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Il commento di Rezza (Iss): “Antibiotico resistenza, carenza di personale e poca sensibilità tra le possibili cause. Servirebbe un’azione forte, ma prima di tutto dati scientifici certi”


14 APR - Se i dati elaborati da Quotidiano Sanità fossero confermati, la situazione sarebbe “molto preoccupante”. “Tanti” gli interventi che si potrebbero mettere in campo per fermare, almeno in parte, le infezioni ospedaliere, “tuttavia il primo passo da compiere dovrebbe essere quello di avere un quadro chiaro e preciso del fenomeno, a livello nazionale, sulla base di specifici studi scientifici. E questo, in Italia, manca da decenni”.
 
Così Giovanni Rezza, Direttore di Dipartimento Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, commenta a caldo ai dati elaborati da Quotidiano Sanità sulla base delle informazioni contenute nelle schede di dimissione ospedaliera (Sdo) 2015 che segnalato un aumento del 79% delle infezioni dovute a cure mediche rispetto al 2007 e del 59% delle infezioni post-chirurgiche.

La mancanza di studi specifici sul tema, secondo Rezza, evidenzia già una “carente attenzione nei confronti del problema”.
 
Rezza definisce le infezioni ospedaliere “un’epidemia silente”. E questo, secondo l’esperto dell’Iss, anche perché le vittime sono spesso i pazienti in condizioni più gravi: “Il rischio di decesso per questi pazienti è molto alto e forse non si presta la dovuta importanza al fatto che la loro morte possa essere stata anticipata da una infezione. Un atteggiamento molto grave e sbagliato”.

Per Rezza tra le cause di questa “epidemia silente” c’è sicuramente l’antibiotico resistenza. “I ceppi batterici – precisa - tendono a colonizzare soprattutto i reparti dove sono ricoverati i pazienti più fragili, come le terapie intensive, dove abbiamo assistito negli anni a vere e proprie ondate epidemiche in particolare da germi gram-negativi”.

Ma per l’esperto dell’Iss sul fenomeno entrano in gioco anche fattori organizzativi. “In ogni ospedale – spiega - dovrebbe esistere un Cio, cioè un Comitato infezioni ospedaliere, incaricato di mettere in atto azioni di sorveglianza e l’adozione delle procedure corrette. In molti ospedali il Cio è stato istituito, ma non in tutte è poi entrato realmente in funzione”.

“Molta attenzione”, secondo Rezza, va poi prestata “alla formazione del personale, perché la mancanza di sensibilità o di conoscenza delle procedure può rappresentare un forte rischio di aumento delle infezioni ospedaliere. È chiaro che dove il Cio esiste e funziona bene, il personale è più attento al problema e meglio addestrato a contenerlo”.

Ma anche la carenza degli organici può essere un elemento in grado di aumentare il rischio di infezioni ospedaliere: “E’ chiaro che quando i pazienti sono tanti e il personale poco, avere il tempo di mettere in atto tutte le procedure di sicurezza può diventare difficile. Quando si parla di infezioni, anche dimenticare di lavarsi le sempre le mani rappresenta un fattore di rischio. Un numero adeguato di personale è sicuramente una delle condizioni fondamentali per il buon funzionamento di un reparto e quindi per la prevenzione di eventi avversi, infezioni comprese”.

Rezza evidenzia come da tempo siano in corso, in Italia, molte iniziative di sensibilizzazione sull’antibiotico resistenza, “che è uno dei temi caldi, insieme ai vaccini, e su cui una corretta opera di informazione e formazione può contribuire a fare la differenza”.

“A breve, inoltre – evidenzia -, dovrebbe essere emanato il Piano nazionale contro l’antibiotico-resistenza a cui il Ministero della Salute sta lavorando”. Altre azioni di contrasto delle infezioni ospedaliere sarebbero, per il Direttore di Dipartimento Malattie infettive dell’Iss, sicuramente “auspicabili”, ma “prima – ribadisce – servono dati certi”.
 
L.C.
 

14 aprile 2017
© Riproduzione riservata

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