunciamo al riduzionismo adulto, ai luoghi comuni sull’infanzia e guardiamo i bambini in modo diverso, imparando da loro ad attraversare la presente fase senza lamentarci oltre misura, senza creare inesistenti allarmismi, senza squallide manipolazioni.
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto
 

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