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26 APRILE 2020
La caccia alle streghe contro le Rsa: ma sono realmente colpevoli?

Le RSA, l’anello debole della sanità, sono state additate quasi fossero gli unici focolai dell’infezione. La colpa, se di colpa si tratta, è stata forse quella di aver risposto all’appello in maniera repentina, come la drammaticità della situazione richiedeva. Sapremo accettare le nostre responsabilità, se accertate. Ma non riteniamo giusto essere stati frettolosamente e superficialmente messi alla gogna

Gentile Direttore,
vorrei sottoporre alla sua attenzione alcune perplessità suscitate dalla caccia alle streghe scatenatasi nei confronti delle RSA, nella quale sono rimaste pesantemente coinvolte alcune delle più importanti e storiche fondazioni che offrono all’Italia eccellenze riconosciute in tutta Europa, e che da anni, nel silenzio e nel più completo abbandono si dedicano all’assistenza non solo di anziani non autosufficienti e pluripatologici, ma anche e soprattutto di riabilitazione di forme gravi e gravissime di handicap, neuromotori soprattutto, e lo fanno a livelli anche di ricerca scientifica. Ma questo in pochi lo sanno. E qualcuno fa solo finta di non saperlo.
 
C’è dell’amarezza nel costatare quanto siano costate in termini di vite umane decisioni che magari, con un po’ meno di quella drammatica pressione causata dall’inimmaginabile aggressività del virus, forse non sarebbero state prese; così come errate valutazioni iniziali sulla possibilità di trasformare, in due o tre ore, operatori sanitari espertissimi nell’assistenza ai pluripatologici anziani, persino impossibilitati a vivere di vita autonoma, in esperti infermieri nel trattamento di malati di tanta complessità come i Covid o in tecniche di contenimento di un’epidemia. Così come tanta amarezza ha suscitato la facilità con la quale sono stati tranciati giudizi, senza sapere cosa effettivamente non ha funzionato nelle RSA. Chiaramente noi parliamo delle nostre strutture associate.
 
Le stesse autorità sanitarie del Paese hanno faticato nel delineare e far seguire protocolli appositamente stilati e poi aggiustati, quasi raddoppiati per numero di pagine, in poco meno di un mese da seguire per l’assistenza ai malati Covid-19 nelle RSA. Nel frattempo, è vero, poveri e incolpevoli anziani ricoverati hanno cominciato ad ammalarsi sino a morirne in gran numero. Sono iniziate le prime denunce e gli obiettivi sono stati dirottati tutti sulle RSA, su quelle private in particolare. Abbiamo sopportato sospetti, spesso accuse, anche alcune denunce e sino ad oggi abbiamo taciuto. E lo abbiamo fatto per sedare le polemiche che, in questo tempo difficile per tutti, ci sembravano comunque inutili e dannose. Adesso però si è fatta luce sull’attacco scatenato contro le RSA e i loro responsabili.
 
Come strutture religiose ci sembra quasi di essere stati falso bersaglio di beghe di dubbia natura, in cui compaiono interessi politici incrociati, biechi interessi economici individuali, resi possibili da un’ingannevole interpretazione della legge sulla responsabilità dei medici e delle strutture quasi fosse un metodo per reclamare rimborsi facili - come recitano alcune pubblicità di servizi che si definiscono professionali – messi alla gogna mediatica come avidi approfittatori in una situazione drammatica. Forse l’errore, se errore c’è stato, è da ricercare nell’aver accolto l’invito delle autorità sanitarie ad accogliere i malati covid anche nelle nostre strutture meno indicate per l’emergenza. Voglio ricordare però che ancor prima che lo chiedessero abbiamo trasformato l’organizzazione delle nostre strutture ospedaliere e delle nostre Case di Cura per adattarle all’emergenza e fornire così una risposta pronta e immediata; abbiamo messo a disposizione persino strutture alberghiere per i convalescenti.
 
Ci hanno poi chiesto altri posti letto da reperire tra le RSA e le Case di Riposo per anziani, ma quando alcuni associati, magari più avveduti, hanno risposto con un rifiuto, perchè consapevoli dell’impossibilità di garantire un’assistenza efficace per affrontare la covid-19, ci hanno attaccato pubblicamente, scatenando una campagna mediatica per sottolineare la “scarsa collaboratività” da parte della sanità privata. C’è stata anche qualche dichiarazione pubblica in questo senso da parte di alcuni governatori. Dimenticando quanto le nostre più importanti strutture stavano già facendo accanto al servizio pubblico.
 
Abbiamo chiesto da subito per le RSA coinvolte DPI, ma non solo non ce le hanno concessi: hanno sequestrato in dogana anche quelli che avevamo ordinato privatamente all’estero. Abbiamo chiesto tamponi per i nostri operatori, ma non siamo stati ascoltati. Nella fase iniziale, con gli ospedali in affanno, quando i medici dovevano decidere chi intubare e chi no, se dalle nostre RSA chiamavamo il 112 per chiedere il ricovero di nostri pazienti, conosciuta la loro età, non li accettavano. In alcune regioni era anche circolata una direttiva (fortunatamente poi modificata) in cui si diceva in sostanza che se avevamo un ultrasettantacinquenne pluripatologico e positivo ce lo dovevamo comunque tenere. So di colleghi che alcune volte hanno trovato il modo per farli ricoverare, ma nella maggior parte dei casi li abbiamo dovuti tenere anche se non in grado di poterli curare come andava fatto: non ne avevamo né i mezzi né le competenze specifiche. E sono morti.
 
Quando abbiamo protestato, manifestando quelle esigenze imprescindibili per poter fornire assistenza adeguata ai malati, con lettere inviate dal Capo del Governo al più piccolo responsabile della Protezione civile vicino casa, hanno cominciato a piovere denunce e minacce di ispezioni, peraltro poi verificatesi.
 
Certo il periodo particolare espone tutti a eventuali malfunzionamenti e a decisioni affrettate che potrebbero non risultare congrue. Ma dobbiamo ricordare, e lo dobbiamo fare tutti, che c’è stato un momento in cui l’emergenza di liberare posti in rianimazione e in terapia subintensiva ha fatto venir meno ogni ostacolo e, a volte, forse persino il buonsenso. Ma lo stesso è capitato in ben altre e più importanti strutture, laddove la cultura ospedaliera è di casa. Cosa questa che, per loro natura, non ha la stessa valenza in centri deputati principalmente all’assistenza personale di ultraottantenni pluripatologici, che necessitano innanzitutto di essere seguiti nell’espletamento delle funzioni personali quotidiane, proprio perché non autosufficienti, oltre che nell’assunzione della terapia farmacologica prescritta.
 
Le RSA, l’anello debole della sanità, sono state additate quasi fossero gli unici focolai dell’infezione. Cosa inizialmente imputata addirittura ai grandi ospedali. A mettere le cose in chiaro una ricerca di questi giorni sviluppata dalla CERGAS Bocconi dalla quale si evincono i sette motivi che hanno condotto al disastro:
1) Le RSA sono state lasciate sole nella gestione e nella prevenzione;
 
2) i contatti con la rete ospedaliera e più in generale con la sanità territoriale sono stati bloccati dalla necessità di proteggere gli ospedali per un eccesso di ingressi;
 
3) Non è stato possibile stringere con i medici di famiglia se non sporadici contatti;
 
4) In alcune regioni è stato chiesto di ospitare malati covid dimessi dagli ospedali, senza considerare a quale rischio si andava incontro;
 
5) non è stato distribuito alcun DPI se non dopo aver provveduto a rifornire gli ospedali, ma di giorni, settimane ne sono passati troppi per non causare danni;
 
6) l’attività di screening tramite tampone non è stata prevista e non è stata consentita neppure dietro pressanti richieste.
 
E noi aggiungiamo un settimo punto: ricovero rifiutato perché ultrasettantacinquenne con pluripatologia sebbene infettato.
 
A tutti è sempre stato noto che RSA è l’acronimo di Residenza Sanitaria Assistenziale, e non di ospedale, casa di cura o istituto scientifico; per non parlare poi delle case di riposo, la cui regolamentazione risale alla legge Crispi del 1980. La colpa, se di colpa si tratta, è stata forse quella di aver risposto all’appello in maniera repentina, come la drammaticità della situazione richiedeva. Ora ci si è forse resi conto dell’errore: prima di chiedere letti e mandare malati, forse sarebbe stato opportuno un accertamento, da parte delle ASL o ATS che dir si voglia, di conformità, e quindi un accompagnamento e un’assistenza, almeno iniziale, nei confronti di quei pur eroici operatori sanitari abituati a ben altre mansioni e forse non completamente preparati all’assistenza di pazienti Covid e alla gestione di una patologia con una simile aggressività virale.
 
E la cosa che più inquieta è che alcune personalità del SSR – come hanno già denunciato le altre Associazioni della sanità privata - hanno avuto l’ardire di affermare che le strutture sociosanitarie sono nella loro quasi generalità realtà private, ma non specificando che si intendesse dire di ‘diritto privato’, quasi volendo far trapelare l’dea che esse agiscano in base a decisioni proprie e perciò debbono assumersi il rischio complessivo dell'impresa.
 
Dimenticando – vogliamo sperare non intenzionalmente - che, per quasi tutte, è l’accreditamento istituzionale a costituire il presupposto all’erogazione di prestazioni per conto del sistema sanitario regionale, il quale da solo stabilisce requisiti, regole di funzionamento, controlli e, in caso di contrattualizzazione, i riconoscimenti economici. Quest’ultimo aspetto dovrebbe far anche riflettere sul fatto che il mantenimento degli ospiti in buona salute, oltre ad essere un imprescindibile obiettivo etico di chi opera nei servizi residenziali per anziani pluripatologici e non autosufficienti, rappresenta la condizione stessa di sussistenza dell’iniziativa accreditata e a contratto, in quanto le degenze giornaliere ricevono un riconoscimento economico (quota sanitaria) dalle Regioni.
 
Ricordiamo inoltre, che le nostre Istituzioni sono per statuto no profit, caratteristica non di secondaria importanza. Eppure non è mancata l’accusa che le RSA abbiano offerto letti in cambio di soldi, che altro non erano se non la normale copertura dei costi aggiuntivi, così come è avvenuto e avviene in ogni altra istituzione sanitaria, pubblica o privata che sia, quando deve impegnare uomini e strutture. Non è nostra intenzione polemizzare, non è nel nostro stile. Vogliamo solo precisare la realtà delle cose.
 
Sapremo accettare le nostre responsabilità, se accertate. Ma non riteniamo giusto essere stati frettolosamente e superficialmente messi alla gogna. Quando poi quello che abbiamo lamentato lo ritroviamo oggi nel Documenti dell’ISS diffusi dal Ministero in due puntate.
 
 
Mauro Mattiacci
Direttore Generale ARIS

  

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