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Sanità privata. Quando le autorizzazioni non seguono la programmazione

di Ettore Jorio

Gli atti di programmazione e di indirizzo sono troppo sottovalutati e troppe le redazioni di proposte compiute da dirigenti creativi e agenti a mano libera. Mentre nessun provvedimento autorizzativo, figuriamoci di accreditamento, può essere rilasciato se non in stretta compatibilità con il fabbisogno assistenziale determinato dall’organo politico regionale

07 OTT -

Il supporto del privato, nel garantire l’assistenza sociosanitaria alla popolazione, è dato attraverso una organizzazione erogativa fondata sulla «concorrenza amministrata», intendendo per tale il regime di “quasi mercato” introdotto dalla riforma ter del 1999.

Una convivenza mercatile concorrenziale che dovrebbe far bene al prodotto salute
Una specificità, quella della concorrenza amministrata, dettata:

Un po’ di storia non fa male

Il rapporto del sistema pubblico con l’erogatore privato viene da molto lontano, da quando vennero introdotte le casse mutue, sistematizzate a partire dal 1943, e quindi via via trasformatosi in quello attuale.

Prima (ante riforma del 1978) costituito attraverso le convezioni, residuate oggi con i medici di famiglie e le farmacie, cui è succeduto il regime cosiddetto delle «3 A». Un sistema, quest’ultimo, imperniato sull’autorizzazione, sia alla realizzazione che all’esercizio, sull’accreditamento istituzionale, rilasciato solitamente dalla Regioni, e sul contratto da stipularsi tra le aziende sanitarie e l’erogatore privato accreditato, al quale viene concesso un budget annuale sia in termini di volumi che di valore.

Un percorso amministrativo, formato da una sequela procedurale che rintraccia:

Il tutto a condizione che …
Importanti però sono i presupposti necessari all’instaurazione del rapporto pubblico/privato. Elementi indispensabili sono la rilevazione e la determinazione del fabbisogno relativo alle branche, sulle quali intervenire istaurando un sano regime di concorrenza amministrata, e l’inventario dell’esistente corrispondente offerta pubblica, contestualizzata alla localizzazione e diffusione della presenza sul territorio.

Da qui, una differenza, incrementata di una percentuale di cosiddetta tutela del servizio anche in caso di cessazione di servizio di un qualsivoglia prestatore pubblico o privato, disponibile sia in relazione alle richieste di autorizzazione all’esercizio - diverse da quelle indispensabili ai singoli professionisti di fare il loro mestiere caratterizzate dalla dovutezza – e di rilascio di accreditamento istituzionale.

Attenti ai nei che possono tramutarsi in melanomi metastatici
Risultano, dunque, errati tutti i numerosi rilasci acritici di provvedimenti di autorizzazione, sia alla realizzazione (delegata solitamente ai sindaci previo parere regionale) che all’esercizio, e di accreditamento moltiplicatisi in tempi di post Covid, in Regioni a basso tenore e qualità di burocrazia, senza una preventiva analisi e definizione dei fabbisogni epidemiologici relativi, debitamente influenzati dalla localizzazione di quanto esistente. Una sequela comportamentale, questa, biasimevole e seriamente compromissiva della buona  distribuzione territoriale delle strutture di assistenza a tutto vantaggio di un privato che pretende ben oltre il dovuto.

Gli atti di programmazione e di indirizzo sono troppo sottovalutati
E’ vero, tutto ciò accade perché si arriva da una logica di semplificazione autorizzativa, a fronte della quale verifica attribuita alla burocrazia dedicata all’istruttoria e alle verifiche del possesso dei requisiti un potere indebito, consistente nel “decidere” ed effettuare, con magnanimità e non solo, la presentazione alla firma dei decisori dei provvedimenti autorizzativi  e di accreditamento senza una preventiva verifica del dovere di soddisfare un fabbisogno scoperto per tipologia specifica.

Ciò è accaduto, spesso, perché questo programma individuativo delle necessità assistenziali da soddisfare ex lege,  è stato addirittura trascurato dall’organo politico obbligato a definirlo con propri provvedimenti di indirizzo, con conseguente impossibilità di rilascio del benché minimo provvedimento, che risulterebbe viziato amministrativamente e produttivo di danni erariali, considerata la sua propedeuticità alla conclusione di contratti degli erogatori accreditati con le aziende sanitarie.

Troppe le redazioni di proposte compiute da dirigenti creativi e agenti a mano libera, di sovente causa di errore di provvedimenti superiori e di accreditamento definitivamente firmati, rispettivamente, da altri dirigenti ovvero da organi decisori regionali.

Una siffatta brutta esperienza che seguì alla semplificazione autorizzativa tout court - codificata, per esempio, dalla Regione Lazio nel 2019 (regolamento nr. 20 attuativo della L.R. nr. 4/2002) – rintracciò il suo limite temporale con la entrata in vigore di una nuova legge laziale dello scorso anno (L.R. nr. 14/2021). Da quella data, infatti, è stato reintrodotto il naturale limite di frenare il rilascio di provvedimenti autorizzativi all’ingrosso, a partire da quelli finalizzati alla realizzazione di strutture anche ambulatoriali, condizionando gli stessi al fabbisogno assistenziale relativo e alla localizzazione di maggiore utilità pubblica.

Dal che
Tutto questo è rafforzativo del superiore e inderogabile principio che nessun provvedimento autorizzativo, figuriamoci di accreditamento, può essere rilasciato se non in stretta compatibilità con il fabbisogno assistenziale determinato dall’organo politico regionale. Dal che, per l’appunto, il decisore politico regionale dovrà approvare la programmazione regionale territoriale, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. 165/2001, tenendo conto del suo obbligo di soddisfacimento delle improrogabili esigenze di salute della propria collettività.

Senza ciò, il tutto diventa impossibile e se “perfezionato” è illegittimo.

Ettore Jorio
Università di Calabria

 



07 ottobre 2022
© Riproduzione riservata


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