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Lunedì 21 SETTEMBRE 2020
Riformare per discontinuità?

Ci possiamo ancora permettere difformità di intenti tra le varie famiglie professionali? O non sarà ora di pensare ai rinnovi di CCNL e Accordi in forte discontinuità con il passato e in linea con un pensiero riformatore del Ssn.

Gentile Direttore,
leggendo l’intervento del Prof Cavicchi (Quel giorno che Luciano Lama mi chiamò per sapere cosa avessi mai scritto sulla sanità per far arrabbiare il PCI”, in QS del 17 settembre), vorrei formulare qualche considerazione a caldo. Innanzi tutto devo dire che in questa difficilissima fase di gestione del Covid, non va sottostimato il fatto che il sistema ha potuto contare su strumenti e risorse messe a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale dal Governo e dalle Regioni.
 
Senza una normativa di emergenza, che va dalla deroga ai requisiti strutturali, ordinariamente richiesti, per i nuovi reparti che in pochi giorni abbiamo dovuto aprire e convertire, fino alle modalità di acquisizione del personale, e senza le risorse economiche che abbiamo potuto utilizzare, questo Paese non ce l’avrebbe fatta.
 
Ma non ce l’avrebbe fatta nemmeno senza una filiera di professionisti capaci, responsabili e motivati, che si sono formati all’interno delle nostre Aziende in anni di sacrifici, ristrettezze, duro lavoro per trarre fuori il SSN dalle secche dell’indebitamento nella metà delle Regioni italiane. Per raggiungere questo risultato, la Sanità, a partire dagli anni ’90, ha dovuto reingegnerizzarsi, trovare soluzioni organizzative di efficientamento, formare quadri intermedi che governassero i processi, imparare a lavorare in team. 
 
Se analizziamo determinati processi di questi ultimi 30 anni, certamente capiremo che senza aziendalizzazione queste famiglie professionali non avrebbero maturato una capacità manageriale, una sensibilizzazione alla sostenibilità del sistema, una attenzione alla necessità del “dover rendere conto”; molte di queste capacità acquisite ci hanno consentito di far fronte ad una situazione difficile da gestire in tutto il mondo, dove l’Italia e’ uscita sicuramente a testa alta.
 
E sarebbe ingiusto e autolesionista non riconoscere questo risultato realizzato in condizioni inimmaginabili all’inizio di quest’anno. Altra questione, più in generale, è riflettere se le aziende, così come si sono venute evolvendo (perché, comunque, hanno subito, in questi lunghi anni, una profonda metamorfosi; basti pensare agli accorpamenti, ai rapporti con l’holding regionale, alle centrali regionali di programmazione e servizi), dopo quasi 30 anni dalla loro istituzione, debbano essere riformate per una governance integrata dei bisogni dei cittadini.
 
Una riforma va fatta e credo vada fatta anche eventualmente per discontinuità. E una riforma è tanto più necessaria, in considerazione delle tante risorse che arriveranno sulla sanità. Se il sistema va riformato, questo è il momento.
Sarebbe gravissimo investire in via stabile senza avere un chiaro quadro di riferimento, di cui il prof. Cavicchi prova a delineare alcuni punti cardine:
1. La salute collettiva non può essere solo un diritto, ma anche un dovere della comunità. Occorre riscoprire un senso di appartenenza perché è vero che il SSN è della comunità e non per la comunità. Eppure, tanti segnali ci dicono che, neppure in questo momento di estremo sacrificio del SSN, la Comunità lo percepisce come proprio, ma come altro da sé. Anzi, il momento che dovrebbe essere delle alleanze ora più che mai (alleanze tra operatori e cittadini, alleanze tra direzioni strategiche e professionisti, alleanze tra famiglie di professionisti, alleanze tra mondo sanitario e comunità locali), rischia di trasformarsi in ennesima storia di conflitti, alla quale è urgentissimo porre rimedio (uno degli esempi è la questione della responsabilità professionale sanitaria in epoca Covid, che le aziende ed i professionisti non possono affrontare senza che si tenga conto della eccezionalità della situazione).
 
Viviamo una fase storica nella quale se c’è un dogma assoluto è quello della frammentarietà e degli interessi contrapposti, nella quale la parola dovere non si usa quasi mai: dovere della comunità di garantire nella prevenzione il benessere proprio e altrui, di tutelare il proprio sistema e i propri operatori (non dimentichiamo che il Parlamento ha dovuto approvare una legge contro la violenza sugli operatori sanitari), di pagare le tasse per un servizio realmente universalistico. Ma, soprattutto nell’ottica di una visione di salute one health, non si può prescindere da una sottolineatura di un dovere individuale teso a preservare la salute della comunità, in tutte le politiche tese al benessere collettivo, con un senso di responsabilità imprescindibile soprattutto in questo momento storico.
 
2. E’ venuto il momento di recuperare un rapporto istituzionale con le Comunità locali. Quest’anno è il ventennale della legge 328 (cd. legge Turco) che ha segnato la riforma dei servizi sociali in Italia. Se non vogliamo che l’integrazione socio-assistenziale resti uno slogan, in un Paese invecchiato e in molte aree impoverito, bisogna stabilire ora le nuove regole, le linee di finanziamento, gli obiettivi comuni, per evitare che il SSN debba continuare a rispondere anche ad esigenze sociali per le quali non è attrezzato e che i Comuni si trovino ad affrontare situazioni difficili, che hanno ricadute spesso anche assistenziali.
 
La vicenda del Covid ci ha insegnato che la salute pubblica va tutelata non solo nelle strutture assistenziali, governate dal SSN, ma anche nelle strutture sociali gestite dai Comuni, come pure nelle strutture che si trovano su quei territori (si pensi alle case di riposo). E’ il momento di monitorare integralmente questa rete e utilizzarla sia per la promozione di sani stili di vita, che per trovare intelligenti e integrali soluzioni di presa in carico, coinvolgendo in via diretta anche il terzo settore, le associazioni dei pazienti, i care giver, con unica cabina di regia. Non a caso, l’Anci ha proposto di recente un emendamento in sede di conversione al decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” che mira a rendere più chiaro il rapporto tra il codice dei contratti pubblici e il codice del terzo settore in materia di affidamento di servizi agli enti del Terzo settore, per valorizzare ed agevolare la possibile convergenza sulla realizzazione delle attività di interesse generale fra la Pubblica Amministrazione ed i soggetti espressione del Terzo settore.
 
In molte realtà territoriali con il ruolo attivo delle Federazioni regionali di Federsanità (che ha assunto la nuova denominazione di Confederazione delle Federsanità Anci regionali), il raccordo tra Sanità ed enti locali ha dato luogo ad un rapporto virtuoso di reciproco supporto per una integrale presa in carico dei soggetti socialmente più fragili. Federsanità, insieme ad Anci welfare, ha avviato, immediatamente prima della fase pandemica, tre tavoli di discussione tematica e propositiva su Integrazione socio sanitaria e presa in carico sui territori, Accessibilità ai servizi e facilitazione dei percorsi ai cittadini, Prevenzione one health e indicatori di benessere, dai quali vorremmo scaturissero proposte di riforma del sistema.
 
Federsanità ed Anci hanno organizzato, in questa ottica sinergica, un dibattito finalizzato all’approfondimento di questa tematica, che si terrà a Bari il prossimo 8 ottobre, nell’ambito del Forum risk dal titolo “L’integrazione tra sociale e sanitario oggi: sfide ed opportunità a 20 anni dalla legge 328/2000”. La grande sfida di una riforma del SSN è la presa in carico dei soggetti fragili secondo principi di prossimità, sostenibilità, facilità di accesso, equità e non può prescindere da un ripensamento della sinergia istituzionale sul territorio con le comunità locali. Ovviamente una ipotesi di riforma deve fare i conti con un forte coordinamento delle tecnostrutture regionali, strumento vincente nella guerra contro il Covid, con una posizione equilibrata sul regionalismo differenziato, in raccordo con il governo centrale del sistema, con linee di finanziamento che devono coincidere con le linee di attività (definizione di un budget integrale di salute), da monitorare con indicatori stringenti, che oggi mancano, affinché vi sia la giusta responsabilizzazione degli attori in gioco e una simmetria tra linee di finanziamento e linee di responsabilità.
 
3. Non saremo in grado di affrontare nessuna riforma senza una seria riforma del lavoro dei nostri professionisti. Basti pensare al distretto, che dovrebbe essere la forza propulsiva sul territorio (molto suggestiva la proposta del prof. Cavicchi di riformarlo nel senso di“insieme comunitario di prossimità”; Federsanità ne discuterà al Forum di Bari l’8 ottobre con un convegno dal titolo “Il Distretto: quale futuro nel nuovo panorama sanitario?”), dove insistono professionisti con statuti giuridici ed economici difformi e difficilmente integrabili tra loro: medici dipendenti del SSN, con un CCNL che ha un impianto rigidamente legato ai silos delle strutture e una retribuzione pressoché uguale per tutti, a parità di incarico, quasi totalmente deprivata di retribuzione di risultato, non competitiva con il settore privato e priva anche di incentivi a nuove forme organizzative (incarichi di governo dei processi, incentivi ai team itineranti, incentivi per mobilità verso sedi disagiate); ci sono poi i MMG, Pls, medici di continuità assistenziale, con loro accordi e dinamiche retributive; gli specialisti ambulatoriali, anch’essi con specifico accordo e modalità di remunerazione diverse dagli uni e dagli altri; ora si aggiunge il personale delle Usca, creazione Covid di grande utilità e l’infermiere di comunità, la cui ottimale collocazione ha scatenato tante discussioni in casa Fimmg.
 
Ci possiamo ancora permettere difformità di intenti tra le varie famiglie professionali? O non sarà ora di pensare ai rinnovi di CCNL e Accordi in forte discontinuità con il passato e in linea con un pensiero riformatore del SSN?
 
Tiziana Frittelli
Presidente di Federsanità

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