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Martedì 28 APRILE 2020
Monica Bettoni: “Ecco perché, da medico in pensione, ho deciso di dare una mano rispondendo alla chiamata della Protezione Civile”

Non ho risposto alla chiamata per andare al fronte a combattere una guerra, come è stato impropriamente detto. Ma, di certo, sono andata con emozione, timore e consapevole di tutti i miei limiti, ad affrontare una situazione inedita e sconosciuta, al solo scopo di curare e/o aiutare a curare, o almeno a tentare di farlo. Perché questo un medico fa. Accorre e soccorre. A 25 anni, quando si è freschi di studi, a 50, nel pieno dell’esercizio della professione, a 70 quando si sono tirati i remi in barca e si ha un bagaglio con varie esperienze

Le motivazioni di una scelta
Dopo alcuni anni di pensionamento felicemente ‘normale’, in cui ho potuto dare spazio e godermi, non solo la famiglia, ma anche interessi accantonati, amicizie e viaggi, senza mai tralasciare del tutto i miei legami con la medicina e con i cambiamenti dell’organizzazione sanitaria, mi sono trovata catapultata nel lavoro ‘attivo di cura’ in un momento di grande difficoltà, per l’Italia, per i servizi territoriali e ospedalieri e per coloro che dovevano usufruirne. In un primo momento ha prevalso lo sconcerto, la preoccupazione, l’incredulità e lo stupore per quanto avveniva, così lontano e, almeno apparentemente, estraneo alle nostre conoscenze scientifiche, che, lo sappiamo, sono sempre in evoluzione, ma che pure ci danno qualche certezza, qualche strada battuta, se non già percorsa.
 
Di fronte al crescere delle emergenze negli ospedali, all’abnegazione delle mie colleghe e dei miei colleghi che stavano lì, spesso senza dispositivi di protezione, in prima linea, ho deciso di rispondere all’appello della Protezione civile.
Era l’unica cosa che potessi fare per il mio Paese , per la categoria cui appartengo e anche per sfuggire al senso di impotenza che mi attanagliava, costretta in casa, peraltro con una figlia medico che alle sue responsabilità non poteva né voleva sottrarsi.
 
Non ho risposto alla chiamata per andare al fronte a combattere una guerra, come è stato impropriamente detto, indulgendo ad un linguaggio retorico ed inappropriato, ma, di certo, sono andata con emozione, timore e consapevole di tutti i miei limiti, ad affrontare una situazione inedita e sconosciuta, al solo scopo di curare e/o aiutare a curare, o almeno a tentare di farlo.
 
Perché questo un medico fa. Accorre e soccorre. A 25 anni, quando si è freschi di studi, a 50, nel pieno dell’esercizio della professione, a 70 quando si sono tirati i remi in barca e si ha un bagaglio con varie esperienze.
 
Sono quindi partita. Destinazione Ospedale di Vaio, Fidenza, interamente riservato ai malati Covid positivi, con la disponibilità di circa 300 posti letto.
Per inquadrare il contesto: in questo ospedale l’ondata di arrivo dei malati al Pronto Soccorso è stata precoce e quasi ha seguito la linea ferroviaria, che parte da Milano e passa per Lodi, Codogno, Piacenza, Fidenza, Parma. Con molta pendolarità, complice un grande outlet, che accoglie visitatori della Lombardia e dell’Emilia Romagna.
 
Era un viaggio in cui mettevo alla prova la dottoressa che ero, era un viaggio verso orizzonti di conoscenze ancora vaghe e di esperienze mai esperite. Di fatto cominciavo un lavoro nuovo, seppure limitato nel tempo e nello spazio. E ho “immagazzinato” emozioni, paure, ma anche riflessioni per un futuro prossimo, incerto, in cui non sappiamo se, quando, come e quanto potremmo trovarci ad affrontare altre devastanti emergenze.
Ma soprattutto si è rivelato fondamentale, come ho sempre fatto, rivolgere lo sguardo e l’attenzione ai/alle pazienti, malati, curati in ospedale, in casa, nelle residenze assistenziali.
 
I pazienti
E comincerei da qui, da ciò che ho appreso e su cui ho riflettuto.
La morte, si è sempre detto, è una ‘livella’, nel senso che, una volta sopraggiunta, ricchezza e povertà non contano più, per chi ha avuto tanto e per chi non ha avuto niente. Ma per chi si ammala di coronavirus, la ‘livella’ arriva prima, inizia che sei ancora in grado di capire e annulla qualsiasi distinzione, prima e non dopo. Vecchi o giovani, donne o uomini, famosi o sconosciuti, colti o analfabeti, avvocati o netturbini, operai o dottori, modelle o colf, con famiglie numerose o senza famiglia, con figli o senza figli, con possibilità di andare in cliniche costose o di usufruire dell’assistenza pubblica tutte e tutti si sono ritrovati d’improvviso, se non abbandonati, comunque soli.
 
Soli nella malattia, soli mentre aspettano la morte, soli nella morte. Infetti, quindi isolati e distanziati subito e sempre durante la degenza. Per tutti scompaiono il volto noto di un familiare; anche i volti di coloro che li curano, mascherati e bardati per evitare il contagio, sono invisibili e ne possono solo, forse, incrociare uno sguardo. Non hanno il conforto di una mano da toccare o da cui essere toccati senza la barriera asettica di un guanto. Cellulari e Ipad , per chi li sa usare , diventano il tramite con il mondo esterno, finché restano in vita. E, quelli che muoiono, sono soli anche nella sepoltura.
 
Ma sono soli anche coloro che, contratta la malattia, hanno la ‘fortuna’ di potersi curare in casa, seppure fra mura e oggetti conosciuti e il conforto di qualche voce dietro la porta.
Un senso di solitudine ha pervaso anche noi volontari/e, alloggiati/e in tristi camere di albergo, senza poter uscire neppure alla fine del turno di lavoro e senza poter scambiarsi opinioni e notizie.
 
Nell’ospedale dove ho lavorato molti pazienti, soprattutto donne, spesso ultraottantenni, (il vantaggio di noi donne..!!) provenivano dalle Residenze Sanitarie del territorio. Probabilmente il contagio è avvenuto là e si è abbattuto su corpi già provati dall’età e da tante altre patologie concomitanti. In loro la solitudine era forse già iniziata da tanto, dal momento del distacco dagli affetti più cari.
 
Il personale sanitario
Senza sprecare attributi fuorvianti - eroi, guerrieri, o altro… - i medici hanno fatto quello che il loro mestiere, il più bello del mondo, in quanto cumula attività di relazione, utilità, apprendimento continuo, ha richiesto loro.
Ne ho avuto testimonianza diretta e con me ne hanno avuto testimonianza altri volontari medici partiti , in quello stesso periodo, per altre destinazioni.
Con scienza e coscienza, con senso del dovere e secondo necessità, si sono presi cura. Ma l’urgenza e il dilagare dell’epidemia li ha resi meno uguali.
 
Chi si è trovato a fronteggiare gli inizi del contagio era disarmato, senza protezioni, senza una conoscenza della malattia, del suo decorso, delle sue multiformi manifestazioni, dei trattamenti più adeguati, che, fortunatamente, via via sono stati messi a punto. Mentre, in seguito, occorre sottolinearlo, chi ha potuto attrezzarsi, o è stato messo in condizione di farlo, è riuscito a sopravvivere, sano o malato in modo non grave, e a curare bene i malati, anche grazie al progressivo incremento di protocolli terapeutici, validi e tempestivi.
 
Soprattutto nella prima fase dell’epidemia, troppi medici sono morti: vere e proprie vittime del lavoro e sul lavoro. In primis la classe medica, ma anche il personale infermieristico e di assistenza, hanno pagato un prezzo esorbitante, davvero inaccettabile. E di questo dovremo discutere, analizzando le cause e le responsabilità senza infingimenti, soprattutto cercando di capire affinché, dagli eventuali errori, si possa imparare a non sbagliare più. Lo dobbiamo a queste nostre colleghe e a questi nostri colleghi, ai nostri infermieri e alle nostre infermiere, a tutta una categoria, troppo spesso oggetto soltanto di critiche. La malasanità fa sempre notizia, la buona sanità non la fa.
 
E’ ovvio sottolineare, sempre come monito per il futuro, che i limiti, organizzativi e strutturali sono stati determinanti . Molti ospedali, convertiti in ospedali Covid, non avevano un reparto di malattie infettive, in quanto considerate, da tutti noi, pressoché scomparse! Ciò significa che erano sprovvisti dei requisiti indispensabili per la prevenzione del contagio, primi tra tutti le zone filtro e un personale adeguatamente formato e informato. Troppo più facile operare allo Spallanzani! Eppure… nonostante le disparità di partenza, ce l’hanno fatta. Non sono stati gli eroi a farcela, ma i professionisti seri, capaci, scrupolosi ed efficienti, spesso giovanissimi, che non sono arretrati davanti alle difficoltà e al potenziale pericolo e non sono rifuggiti dalle loro responsabilità.
 
Quali insegnamenti per il futuro?
Per le cose fin qui dette, frutto della mia breve esperienza sul campo, ma che emergono anche dal confronto con altri operatori e operatrici, e senza voler essere esaustiva, le modifiche da apportare alla programmazione sanitaria regionale e nazionale sono tante e profonde. A questa necessità non è certamente estranea, la sistemazione, se non vogliamo definirla vera e propria revisione, delle competenze Stato /Regioni in materia di sanità e salute.
Per i medici: ripeto, noi medici, non siamo e non vogliamo essere considerati ‘eroi’. Vogliamo semplicemente essere considerati. Sempre. E così tutto il personale della sanità.
 
Nella qualità di professionisti capaci di far fronte a qualsiasi situazione, con dedizione ma non a ranghi ridotti e non a tutti i costi.
La necessaria riconversione delle strutture sanitarie approntate per l’emergenza della pandemia quali conseguenze porterà in termini di sostenibilità e soprattutto si dovrà di nuovo passare ad una fase di risparmi economici sulla pelle degli operatori, dopo le tante risorse immesse recentemente nella sanità?
 
Un discorso a parte, che investe complessivamente la sfera sociale e civile, ben oltre le problematiche meramente sanitarie e su cui, come società intera e come istituzioni, dobbiamo seriamente riflettere, merita la strage che si è perpetrata nelle residenze per anziani. Non possiamo rimanere insensibili al dramma della scomparsa di una generazione. E anche in questo caso, medici e personale di assistenza hanno fatto quel che hanno potuto, anche loro in solitudine.
 
Residenze Sanitarie Assistite, Case di Riposo, spesso non adeguate dal punto di vista strutturale e sanitario, superaffollate, hanno generato contagi e decessi in un numero spaventoso…
Questa vicenda ha ancora di più evidenziato, se ce n’era bisogno, che non sono tollerabili grandi carrozzoni ma occorre realizzare piccole strutture, da considerare come ultima possibilità ; strutture accoglienti, dal volto umano, radicate nei luoghi dove l’anziano ha le proprie radici e dove possa vivere adeguatamente assistito gli ultimi anni della sua vita.
 
Ma questa emergenza ha anche messo in luce la carenza di una rete territoriale adeguata non solo per le persone anziane ma per tutti coloro che non necessitano di cure ospedaliere ma che hanno il diritto di avere una diagnosi, di essere sorvegliati, trattati, confortati. Ciò vale per la gestione dell’epidemia ma anche per la gestione domiciliare di tutti quei cittadini affetti da varie patologie croniche. Molti hanno posto l’accento sulla necessità di potenziare le cure primarie e la medicina d’iniziativa, che mostrano grandi differenziazioni regionali. Ma siamo sicuri che l’attuale modello sia adeguato? Che i profili contrattuali e convenzionali del personale ben si addicano alla imponenza della sfida? Riflettiamoci
 
Tornando invece allo specifico della mia esperienza: ho maturato un grande rispetto per le giovani donne medico, ormai tante, ovunque. Per quelle incontrate all’Ospedale di Vaio: la paura del contagio per sé e i propri familiari, , giustamente sempre presente, non ha mai impedito loro di svolgere appieno un’assistenza adeguata alle necessità dei malati. Si sono fatte carico anche dei rapporti con i loro parenti, che ragguagliavano giornalmente sulle condizioni dei congiunti, spesso non autosufficienti o diventati tali a seguito della malattia. Prima di cedere allo sconforto e, talvolta, anche al pianto, si sono rimboccate le maniche, anzi, in questo caso, si sono coperte come è obbligo fare, affrontando con coraggio e umanità quelle prove difficili, di cui non trovi traccia nei trattati di medicina.
 
Sono partita con ansia ed emozione. Sono ritornata con più forza e fiducia, perché ho imparato molto sulla gestione di una infezione terribile; perché ho conosciuto persone straordinarie che rappresentano una speranza per la scienza medica e per il nostro Paese.

Monica Bettoni
Comitato Scientifico Forum Risk Management in Sanità

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