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Mercoledì 04 LUGLIO 2012
“Anche i placebo fanno bene”. La scoperta in una ricerca anglo americana

A dirlo non son i primi arrivati: ricercatori dell’Università di Southampton, della Harvard Medical School e della Northern Arizona University vogliono ridare ai placebo la loro dignità. “Hanno effetti benefici duraturi e documentati, perché il consenso sia veramente informato bisogna dirlo ai pazienti”.

Cosa c’è di più innocuo di un placebo? La definizione di queste sostanze è proprio quella di essere terapie o provvedimenti privi di efficacia terapeutica specifica, ma che sono utilizzati sui pazienti come se ne avessero. Tanto innocui da sembrare quasi inutili. E invece no, tanto che dall’Università di Southampton arriva un lavoro che vuole quasi riabilitarne l’immagine. L’idea è suggerita in un lavoro pubblicato su PLoS One: “Se è stato dimostrato un effetto placebo, e dunque queste pilloline in realtà producono un effetto sulla salute dei pazienti, allora dovremmo cominciare a informare i pazienti che si sottopongono a trial clinici non solo sui rischi e benefici delle molecole in trial, ma anche dei possibili effetti positivi di di queste sostanze”, ha spiegato Felicity Bishop, ricercatrice dell’ateneo inglese. Mentre i pampleth che vengono dati ai partecipanti degli studi, perché sottoscrivano il consenso informato, spesso non contengono queste informazioni. Il che, secondo gli autori dell’articolo potrebbe creare dei problemi.
 
Una posizione che potrebbe sembrare bizzarra, ma che di fatto è portata avanti non solo dall’Università di Southampton, ma anche dalla Harvard Medical School and Northern Arizona University, dove lavorano altri ricercatori che hanno firmato l’articolo e sottoscrivono le parole di Bishop. “Al momento questi benefici vengono tralasciati nella spiegazione ai pazienti che partecipano a una sperimentazione rispetto quello cui vanno incontro”, ha continuato la docente. “E invece bisognerebbe rendere comprensibile anche questa parte, anche nei foglietti illustrativi che vengono dati ai pazienti, non solo perché è giusto che l’informazione sia completa, ma anche perché, in effetti, alcuni cambiamenti sulla salute i placebo li producono: è stato dimostrato che l’effetto placebo può produrre benefici anche duraturi, ad esempio nel trattamento del dolore cronico: in più della metà delle persone attivano gli ‘antidolorifici’ naturali che produce l’organismo”.
Chiaramente questo non vuol dire che è meglio assumere placebo che non farmaci per curare le malattie, ma solo che è necessaria una corretta comunicazione col paziente. E questa dipende anche da come si chiarisce il ruolo di tutti gli elementi che fanno parte di una sperimentazione clinica. In particolare, secondo i ricercatori che hanno firmato lo studio, descrivere i placebo solo con termini negativi, in contrapposizione con i farmaci “reali”, potrebbe avere delle ripercussioni anche sull’esito dei trial. “Ignorare che il placebo potrebbe avere degli effetti sulla loro salute potrebbe cambiare le aspettative e l’atteggiamento dei pazienti rispetto al trial stesso”, ha commentato George Lewith, docente di Ricerca sanitaria. “E in più lo dice il nome stesso: il consenso informato ha senso solo se ai partecipanti vengono fornite tutte le informazioni”. Insomma, presto si potrebbe rendere necessaria una maggiore attenzione a quelle che sono forse le sostanze più in ombra della ricerca clinica, nonostante siano presenti in moltissimi trial. E nel frattempo, ricercatori di tre grandi facoltà di medicina nel mondo portano avanti una crociata a loro sostegno.

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