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Lunedì 19 OTTOBRE 2020
Se la salute e la sanità diventano fattori di “sicurezza nazionale”



Gentile Direttore,
la discussione sul nuovo libro di Cavicchi si è, di fatto, trasformata in un riesame del valore dell'EBM giungendo, con accenti diversi, a riconfermare idee consolidate: l'EBM è uno strumento ineliminabile per dare ordine alla sterminata produzione scientifica realizzando, al posto delle antiche leges artis che non erano altro che le intuizioni dei maestri, una lettura delle evidenze statisticamente ordinata.
 
Su questo tema si è innescato un confronto epistemologico sui concetti di verità, di prova, di verificazione, di norma e così via, inserito nel grande fiume del dibattito filosofico e scientifico, sempre più vivo per i continui progressi della scienza e della tecnica.
 
Una lettura interessante ma non nuova: si scopre che il paziente va valutato qui e ora. E' possibile esaminarlo là e dopo? Che la medicina sia una prassi che si avvale di scienze lo si sostiene da tempo e chiedo ai medici intervenuti, in particolare ai medici generali, come finora hanno interpretato il loro ruolo. Da sempre i medici adattano la scienza al singolo paziente (e alla collettività dei pazienti).Gli strali dei critici non sono una novità: "sanno tutto su Galeno e niente sul paziente" Montaigne Essais; "meglio morire che guarire contro le leggi della Facoltà" Moliere il Malato Immaginario, e così via per secoli di letteratura.
 
La continua tensione all'uso corretto della scienza, a una corretta paideia e a una più idonea andragogia, è utile e saggia, ma non può trovare sostengo soltanto nell'attribuire a uno strumento che tutti lodano, all'EBM e alle conseguenti linee guida, i mali della medicina moderna.
 
Tanto più che dalla sacrosanta attenzione ai singoli pazienti deriva infine la condivisione delle cure e quindi il successivo passaggio statistico verso una nuova evidenza. Di fronte alla novità del Covid, attraverso la comunanza delle esperienze, abbiamo già una prima possibile linea guida terapeutica che funziona meglio di qualsivoglia anarchia prescrittiva. Ogni caso osservato ne richiama altri e così si implementano le linee guida. La ricerca in medicina implica la raccolta sistematica e il valore statistico dei dati. Una logica finora vincente.
 
Nel "Medico della Mutua" D'Agata racconta del giovane medico, incerto su quale turno frequentare, che un anziano collega mette in guardia di non prescrivere digitale in un reparto, pena l'ostracismo del primario, mentre nell'altro turno lo stesso disprezzo ricadeva sullo strofanto. Vogliamo tornare a quella medicina o ci rendiamo conto che la nostra "arte" deve stare nei confini della scienza cioè anche della matematica?
 
Tuttavia è assolutamente vero che, di fronte alle pressioni dell'amministrazione e alla tendenza a adagiarsi nella tranquilla osservanza delle linee guida, è doveroso proporre una formazione più adeguata alle esigenze della società e più consapevole dell'etica medica nonché insistere su questo puntuale richiamo di fronte a una medicina che già soffre di un'interpretazione distorta dell'I.A. mentre ancora si deve accontentare di "certezze pratiche" come le chiamava 250 anni fa George Cabanis.
 
Questa discussione è importante se la inseriamo nella realtà contemporanea. Al tempo del Covid la scienza e la tecnica trionfano: mai come ora i medici sono stati ascoltati e la scienza ha prevalso sulla politica, mai come ora problemi scientifici così complessi sono stati risolti in così breve tempo.
Tuttavia i medici sono in crisi perché è cambiata l'organizzazione sanitaria, perché è diminuita la loro autonomia a causa dei costi dei servizi sanitari, perché troppe trasformazioni sociali stanno modificando il loro ruolo, perché la tecnologia disegna un futuro incerto, affascinante ma rischioso.
 
La preoccupazione emersa nel dibattito non era tanto legata al metodo come logica del ragionamento clinico (nessuno ha discusso l'affermazione "ipotetico deduttiva" di Cavicchi sulla quale esistono autorevoli opinioni difformi) quanto su una sorta di povertà o rigidità della clinica, ahimè troppo tecnicizzata.
 
Ma, a partire del celebre articolo di Marcia Argill, ci si chiede: perché non risolvere il problema invece che parlarne ancora? Che l'ottimismo del Prof. Emiliani e la severa critica del Prof. Gensini mostrino come il massimo organo deputato alla formazione sia inconcludente e inadeguato e come occorra, dopo la laurea, affidare la professionalizzazione dei medici al servizio sanitario?
 
C'è qualcosa che sfugge. Si affronta una questione reale, l'EBM che è una parte, uno spezzone, del ragionamento medico e che talora, è vero, rischia di oscurare gli altri mondi che su questo interferiscono, come se fosse l'unico problema del medico, della medicina, della sanità, dei pazienti.
Cavicchi propone un modello di metodo come chiave per la possibile soluzione dei problemi della medicina e della sanità. Un modello interessante ma mi sembra, tuttavia, che il ragionamento manchi di un prima e di un dopo, cioè non tenga conto delle condizioni costitutive della medicina moderna né delle forze che ne indirizzano qualsivoglia soluzione operativa.
 
La medicina è un'arte e come tale crea volta per volta le soluzioni pratiche,tuttavia si fonda su molteplici scienze e ne segue l'epistemologia. Alla base non c'è un paradigma quanto un valore. I paradigmi delle scienze che sostengono la medicina variano con queste e soltanto il complesso e concorde evolversi delle tecniche e delle cognizioni può determinare un'epistemologia che risente di troppo numerose concause.
 
Vogliamo un medico pragmatico. Però: "pratico" significa che il medico sa attuare le premesse scientifiche nel caso concreto da cui il lemma "medico pratico" (diverso da "praticone"); "pragmatico" si dice di persona che piega sempre le sue idee alle circostanze. Rimango sempre fedele all'essere stato io un medico pratico, cioè di aver adattato anche il linguaggio al "modo" del mio quartiere ma senza cedere sulle evidenze. Se per metodo si intende l'approccio al paziente, un intelligente"medico pratico" sa usare dell'EBM con sapiente saggezza.
 
Tuttavia, se la medicina è nata per curare i malati, non dimentichiamo che l'antico sciamano proteggeva anche il villaggio sia pur in modo apotropaico; la pandemia ci ricorda che la medicina è anche sociale e ha imparato, nei secoli, che non si curano gli individui se non si affrontano i rischi ambientali e la miseria e l'ignoranza, il che ci porta dritti verso la medicina politica, di Virchow, di Frank, di Ramazzini, dei medici condotti di fine ottocento. I cittadini hanno ben compreso la necessità di sistemi sanitari stabili e ben amministrati, universalisti e ugualitari.
 
Però il problema della crisi del medico e della medicina esiste. Ma esiste nello stesso modo in cui si manifesta la crisi della società, dei valori, della cultura, nel passaggio epocale che stiamo vivendo. Il medico, che vive il travolgente sviluppo della tecnica, delle conoscenze scientifiche, della transizione epidemiologica, dell'organizzazione della sanità, tutti fatti che non lo vedono più protagonista assoluto, nel declino della dominanza medica, non può che soffrire questo stato di cose che si traducono in una (apparente? concreta?) perdita di ruolo.
 
Penso sommessamente che i problemi della medicina moderna siano assai complessi e che il recente ruolo giocato dalla scienza e atteso dalla tecnologia (il vaccino) di garante della sopravvivenza dell'umanità meriti una riflessione perché riporta il tema alla politica (la pandemia chiama in causa rischi e disuguaglianze) e quindi alla ragione stessa dell'essere medico.
 
La medicina non è soltanto storia della relazione coll'individuo e della tutela dei suoi diritti (la centralità del paziente) ma anche storia dei grandi interventi sociali che si fondano sulla centralità della comunità dei cittadini anzi dell'intera umanità: la sanità é un bene comune perché fruibile da chiunque.
 
La medicina deve prendere coscienza di due questioni: che la salute non può più essere meramente antropocentrica ma deve considerare in un unica visione la biodiversità, il rispetto dell'ambiente, la vivibilità del mondo anche per le future generazioni; che la preparazione alle calamità, la promozione della salute, la medicina preventiva e sociale sono una faccia della medicina moderna che deve trovare sintesi tra la tutela della salute individuale, nel rispetto dei diritti della persona, e gli interessi della collettività. Un medico della persona che ha per interlocutore la comunità e lo stato.
 
In siffatto profondo mutamento (Papa Francesco ha sottolineato che non viviamo in un'epoca di cambiamento ma in un cambiamento di epoca) emerge l’idea di una gestione “securitaria” della salute, inquadrando i problemi di salute globale nella categoria delle nuove ed emergenti minacce alla sicurezza collettiva: la diffusione di malattie infettive altamente patogene può minare le basi politiche, economiche e sociali degli Stati. La sicurezza sanitaria globale è indispensabile per la sicurezza sanitaria individuale.
 
Mi sembra che non possiamo evitare di guardare più lontano: abbiamo di fronte la questione del valore d'uso della tecnica, fonte di indubitabile progresso ma che dobbiamo imparare a dominare per non essere dominati dall'I.A.; abbiamo da capire quale ruolo svolgere in concreto in una salute "one health", il che vuol dire rispettare la biodiversità per un pianeta più vivibile quando le colpe di una natura violata risalgono all'economia e alla politica non certo alla scienza; abbiamo da renderci conto che occorre un governo globale della sanità.
 
Insomma i medici dovrebbero essere in prima fila per tentare di ricondurre il potere della tecnologia alla razionalità sociale in un tempo di prevalente irrazionalità.
 
Di fronte a così immani problemi è importante una riflessione deontologica per trovare gli strumenti atti a difendere la salute di tutti, il che esige la tutela dell'individuo e della collettività.
 
Antonio Panti
 
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