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Lunedì 11 OTTOBRE 2021
Il piatto che va consumato freddo



Gentile Direttore,
si dice spesso che, nelle questioni giudiziarie, la pena comminata per un reato non può assumere una veste e una funzione vendicativa. Niente di più scontato e, insieme, di più ipocrita: l’organo giudiziario è lì apposta per mediare fra le inevitabili istanze “vendicative” di chi ha subito un danno e le necessità “risarcitorie, preventive, riabilitative e di tutela” che la società civile, attraverso tale organo, prende su di sé al posto del danneggiato. Si fa un gran parlare, inoltre, della giustizia riparativa, della composizione stragiudiziale dei conflitti, della inutilità delle pene afflittive e in particolare del carcere. In genere, molti fra coloro che sostengono questi strumenti e queste posizioni, si rallegrano ogni volta che le vittime dei reati porgono la mano del perdono agli autori degli stessi. Il caso più famoso, che tutti conosciamo, è quello di Adele Moro e di Adriana Faranda. Ne ho già parlato altre volte e non intendo riparlarne qui.
 
Il tema della vendetta, comunque, si coniuga inevitabilmente con quello del perdono. Che l’uomo, ontologicamente, sia un essere vendicativo è davvero innegabile. Nell’inconscio di ciascuno domina la legge del taglione e non c’è alcun uomo che possa sottrarsi a questa legge inesorabile. Gli essere umani, però, non sono costituiti solo dal loro inconscio e, nell’affermarsi come entità sociali, le istanze morali (la Legge, che è cosa ben diversa dalle leggi) costituiscono, quando ben strutturate, un’adeguata barriera all’incondizionato affermarsi delle pulsioni inconsce. La Legge, che si struttura nel Nome del Padre, non è certo eguale per tutti. Tantomeno le prescrizioni delle leggi hanno su tutti, indiscriminatamente, la stessa efficacia. Le leggi potrebbero persino prescrivere il perdono ai singoli individui danneggiati dall’autore di un reato, ma siamo certi che tale prescrizione sarebbe efficace?
 
Possiamo presumere che il perdono sarebbe più agevole se, da parte del reo, vi fosse una ammissione di colpa, un pentimento e una richiesta di scuse rivolta alle vittime. Ma potremmo forse biasimare la vittima che, anche in queste favorevoli circostanze, non concedesse il perdono? Solo l’ipocrisia di coloro che in genere agiscono dei torti, piuttosto che subirli, indurrebbe a riguardare con una sorta di rimprovero coloro che, in quelle circostanze, non concedessero il perdono. Ma se una persona non si pente, se sostiene di non avere ucciso anche se ha partecipato direttamente e tangibilmente a degli omicidi, come si può pensare che sia agevole il perdono? Come si può pensare che sia autentico e generoso il movimento che conduce al perdono?  Possiamo davvero ammettere che ci si possa sottrarre, in toto, al piacere della vendetta nel donare una assoluzione e nell’obliare l’offesa?
 
Un mio paziente, che di sicuro non ha una struttura sadica e che anzi è incline a maturare sensi di colpa impropri, per diverso tempo ha provato un grande piacere dopo che è stato informato della morte per cause naturali di un suo acerrimo nemico, che chiameremo Pelati. Quest’ultimo rivestiva compiti di responsabilità apicale nell’azienda dove il mio paziente lavorava come dirigente, in posizione subordinata rispetto al Pelati.
 
Nell’arco degli anni il paziente, avvezzo ad occuparsi con riconosciuta competenza e indiscutibile onestà dei compiti che gli venivano affidati, aveva dovuto sopportare pesantissime angherie da parte del Pelati, persona non solo invidiosa, ma incline a esercitare con spregiudicatezza e senza alcun pudore il potere che aveva in azienda. Il Pelati non solo aveva rivolto nei confronti del mio paziente accuse pesantissime e assolutamente infondate, dalle quali l’accusato si era faticosamente dovuto difendere, ma aveva manovrato affinché il paziente venisse demansionato e sottoposto a provvedimenti disciplinari, estremamente offensivi per il mio paziente anche se conclusi tutti con un nulla di fatto.
 
La protervia del Pelati era perfettamente rappresentata non solo dalla sguaitaggine e dal perenne turpiloquio, ma anche dalla noncuranza, carica di piacere, con cui, lui solamente, fumava con ostentazione le sue sigarette in affollate riunioni aziendali. L’aggressività del Pelati nei confronti del mio paziente aveva infine indotto quest’ultimo a richiedere anticipatamente la pensione. Era perfettamente consapevole, il paziente, di procurare un piacere al Pelati ritirandosi dall’attività aziendale.
 
Numerose volte il paziente, nel corso degli anni, aveva sognato che il Pelati morisse. Negli anni successivi al pensionamento il paziente aveva incontrato il Pelati in qualche riunione pubblica. Aveva cercato di evitarlo, mentre il Pelati faceva di tutto per salutarlo in maniera apparentemente cordiale, ma mai per fare cenno ai falliti procedimenti disciplinari che gli aveva intentato.
 
Figuriamoci, poi, per chiedere scusa. Il mio paziente aveva trovato nuove soddisfazioni professionali, ma non aveva obliato l’offesa del Pelati. Quando seppe della sua malattia e poi della sua morte, non riusciva a reprimere un sottile ma persistente piacere. Aveva una certa tendenza, fors’anche perché cresciuto in una famiglia cattolica, a sperimentare qualche senso di colpa per quel sottile piacere. Un senso di colpa dal quale io pensavo e ancora penso che fosse indispensabile sollevarlo. Chissà se quel piacere ci sarebbe stato anche se il Pelati si fosse accorto dei suoi errori e avesse chiesto scusa. Forse ci sarebbe stato egualmente, magari in misura minore. E io avrei ritenuto comunque ritenuta legittima la sua insorgenza, inevitabile perché umana, troppo umana.
 
Mario Iannucci
Psichiatra psicoanalista
Esperto di Salute Mentale applicata al Diritto

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