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Mercoledì 26 MAGGIO 2021
Assistenza territoriale. Il problema non è la “dipendenza” dei medici

Penso si debba uscire il prima possibile dalla querelle “convenzione-dipendenza” che rischia di rivelarsi, oltre che dispendiosa in termini di energie e tempo dedicati, anche fuorviante rispetto alla vera questione che è quella del “cosa e come” vogliamo offrire ai cittadini al fuori dell’ospedale in termini di assistenza sanitaria h24

Garantire l'attività assistenziale per l'intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana attraverso il coordinamento operativo e l'integrazione professionale, nel rispetto degli obblighi individuali derivanti dalle specifiche convenzioni, fra l'attività dei medici di medicina generale, dei pediatri di libera scelta, della guardia medica e della medicina dei servizi, attraverso lo sviluppo di forme di associazionismo professionale e la organizzazione distrettuale del servizio”.
 
Quanto avete appena letto è un comma del decreto legislativo 229 del 1999, più noto come “riforma Bindi”, dal nome dell’allora ministro della Sanità, con il quale venne riformato il precedente Dlgs 502 che a sua volta aveva attuato la prima “riforma della riforma” della 833.
 
E ancora: “Le Regioni e le Organizzazioni sindacali, concordano la realizzazione di alcuni fondamentali obiettivi quali: (omissis)… b) realizzare nel territorio la continuità dell’assistenza, 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, nel concetto più ampio della presa in carico dell'utente. Dovranno essere definiti i compiti, le funzioni e le relazioni tra le figure convenzionate impegnate, partendo dalla valorizzazione dei servizi di continuità assistenziale e di emergenza territoriale”.
 
In questo caso si tratta di un paragrafo della convenzione nazionale per la medicina generale del 2005 che mette a punto quanto già indicato nella precedente convenzione del 2000 che nelle premesse parlava già di un impegno per “mettere a disposizione di tutti i cittadini la garanzia della assistenza continuativa nelle 24 ore giornaliere”.
 
E infine il decreto Balduzzi del 2012 che all’articolo 1 prevede che: “Le regioni disciplinano le unità complesse di cure primarie privilegiando la costituzione di reti di poliambulatori territoriali dotati di strumentazione di base, aperti al pubblico per tutto l'arco della giornata, nonché nei giorni prefestivi e festivi con idonea turnazione, che operano in coordinamento e in collegamento telematico con le strutture ospedaliere”.
 
Unità complesse di cure primarie che, specifica sempre il decreto Balduzzi, erogano “prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l'integrazione dei medici, delle altre professionalità convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria”.
 
Ho ripresentato queste “vecchie” disposizioni a dimostrazione del fatto che l’obiettivo di dare vita a un’assistenza sanitaria territoriale extra ospedaliera h24 con caratteristiche di multidisciplinarietà esiste da molto tempo.
 
Eppure se ne parla ancora oggi, spesso a vanvera, oppure rimettendo al centro l’annosa questione della dipendenza dei medici attualmente convenzionati (sia quelli di medicina generale che gli specialisti ambulatoriali) quale soluzione determinante per sbloccare l’impasse.
 
Ma come mai in tutti questi anni non si è riusciti a dare al “territorio” (parola senza anima né senso specifico ma ormai di uso comune) una sua dignità e soprattutto una sua definitiva configurazione?
 
Siamo sicuri che la questione delle questioni sia il rapporto di lavoro dei medici che vi operano? In parte sì e in parte no.
 
Cercherò di spiegarmi. In parte sì perché è indubbio che le “regole di ingaggio” di questi professionisti siano determinanti per delineare i confini del loro impegno e le modalità per prestare la loro opera di assistenza ai cittadini e che probabilmente se avessimo avuto da sempre tutti i medici, compresi quelli di medicina generale, come dipendenti del Ssn probabilmente il territorio sarebbe stato organizzato in modo diverso (turni orari più strutturati, presenza assicurata nel presidio a tutte le ore e tutti i giorni come avviene negli ospedali, ecc.).
 
Ma in parte no, perché sono convinto che non sia un mero problema contrattuale e che se prima non ci si mette d’accordo su “cosa e come” vogliamo offrire ai cittadini al fuori dell’ospedale (che è una questione che dalla 833 in poi non è stata mai veramente definita), non risolveremo il problema cambiando solo il tipo di contratto.
 
Inoltre non possiamo non tener conto di un dato: nella maggioranza dei casi (una maggioranza molto ampia a quanto si sa) i medici convenzionati (sia quelli di famiglia che gli specialisti) non vogliono essere dipendenti.
 
Essi restano affezionati (pare lo siano anche le giovani generazioni) a una visione in qualche modo romantica (e di per sé anche affascinante) di medico “libero” da lacci e lacciuoli burocratici, con la sua valigetta in mano pronto a correre a destra e a manca, con un rapporto “speciale” con i suoi assistiti.
 
Ora sappiamo bene che tale immagine è molto lontana dalla realtà, tant’è che una delle maggiori lamentele segnalate da innumerevoli sondaggi da parte di questi medici è proprio quella di essere ormai quasi dei “passa carte” costretti a dedicare più tempo a compilare moduli e note per la Asl di turno che a visitare i loro pazienti.
 
E fatto sta che, forse proprio per questo, la prospettiva della dipendenza, con lo spettro di un carico burocratico ancora maggiore sulle spale, li fa fuggire dall’idea come il Diavolo davanti all’acqua santa.
 
E quindi, possiamo immaginare di “costringere” decine di migliaia di medici a diventare qualcosa che non vogliono essere? Senza contare che i “conti” su quanto costerebbe l’operazione ancora nessuno li ha fatti per bene e sono certo che il Mef drizzerebbe le orecchie per benino se e quando la questione dovesse diventare qualcosa di più di un pourparler.
 
In sostanza la dipendenza “coatta” potrebbe rivelarsi una inedita forzatura dagli esiti imprevedibili.
 
E allora? Allora penso si debba uscire il prima possibile dalla querelle “convenzione-dipendenza” che rischia di rivelarsi, oltre che dispendiosa in termini di energie e tempo dedicati, anche fuorviante rispetto alla vera questione che è quella che richiamavo all’inizio, ovvero, il “cosa e come” vogliamo offrire ai cittadini al fuori dell’ospedale.
 
Se il modello è la Casa di Comunità prevista dal Pnrr, che personalmente trovo una soluzione concreta e praticabile (anche perché nei fatti è un mero cambio di nome rispetto alle Case della Salute che, a torto o a ragione, esistono già e che a loro volta rappresentano una evoluzione più organizzata delle unità complesse disegnate da Balduzzi), non è detto che chi vi lavorerà (o già vi lavora sotto la targa Casa della salute) debba per forza essere un dipendente.
 
Basta che le regole di ingaggio siano chiare e ben definite in un contratto di lavoro. E la convenzione è a tutti gli effetti un contratto di lavoro, assolutamente vincolante tra le parti.
 
Non serve un altro tipo di contratto, basta scrivere bene, e soprattutto farlo rispettare, un nuovo accordo convenzionale che vincoli realmente i firmatari al rispetto di un nuovo modello di assistenza H24, facilmente identificabile e raggiungibile, sia nelle grandi città che nelle piccole comunità, che pianifichi il lavoro in equipe, che individui responsabilità e ambiti di esercizio professionale e riveda natura e modalità dei compensi, alla luce di un diverso impegno e di diversi oneri rispetto a quelli di oggi, riferiti sostanzialmente, pur con qualche eccezione, a quelli ascrivibili all'attività di uno studio professionale (singolo o associato che sia).
 
A coronamento del tutto andrebbe poi individuata una figura di direzione della Casa di Comunità (che a mio avviso non può che essere un medico di medicina generale), specificandone compiti, ambiti di intervento e retribuzione legata alla funzione in un paragrafo ad hoc (inedito) della stessa convenzione.
 
All’interno di questo quadro andrebbe poi individuato un analogo percorso di arruolamento per tutte le altre figure della Casa di Comunità uniformando le cornici contrattuali dei diversi profili coinvolti (mmg, specialisti ambulatoriali, pediatri, infermieri, varie professioni sanitarie e tecniche, psicologi, ecc.).
 
E soprattutto andrebbe portata avanti una progettualità realmente condivisa (che finora non c’è stata) partendo dal fatto che questa neo Casa di Comunità debba essere anche la “Casa” di chi ci dovrà lavorare e come tale da “disegnare e allestire” insieme, evitando di farla apparire, come ora ai più appare, una sorta di “lager” dove essere deportati a forza.
 
Cesare Fassari

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