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Mercoledì 10 MARZO 2021
Un anno di Covid. Diminuisce la speranza di vita, aumenta il disagio mentale e almeno una persona su 10 non è riuscita a farsi curare

Lo rileva il Rapporto Bes 2020 presentato questa mattina dall’Istat. In 12 mesi abbiamo perso quasi un anno di vita con punte di 2,4 anni in meno in Lombardia. Sempre più anziani in disagio mentale ma anche le giovani donne. E arriva al 10% la quota di popolazione (nel 2019 era il 6,3%) che non ha avuto accesso alle cure. Ancora tanti medici ma sempre più anziani e pochi infermieri. Negli anni pre Covid tagliati molti posti letto ad elevata intensità di cura. IL RAPPORTO.

A dieci anni dall’avvio del progetto, l’Istat ha presentato oggi l’ottava edizione del Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes).
 
Il volume contiene un sistema di indicatori arricchito di anno in anno per seguire le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la società italiana nell’ultimo decennio, incluse quelle più recenti determinate dalla pandemia da Covid-19.
 
Si ferma l’evoluzione positiva della speranza di vita. Il capitolo salute rileva in particolare che l’evoluzione positiva della speranza di vita alla nascita tra il 2010 e il 2019, pur con evidenti disuguaglianze geografiche e di genere, è stata duramente frenata dal Covid-19 che ha annullato, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del Paese, i guadagni in anni di vita attesi maturati nel decennio.
 
A fronte di una stima di circa 0,9 anni perduti complessivamente a livello nazionale (da 83,2 a 82,3 anni), emerge una forte eterogeneità tra i diversi territori, con uno svuotamento, in termini di anni vissuti, più marcato nelle regioni settentrionali (da 83,6 a 82,1 anni attesi), rispetto al Centro (da 83,6 a 83,1) e al Mezzogiorno (da 82,5 a 82,2).
 
In particolare, guardando alle singole regioni, nel 2020 il calo atteso più forte nella speranza di vita alla nascita si registra in Lombardia, in cui la mortalità registrata nel corso dell’anno provocherebbe una perdita di circa 2,4 anni (da 83,7 a 81,2), seguita, in ordine decrescente, dalla Valle d’Aosta (-1,8 anni; da 82,7 a 80,9), dalle Marche (-1,4 anni; da 84 a 82,6), dal Piemonte (-1,3 anni; da 82,9 a 81,6) e dal Trentino-Alto Adige (-1,3 anni; da 84,1 a 82,8).
 
Riduzioni superiori ad 1 anno verrebbero inoltre registrate anche in Liguria (-1,2 anni; da 83,1 a 81,9), Puglia (-1,2 anni; da 83,3 a 82,1) ed Emilia-Romagna (-1,2 anni; da 83,6 a 82,4).
 
La speranza di vita alla nascita rimane invece sostanzialmente invariata in Basilicata e Calabria e diminuisce solo lievemente nella maggior parte delle regioni del Mezzogiorno, ad eccezione di Abruzzo e Sardegna, dove si stima un calo intorno ad 1 anno di vita (rispettivamente da 83,4 a 82,4 e da 83,1 a 82,1).
 
È un arretramento non ancora concluso, sottolinea Istat, e che richiederà tempo per essere pienamente recuperato.
 
Peggiorano indici di salute mentale. Nel 2020 in Italia l’indice di salute mentale assume il valore di 68,8. Rispetto al 2019, emergono tendenze differenti in sottogruppi di popolazione.
 
Peggiora la situazione delle persone di 75 anni e più di entrambi i generi e delle persone sole nella fascia di età 55-64, soprattutto al Nord.
 
L’indice di salute mentale peggiora anche tra le giovani donne di 20-24 anni e in alcune regioni come Lombardia, Piemonte e Campania che, insieme al Molise, presentano i valori più bassi.
 
Cresce lievemente la mortalità infantile, si riduce la mortalità per tumori maligni tra gli adulti e quella per demenze e malattie del sistema nervoso. Il tasso di mortalità infantile nel 2018 è stato pari a 2,9 per 1.000 nati e risulta in lieve aumento rispetto a quanto registrato sia nel 2016 sia nel 2017 (2,8 per 1.000 nati). Per i bambini i valori di mortalità infantile sono più elevati che nelle bambine (3,1 per 1.000 nati vivi maschi, 2,6 se femmine).
 
Nell’età adulta (20-64 anni) è particolarmente rilevante la mortalità per tumori maligni, considerata prematura. Nel 2018, il tasso di mortalità per queste patologie è stato pari a 8,4 per 10.000 residenti, valore che si è progressivamente ridotto negli ultimi anni. Il tasso di mortalità per tumori maligni delle donne nel 2018 si è attestato a 7,6 per 10.000, mentre è salito tra gli uomini al 9,2 per 10.000.
 
In una popolazione come quella italiana, caratterizzata da una aspettativa di vita molto elevata e quindi da una notevole percentuale di persone anziane, sono molto diffuse patologie come le demenze e le malattie del sistema nervoso per le quali il tasso di mortalità è pari a 33 per 10.000 abitanti.
 
Le donne hanno un tasso di mortalità pari al 31,8, gli uomini pari a 34. Dopo un aumento quasi costante registrato a partire dal 2015, si osserva nel 2018 una lieve riduzione rispetto all’anno precedente. I tassi di mortalità per demenza e per malattie del sistema nervoso più elevati si evidenziano soprattutto al Nord (36,1 per 10.000) contro il 31,1 nel Centro e il 29,4 nel Mezzogiorno.
 
Mortalità evitabile in diminuzione (ma i dati si fermano al 2018). Nel 2018, il tasso standardizzato di mortalità evitabile è risultato pari a 16,8 per 10mila residenti, con valori più elevati tra gli uomini (22,3 per 10mila abitanti contro 11,8 delle donne).
 
Nel tempo si è osservata una forte riduzione della mortalità evitabile (il tasso standardizzato era pari a 23,5 per 10mila nel 2005), soprattutto nella componente prevenibile (da 14,8 per 10mila nel 2005 a 10,4 nel 2018).
 
Tra le principali cause della mortalità evitabile troviamo il tumore al polmone, che nel 2018 ha provocato il decesso di 16 mila 274 persone sotto i 75 anni, seguito dalle cardiopatie ischemiche (11 mila 636 decessi) e dal tumore colon-rettale (7 mila 100 decessi), tutte cause di decesso più diffuse tra gli uomini.
 
Tra le donne, invece, la prima causa di mortalità evitabile è il tumore alla mammella seguito dal tumore al polmone e da quello colon-rettale.
 
Sempre di più i malati “multicronici”. Nel 2020 il 48,8% della popolazione di 75 anni e più è multicronica (soffre di tre o più patologie croniche) o ha gravi limitazioni nel compiere le attività che le persone abitualmente svolgono.
 
Tale quota è più elevata tra chi vive nel Mezzogiorno (56,9% rispetto a 44,6% nel Nord e a 47% nel Centro), tra le donne (55% contro 39,7% degli uomini) e raggiunge il 60,7% tra le persone di 85 anni e più (rispetto a 39,3% delle persone di 75-79 anni).
 
Meno sedentari ma più obesi. Nell’ultimo anno, la pandemia in corso e le restrizioni che ne sono conseguite hanno notevolmente inciso sugli stili di vita della popolazione.
 
Le chiusure degli esercizi commerciali e i limiti imposti agli spostamenti, specialmente durante il lockdown, hanno determinato, ad esempio, una diminuzione nella quota di popolazione che ha potuto svolgere attività fisico sportiva di tipo strutturato in palestre e centri sportivi e hanno rimodulato i tempi e i modi della consumazione dei pasti che, molto più spesso di quanto non sia avvenuto nel recente passato, si sono svolti in casa.
 
Nel 2020 la quota di persone sedentarie di 14 anni e più è pari al 33,8%, dato in miglioramento rispetto al 2019. È invece in eccesso di peso il 45,5% delle persone di 18 anni e più, in lieve aumento rispetto all’anno precedente.
 
Un fenomeno apparentemente contraddittorio ma che l’Istat spiega sottolineando che, nel momento delle restrizioni più forti legate alla pandemia, la popolazione ha cercato di mantenersi fisicamente attiva, ma è cresciuto il tempo trascorso a casa in attività sedentarie, sia lavorando sia svolgendo attività del tempo libero.
 
E ciò spiega appunto perché, parallelamente, si è osservato tra la popolazione adulta di 18 anni e più, una quota di persone in eccesso di peso con un lieve aumento del fenomeno. Gli uomini presentano livelli di eccesso di peso superiori alle donne (54,7% contro il 36,9%), ma è tra queste ultime che nel corso del tempo si registrano gli incrementi maggiori.
 
Stabili i fumatori, aumenta consumo di alcol. Nel 2020 i fumatori sono il 18,9% della popolazione di 14 anni e più (quota stabile rispetto all’anno precedente) mentre il consumo di alcol a rischio ha riguardato il 16,8% della popolazione della stessa fascia di età (in lieve aumento).
 
Nel periodo 2010-2018 diminuiscono posti letto nei reparti ad “elevata assistenza” e cresce mobilità sanitaria. Gli indicatori sulla qualità dei servizi sanitari mostrano una riduzione dei posti letto nei reparti a elevata intensità assistenziale tra il 2010 e il 2018 (da 3,51 per 10mila abitanti a 3,04) e una crescita costante del tasso di mobilità per motivi di cura dalle regioni meridionali e dal Centro tra il 2010 e il 2019 (da 9,2 a 10,9 ogni 100 dimissioni di residenti nel Mezzogiorno, da 7,4 a 9 nel Centro).
 
Ancora tanti medici ma sempre più anziani e pochi infermieri. Nel 2019 sono circa 241mila i medici (tra specialisti e di base) e i pediatri di libera scelta che svolgono la loro attività nel sistema sanitario italiano pubblico e privato.
 
Con quattro medici ogni 1.000 residenti, il nostro Paese si colloca ai primi posti in Europa ma i medici sono mediamente più “anziani” rispetto ai colleghi di altri Paesi europei (un medico su due ha più di 55 anni).
 
La situazione del personale infermieristico non è altrettanto favorevole, infatti l’Italia è agli ultimi posti in Europa per dotazione di infermieri, circa 6 ogni 1.000 residenti.
 
Un terzo dei medici di famiglia ha più di 1.500 assistiti. Oltre un terzo dei medici di medicina generale (34%) supera la soglia dei 1.500 assistiti nel 2018, quota più che raddoppiata rispetto al 2005, quando era il 15,9%.
 
Tale aumento, significativo nel corso degli anni su tutto il territorio nazionale, è stato più consistente al Nord (dal 17,9% nel 2005 al 46,9% nel 2018), meno nel Mezzogiorno (21,3% nel 2018 dal 16,3% nel 2005).
 
Il 10% degli italiani ha dovuto rinunciare alle cure per difficoltà di accesso. Nel 2020, un cittadino su 10 ha dichiarato di aver rinunciato, negli ultimi 12 mesi, a prestazioni sanitarie per difficoltà di accesso, pur avendone bisogno. Il forte aumento (6,3% nel 2019) è certamente straordinario: oltre il 50% di chi rinuncia riferisce infatti motivazioni legate alla pandemia da Covid-19.
 
Il dato che si registra nel 2020 è certamente straordinario, in aumento rispetto all’ultimo anno di oltre il 40%, per la particolare situazione legata alla pandemia da COVID-19.
 
Le restrizioni imposte per contenere i contagi, il timore di contrarre infezioni, ma soprattutto la chiusura nel periodo del lockdown di molte strutture ambulatoriali, le cui attività sono state dirottate sul contrasto al virus e la sospensione dell’erogazione dei servizi sanitari rinviabili, non ha consentito l’accesso a prestazioni necessarie, accumulando ulteriori ritardi e allungamenti delle liste d’attesa, con un danno in termini di salute pubblica che ancora non è del tutto misurabile.
 
Prima dell’epidemia, l’andamento dell’indicatore aveva fatto registrare un calo in tutto il territorio nazionale, passando dall’8,1% nel 2017 al 6,3% nel 2019. La flessione era stata registrata in tutte le regioni anche se permanevano le note disuguaglianze territoriali a svantaggio del Mezzogiorno (7,5% rispetto al 5,1% del Nord nel 2019).
 
Nel 2020, in alcune regioni del Nord, quali Piemonte, Liguria, Lombardia e Emilia-Romagna, la percentuale di quanti hanno dovuto rinunciare a una visita o accertamento è raddoppiata rispetto all’anno precedente; in gran parte dei casi, il motivo della rinuncia indicato è legato all’emergenza pandemica (58,6% in Lombardia, 57,7% in Liguria, 52,2% in Emilia-Romagna e 48,5% in Piemonte).

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