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Sostenibilità Ssn. L'importanza di farsi le domande giuste

di Paola Adinolfi

Nel dibattito seguito alle dichiarazioni di Monti non apprezzo "apriorismi e dogmatismi" tra "neo mutualisti" e "universalisti". Ma non bastano nemmeno i pur utili confronti internazionali tra sistemi sanitari. Quello che manca è un confronto ad ampio spettro sulle tante possibili opzioni per "ripensare" la nostra sanità

28 DIC - Dell’interessante e qualificato dibattito sulla sostenibilità del nostro sistema sanitario avviato sul Quotidiano Sanità non apprezzo apriorismi e dogmatismi. Non condivido la posizione di chi ritiene che i ‘neomutualisti’ siano necessariamente dei conservatori arroccati in difesa di privilegi e rendite di posizione, ma nemmeno quella di chi suppone che gli ‘universalisti’ si ergano a tutela non già dei fragili, bensì di un sistema di offerta fortemente autoreferenziale.
 
Penso che occorra valutare attentamente se il possibile recupero di efficienza sia sufficiente a rendere sostenibile il Ssn, prima di rifiutare o sostenere interventi, come mutue integrative et similia, che sostituiscono (più che integrare) l’impianto universalistico democraticamente introdotto 35 anni fa (rispetto al quale sono certamente più iniqui, anche se in misura minore dell’out of pocket). A tal fine non bastano i pur utili confronti internazionali tra sistemi sanitari; occorrerebbe individuare, per grandi linee, le principali diseconomie tuttora esistenti nel nostro sistema e i presumibili ritorni che si potrebbero generare eliminando le stesse. In nessun caso questo sforzo sarebbe inutile perché, anche qualora si opti a favore di sistemi - come le mutue - che non fanno certo risparmiare, occorrerebbe comunque intervenire per riqualificare la spesa pubblica, come riconosce Spandonaro, onde scongiurare il rischio di una sanità a due velocità, e della conseguente perdita di coesione sociale.
 
Le proposte sinora avanzate potrebbero costituire un punto di partenza su cui costruire piste di ricerca. Provo - in via esemplificativa e non esaustiva, per ovvie ragioni di spazio - a riempire con alcune idee le 5 aree di intervento individuate da Cavicchi.
 
Quali economie potrebbero derivare da un rinnovamento del sistema dei servizi adeguato all’evoluzione demografica, epidemiologica, tecnologica, socio-economica? Quanto si risparmierebbe se ad esempio, in relazione al mutato scenario, si rimodulassero i Lea, come proposto da Fassari? E se, come suggerisce Polillo, si decidesse di concentrare l’assistenza ospedaliera in poche strutture con divisioni ad alto valore aggiunto funzionanti h24, prevalentemente rivolte ai ricoverati? E se si riuscisse a sottrarre all’ospedale tutto ciò che non è acuto (Polillo)? E se si sottraesse al residenziale tutto ciò che è domiciliabile?
 
Ancora, quanto si risparmierebbe orientando le strutture in modo da non trascurare le "relazioni", se è vero che da tale disattenzione si origina la maggior parte degli sprechi, e da ciò scaturisce non solo la ‘medicina difensiva’ (il cui costo è stato quantificato nel 2010 in ben 13 miliardi di euro annui!) ma anche la poco indagata ‘amministrazione difensiva’? Quali benefici netti si avrebbero se per esempio negli ospedali, in tale ottica, si attivassero efficacemente (quindi agendo anche sui meccanismi operativi) ruoli come il case manager e l’operation manager, strutture dipartimentali o per intensità di cura oppure forme matriciali spinte che consentano di avere sia unità iperspecializzate, efficienti e con protocolli standardizzati, sia, al contempo, la presa in carico e l’accompagnamento del paziente nel processo assistenziale (in altre parole, organizzativamente, la botte piena e la moglie ubriaca)? E se, in un ambito ancora scarsamente analizzato qual è il territorio, si applicassero efficacemente modelli innovativi come le ‘case per la salute’, la ‘medicina di iniziativa’ (Polillo), o i distretti organizzati ‘per intensità di cura’, avvalendosi anche del supporto della telemedicina?
 
Quanto si risparmierebbe se si procedesse ad una coerente ricontestualizzazione del modello di tutela, ad esempio spostando gli investimenti dalla cura delle patologie alla promozione dei determinanti della salute? In un Paese dove solo l’obesità costa 25 miliardi di euro l’anno, quanto è efficiente un sistema sanitario che investe pochissimo in prevenzione, quando è stato calcolato che i fattori socio-economici e gli stili di vita contribuiscono alla riduzione della mortalità per il 40-50%, lo stato e le condizioni dell’ambiente per il 20-33%, l’eredità genetica per un altro 20-30% e i servizi sanitari per il 10-15%?
 
E quali economie si realizzerebbero se si riuscisse a mettere a sistema tutti gli operatori di un territorio legati all’idea di salute, in modo da avere distretti-aree sistema che, oltre a svolgere le attività connesse ad un expanded chronic care model à la Coleman, consentano di integrare il processo di creazione di salute con le infrastrutture e con gli altri settori produttivi che a tale processo concorrono? Quale ricaduta (anche in termini di mobilità netta, alla luce della direttiva cross-border) si potrebbe avere se su questo si impostasse una strategia di valorizzazione dell’unico prodotto non delocalizzabile e interamente made in Italy - il wellness, sul modello di Cesena?
 
Quali economie si otterrebbero da una coerente riconsiderazione del sistema di finanziamento-government-governance? Quali effetti produrrebbero meccanismi di finanziamento collegati ai percorsi o ai progetti individualizzati anziché alle prestazioni (come i budget di salute), oppure alla salute piuttosto che alla malattia? E meccanismi di governo che consentano di ridurre l’invadenza della politica con la p minuscola, estrinsecantesi nelle mille lobbies e cordate, nei mille scambi tra interesse generale e interesse particolare, tra politica ed economia, tra pubblico e privato?
 
E quali ritorni si avrebbero se si rafforzasse e rendesse trasparente l’attività di monitoraggio regionale e centrale, estendendola anche a variabili diverse da quelle finanziarie? E quali ritorni se si eliminassero le ridondanze e le contraddizioni nell’attribuzione di competenze tra i livelli statale e locale, come raccomanda Fassari? Se ad esempio si riuscisse a centralizzare e snellire il farraginoso iter procedurale delle sperimentazioni in modo da consentire alle case farmaceutiche di finanziare attraverso di esse l’attività assistenziale, o si facesse la stessa cosa per gli acquisti? E quali economie si genererebbero se si riuscisse a tradurre la nostra eccellenza scientifica in innovazioni tecnologiche, con una governance che colleghi il mondo della ricerca alla realtà produttiva del Paese?
 
Se i dati resi noti dal Ministero della Salute indicano, come effetto dei DL 98/11 e 95/12, risparmi attesi di oltre 3 mld di euro sui beni e servizi, quale può essere l’impatto di un intervento sul personale, il cui costo grava in misura assai maggiore sul bilancio delle aziende sanitarie?
A quanto ammontano i danni che arrecano al sistema sanitario direttori generali sotto-pagati, poco competenti e asserviti ai politici, e oltretutto con scarse leve per incidere sugli assetti organizzativi e le prestazioni dei singoli?
 
E quanto costa avere a capo delle strutture complesse, medici che 1) non sono stati selezionati in virtù di comprovate capacità gestionali, 2) non sono stati formati per dirigere unità organizzative, 3) non sono valutati né premiati in base ai risultati gestionali, 4) avevano scelto un altro mestiere.
Quali benefici netti si ricaverebbero ad esempio da un’adeguata selezione dei dirigenti (ad ogni livello) preceduta da valutazione del potenziale e formazione, sul modello di Regione Puglia-Agenas? E da una formazione manageriale adeguata al governo della complessità in luogo dei pacchetti formativi preconfezionati, ispirati agli schemi riduzionisti del management industriale? E da sistemi di valutazione e premianti orientati, anziché al controllo, allo sviluppo del personale - una leva tanto inutilizzata quanto preziosa in organizzazioni labour intensive ad altissima discrezionalità decentrata? Quale ricaduta ad esempio si avrebbe da una valorizzazione delle capacità professionali in sintonia con l’introduzione di soglie di interventi e risultati, collegata a un effettivo ridisegno delle carriere professionali dei medici che preveda al vertice non solo il direttore della struttura, ma il capo di un’equipe di professionisti? E se a queste innovazioni si accompagnasse una riforma del professionalismo e quindi anche una riforma delle facoltà mediche (da parte di due Ministeri finalmente dialoganti)?
 
E infine, quali ritorni avremmo se all’empowerment del personale si accompagnasse un empowerment dell’utente, attraverso il riconoscimento al cittadino del ruolo di coproduttore di salute dotato di capacità? Se a tal fine si investisse nell’health literacy (anche in un’ottica di genere) e si rendessero le poche risorse disponibili per l’assistenza sanitaria dei moltiplicatori delle risorse informali e di cura presenti nei contesti comunitari, realizzando il passaggio da un modello in cui la titolarità esclusiva dell’assistenza sanitaria è in capo allo Stato, a un sistema in cui produrre salute diventa un compito anche della società civile, all’interno di un sistema relazionale che connette i diversi determinanti della salute?
 
Manca una riflessione collettiva e unitaria sui punti indicati (e su tanti altri qui non menzionati per motivi di spazio), che individui i possibili interventi, e ne valuti gli impatti di breve e lungo periodo, attraverso strumenti adeguati all’analisi di scenari complessi. Le poche risorse destinate allo studio si disperdono nei mille rivoli di consulenze, commissioni, tavoli tecnici e gruppi di lavoro a livello regionale o ministeriale, e i contributi si spezzettano in mille frantumi che coesistono come pezzi incompiuti di un monumento alla Sanità.
 
Se vogliamo dare ai cittadini, e ai loro rappresentanti politici, la possibilità di una scelta consapevole fra le diverse opzioni esistenti, diventa urgente e improcrastinabile uno sforzo corale da parte di "tutte" le professionalità che hanno esperienze e proposte per il nostro Servizio Sanitario, per mettere a sistema i contributi individuali sotto un’unica regia, senza la supremazia di un pensiero sugli altri e con la piena disponibilità di ognuno ad imparare, disimparare e reimparare.
 
Paola Adinolfi
Direttore Master Daosan – Università di Salerno
 


28 dicembre 2012
© Riproduzione riservata


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