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Mercoledì 30 SETTEMBRE 2020
Il dibattito sull’Ebm. L’evidenza non deve mai diventare un “ergastolo” per il medico

Proseguiamo il dibattito sollevato dall'ultimo libro di Ivan Cavicchi sulle evidenze scientifiche in medicina con Maurizio Benato. “Appare abbastanza chiaro che l’aiuto offerto dalla EBM non può trasformarsi in un ergastolo teorico e pratico per i medici. Anche per i medici, così per Albert Einstein, nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna autorità umana pena venir travolto dalle risate degli dei”

Esiste la verità in medicina? Parlare di verità in medicina, come d’altro canto per altri saperi, è rendersi conto da subito del carattere vertiginoso della sua ricerca e delle basi fragili della sua esistenza. Forse per questo è più proficuo rinunciare alla radicalità della domanda e esplorare invece con umiltà il suo senso ristretto come conformità a regole di validità preventivamente stabilite e che abbiano un loro senso in qualche funzionalità o utilità per il paziente. È questa la prima riflessione, che mi pongo, dopo aver letto l’ultimo lavoro di Ivan Cavicchi, Evidenza scientifica in Medicina, l’uso pragmatico della Verità.

Augusto Murri, il “sommo dei clinici medici” a cavallo tra Ottocento e Novecento, esortava i medici del tempo ad anteporre la ragione ai fatti e a non lasciarsi sedurre dai falsi positivismi. Fare diagnosi per il grande clinico era né più né meno che stabilire una proposizione e di questa affermava “… ora una proposizione può essere errata sia perché di fatto è falsa, sia perché dalla base non falsa s’é costruito un edifizio che quella non può sostenere …”. Tutte le nostre verità sono concetti relativi allo stato delle nostre cognizioni di fatto, per cui concludeva “… si godano pure i meta-fisici i loro veri eterni, (…) noi preferiamo i nostri errori d’oggi e a noi basta sapere che questi contengono un po’ più di vero degli errori di ieri”. Mutatis mutandis, oggi gli strali del Murri sarebbero rivolti ai meta-analisti ovvero ai devoti alla causa della EBM.

E vengo subito al tema sollevato da Ivan Cavicchi sul come usare in medicina le evidenze scientifiche.

La tradizione dell’Evidence-based Medicine ha sempre interpretato l’appropriatezza terapeutica come un requisito la cui efficacia risulterebbe direttamente proporzionale alla possibilità di definire, mediante proiezioni statistico-predittive, i protocolli della cura; una prospettiva con l’obiettivo di “sostenere” l’esperienza clinica con un’esperienza scientifica “collettiva” che prefiguri evidenze obiettive nella scelta delle terapie. Una prospettiva con indubbi successi e utili vantaggi, ma che deve tenere presente anche grossi limiti.

La scuola Padovana del professor Mario Austoni, in cui mi sono formato, non ha risparmiato diverse critiche fin dai primi esordi sulla qualità della ricerca (non si tratta solo di farla meglio, ma di scelta dei campi di ricerca che non devono essere dettati unicamente dall’agenda di chi è portatore di interessi, implicando trasparenza e conflitti di interesse, finanziamenti e relazioni poco chiare con l’industria), sproporzione tra l’investimento nella ricerca farmacologica rispetto ad altre aree della medicina (per esempio la Medicina Generale dove spesso si è costretti a rinunciare a inutili lezioni di scienza e dove vige un quotidiano rapporto negoziale...), uso di metodologia standard applicata a problematiche diverse, mancanza di una partecipazione esperta degli stakeholders (pazienti ecc.) e dei gruppi dove si producono le linee guida, la mancanza di un fondo allocato per la ricerca indipendente (l’80% degli studi clinici controllati fatti in Italia sono finanziati dall’industria).

C’è anche dell’altro, senza voler ulteriormente svilire questo popolare approccio clinico, qualcos’altro che si relaziona con la struttura logica e i requisiti epistemologici della conoscenza e quindi della ricerca della verità. Partiamo dal fatto che le evidenze individuate in maniera statistica non rappresentano affatto esperienze collettive. Ho appreso nel corso della mia vita professionale che la predizione statistica può raggiungere delle evidenze solo a condizione che: l’algoritmica statistica venga applicata ad un’ipotesi definibile con chiarezza; l’inferenza logica che lega le condizioni iniziali dell’esperimento ai risultati si regga su pochi focus point (condizione epistemologica riduzionista per ottenere evidenze sperimentali); la sperimentazione venga preventivamente “epurata” da tutti quei fattori che potrebbero alterare la “purezza” dell’esperimento.
 
È intuitivo il fatto che questi requisiti non possano essere rispettati nei sistemi (sia fisici, sia biologici) complessi e che si trovino in uno stato di instabilità. E si tratta di una instabilità connessa alla particolare risposta del paziente, sia nei confronti di una specifica patologia, sia nei confronti della somministrazione di uno specifico farmaco. Si pensi, ad esempio, all’instabilità dei contesti oncologici, oppure dei contesti segnati dal concorso di più patologie.
 
Mi fermo qui, per dire che i medici sono sempre stati consapevoli che i fatti nella clinica, come d’altro canto in ogni altra scienza, sono artefatti che vengono fatti, rifatti, cancellati tramite costruzioni e decostruzioni teoriche e, pertanto, nulla è meno evidente del concetto di “evidenza” come asseriva uno dei massimi rappresentati del realismo del secolo scorso, il filosofo George Edward Moore. Il medico è un interprete, lo era in passato e lo è anche oggi. Le sue diagnosi sono spiegazioni storiche che possono venir confermate o falsificate e sono interpretazioni di “segni”, relative ai dati di osservazione disponibili. Appare abbastanza chiaro che l’aiuto offerto dalla EBM non può trasformarsi in un ergastolo teorico e pratico per i medici. Anche per i medici, così per Albert Einstein, nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna autorità umana pena venir travolto dalle risate degli dei.
 
E allora? Giustamente Ivan Cavicchi auspica una nuova formazione per i medici. Non possiamo dimenticare che nel corso degli studi medici vengono abitualmente impiegati concetti quali fatto, oggettività, ipotesi, teoria, legge, prova, controprova, verifica, conferma, falsificazione, osservazione, probabilità, spiegazione, esperimento, determinismo, finalismo, riduzionismo. Ma di questi concetti raramente viene fornita allo studente una informazione critica sul loro valore e sulla reale portata di ciascuno. L’insegnamento della medicina viene a mancare degli strumenti metodologici per sottoporre ad analisi gli scopi e valori della disciplina medica.
 
Lo studente di medicina apprende in modo acritico e spesso in maniera approssimativa concetti che costituiscono l'ossatura del suo modo di pensare, di un metodo di ragionamento che lo dovrebbe condurre sempre a privilegiare il confronto abbandonando assolutismi del sapere che spesso appaiono un ostacolo più che una risorsa terapeutica. Dobbiamo mettere lo studente in grado di conoscere le caratteristiche fondamentali della conoscenza scientifica e di distinguere questa da altre forme di conoscenza (storica, estetica, giuridica, retorica ecc.). Non da ultimo questi insegnamenti dovrebbero mettere il futuro medico al riparo dall’incapacità di riconoscere la “verità scientifica” dalla pseudoscienza che lede nel profondo il decoro e dignità della professione.

Una rinnovata formazione non può prescindere da nuove modalità di reclutamento degli idonei a questo percorso professionale, reclutamento che sappia valorizzare la passione che mai dovrebbe affievolirsi nella vita professionale, un impegno indomito nel cercare la giusta soluzione e offrire comunque una strada quando non è possibile offrire una soluzione. “Un medico senza passione non sente la vita e la morte, può forse scorgere la malattia ma non vedrà mai il malato” (Vito Cagli).
 
Maurizio Benato
Componente Consulta deontologica Fnomceo
 
Leggi gli articoli precedenti di Gensini et al., di Manfellotto, di Mantegazza, di Maria Teresa Iannone, di Giuseppe Familiari e Ornella Mancin.

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