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Martedì 23 MARZO 2021
La vera riforma che serve alla sanità è quella della sua classe dirigente, tecnica e politica



Gentile Direttore,
ritengo doveroso premettere che è per me impossibile offrire al forum di QS un’argomentazione sistematica sul tema “La sinistra e la sanità: quali prospettive”. Un approccio sistematico richiederebbe, infatti, tempi e spazi incompatibili con una risposta “a caldo”. È forse preferibile, pertanto, abbracciare l’argomento limitan-domi ad offrire alcuni spunti di riflessione senza alcuna pretesa di sistematicità ma che potrebbero ugualmen-te servire allo scopo.
 
Il punto di partenza è semplice, molto – se non tutto – ciò che occorre per migliorare gli standard sanitari è largamente e da tempo noto. In tal senso, potrei d’impulso elencare, in una sorta di check list, tutte le proposte che una persona mediamente competente ed informata sui temi sanitari avanzerebbe qualora le venisse richiesto su quali basi rifondare la sanità nel post-pandemia.
 
Elenco, quindi di seguito, le prime dieci iniziative, che, istantaneamente e senza alcun ordine di priorità, dando per scontato un significativo aumento del finanziamento di parte corrente e di quello per investimenti:
1. Intanto, è necessario riavviare un potenziamento e una riqualificazione delle attività distrettuali e, in particolare, quelle relative all’assistenza domiciliare e residenziale, oltre alla promozione di politiche e più efficaci prassi di integrazione sociosanitaria;
 
2. prevedere il potenziamento dei Dipartimenti di Prevenzione che devono acquisire una rinnovata centralità nello svolgimento della funzione epidemiologica;
 
3. disciplinare, attraverso un’operazione di razionalizzazione, la rete ospedaliera, diversificando le strut-ture sulla base del target sanitario: da un lato la cura delle acuzie, l’emergenza e la complessità e dall’altro la cura delle cronicità e delle post acuzie;
 
4. rendere più capillare la rete dell’emergenza territoriale, in modo tale da poter garantire una risposta ugualmente efficace anche nelle aree e nei territori più svantaggiati, proprio perché non gravitino attorno alla rete ospedaliera per acuti;
 
5. introdurre nuovi modelli culturali ed organizzativi capaci di garantire una risposta proattiva alla domanda di cura cronica su base territoriale, grazie al contributo offerto dalla telemedicina. In tal senso, non appare secondario il coinvolgimento delle comunità e una nuova e diversa organizzazione della medicina generale;
 
6. valorizzare ogni professione sanitaria, vecchia o nuova. Un’azione che deve muoversi di pari passo con la modifica dei profili formativi e contrattuali, dei corrispondenti assetti dirigenziali e che conduce, a cascata, alla riprogrammazione del fabbisogno e, per conseguenza, alla formazione dei professionisti;
 
7. Introdurre elementi in grado di garantire una elasticità strutturale ed organizzativa per poter rispondere tempestivamente ad eventuali nuove (ri)emergenze pandemiche ed epidemiche;
 
8. Ricontestualizzare il modello “one health”, secondo cui tutte le politiche devono essere finalizzate a una migliore garanzia di salute;
 
9. Rendere prioritarie tutte le azioni tese a mitigare le fragilità e le diseguaglianze;
 
10. Migliorare governance e rapporti con gli erogatori privati, in un’ottica di omogenea integrazione con l’offerta e l’organizzazione sanitaria pubblica.
 
Potrei continuare ancora a lungo, ma ciò che mi preme sottolineare, per onestà intellettuale, è che ognuna delle azioni elencate è contenuta in atti e documenti nazionali e regionali che dovrebbero trovare applicazione in un assetto normativo invariato. La traduzione operativa di tutte queste iniziative da sola innalzerebbe in misura decisamente significativa gli standard qualitativi dell’assistenza sociosanitaria offerta ai cittadini.
 
Da qui la domanda: perché questa mancata o parziale applicazione di atti e documenti? Deriva forse da norme inefficaci e che richiedono, pertanto, una riforma o deriva da una inefficace applicazione?
 
Io personalmente non nutro alcun dubbio sulla necessità di rivisitare molte regole di sistema. Ma anche questa potrebbe rivelarsi attività oziosa se non accompagnata da una seria riflessione che investe più livelli: ad esempio, sulla politica e sulle qualità richieste a chi la esercita, ma ancora di più sulle caratteristiche proprie a chi opera in qualità di manager – così come oggi inteso -, sulla natura dei rapporti tra professionisti e chi si trova a ricoprire incarichi di gestione e di governo in sanità e, in ultimo, ma non per importanza sul ruolo – ancora oggi sconosciuto - assegnato ai cittadini.
 
Ecco, ritengo che qualsiasi riforma, incapace di affondare i denti nella carne viva della sanità – così come viene gestita – rischia di trasformarsi in una elaborazione, certamente interessante, ma scarsamente incisiva.
 
Assistiamo inermi, purtroppo, ad un progressivo impoverimento del dibattito sulla sanità, determinato in larga parte da una politica che si dimostra refrattaria all’ascolto, impermeabile a qualsiasi forma di autocritica e di esercizio di umiltà e che, al contrario, ama circondarsi di “mediocrati”, per utilizzare una azzeccata espressione coniata dal filosofo canadese Alain Deneault.
 
In tal senso, poco mi convincono i richiami ad errori o vincoli normativi che appaiono al più come pallidi tentativi di mistificare fenomeni che trovano spiegazione altrove.
 
Appaiono, dunque, tanto anacronistiche quanto vane le riflessioni su una eventuale riforma del Servizio Sani-tario Nazionale, proprio perché disancorate dall’unica e vera riforma possibile che richiede una riattribuzione di dignità e valore alla politica sanitaria. È necessario ripartire da quella che amiamo definire casa nostra, dalla casa della sinistra.
 
In calce a queste riflessioni, vorrei porre un esempio tratto dal mondo calcistico, un mondo che io e il mio amico Claudio Maria Maffei condividiamo, così come la passione per la sanità. Sul sito di Repubblica è visibile in questi giorni un video che celebra la bellezza del Milan di Sacchi, una squadra che perfino un interista sfegatato come me oserebbe definire un “capolavoro”. Quel risultato è stato però possibile perché si è scelto di lasciar spazio e voce ai grandi interpreti, divenuti in tal modo protagonisti di una stagione rivoluzionaria. Altrettanto vale in sanità.
 
Giuseppe Zuccatelli
Medico vaccinatore volontario in Romagna

 

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