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L’8 marzo Vincenzina di fronte alla fabbrica: è sua

di Fabrizio Gianfrate

Le nostre Vincenzine spesso lottano per noi nonostante noi. Sommando lavoro e affetti. E la sera, quando rientrano a casa dalla “fabbrica” (l’ospedale, l’Asl, il laboratorio, la farmacia, l’azienda...), gli occhi stanchi, ancora più veri, riescono pure a regalarci un sorriso. In cambio vogliono un nostro sguardo attento, sincero, pulito, rassicurante, protettivo. Non ringraziamole quest’8 marzo. Facciamolo tutti i giorni. Ma senza fronzoli, solo meritandocele

07 MAR - La ritroviamo lì, la nostra Vincenzina, di fronte alla fabbrica. O all’ospedale, il Centro Ricerche, l’ASL, la farmacia, l’Università, la scuola, qualunque posto dove si fa salute. Non “Stabat Mater” dolente di Jannacci o Pergolesi. Perché quella “fabbrica” oggi la manda avanti, magari ne è a capo, talvolta è la sua.
 
Le imprese del farmaco sono al femminile per il 44% (25% la media nel manifatturiero), donna il 53% nella Ricerca e Sviluppo. Le dirigenti sono più che in altri settori. Avanti le farmaceutiche anche per asili nido, take-away per la cena, lavanderia e palestra interna.
 
Due terzi del personale SSN è donna, il 75% quello infermieristico, il 70% quello amministrativo. Sempre di più le dirigenti apicali. Il 65% le donne medico tra i 30 e i 40 anni. Preponderanti le neolaureate, laureande e iscritte a medicina e nelle altre materie sanitarie. Farmaciste il 66% dei camici col caduceo.
 
E, solo restando a organismi istituzionali e associativi, in rosa nei vertici di Ministero, Farmindustria, Federfarma, SIFO, IPASVI, la prima AIFA e tante altre. Competenza e femminilità. Il plusvalore del capitale umano di Marx illumina di un rosa meraviglioso tutta la nostra sanità.
 
È donna l’unica persona nella storia a vincere due Nobel in aree scientifiche distinte, per scoperte cruciali proprio per il progresso della medicina. Marie Curie. Aiutò anche il marito a vincerlo (Becquerel). Loro figlia Irene lo prenderà a sua volta. E siccome sul comò c’era spazio, lo beccò pure il genero Joliot (ci sareste andati andreste a cena da loro quando tutti riuniti?).
 
A quando allora la fine delle disparità? I salari, le carriere, le opportunità, il risibile supporto alle famiglie. Discriminanti storiche, arretratezze socio-antropologiche, sacche di pre-modernità. Diritti come favori. Una storia di leggi da sacrestia, di politici lenoni dell’amplesso tra lex e crux da cui nascono mostri.
 
Un simulacro di Stato etico hegeliano, ma per affari o potere, che s’infila nelle case, nei letti, nell’intimità e nella ginecologia. Difendono come baluardi la famiglia (avendone spesso un paio o più) però restiamo il Paese che ci spende meno. E infatti abbiamo il record galattico della denatalità, vedi i dati di questi giorni.
 
Vale un trattato di sociologia odierna la brava funzionaria che denunciando la corruzione nella sanità della capitale morale dice “non ho famiglia quindi non sono ricattabile”, da cui il sillogistico reciproco (“ho famiglia quindi sono ricattabile”) che accappona la pelle.

O l’infermiera sottopagata morta all’alba mentre prende come ogni giorno il suo terzo autobus dalla periferia devastata, uccisa più che dall’infarto dalla precarietà del bisogno per i figli e l’affitto, con la bilancia impietosa e cattiva e gli sfottò sul peso dei colleghi così naturalmente e normalmente bulli, entrambi, bilancia e bulli, a non capire le sue poche consolazioni residue.

O la bionda dottoressa plurispecializzata e pluriprecaria ricattata dal potente grigio che sogna improbabili, per lui, sfumature di grigio.

O la dirigente ultracinquantenne dalla vita consegnata in esclusiva alla multinazionale, liquidata dal giovane e pettinato boss (“sorry, la riorganizzazione…”) il cui gel però non terrà quando lei gli mostrerà un dossier alto come Guerra e Pace su trent’anni di scheletri affastellati nei suoi armadi aziendali.

O la studentessa magrebina, grandi occhi neri bassi sotto il velo: le dò meritatamente 30 e mi dice a occhi bassi, timida ma orgogliosa, in un italo-francese flautato “così non mi faranno tornare al mio Paese”.

O la ricercatrice senza raccomandazioni che compulsa i siti di università straniere, speranza di andare e amarezza di non restare. Del cui futuro successo straniero magari si vanterà qualche inane Ministra, in gara per grottesco con quella sua precedente collega fiera dell’italico tunnel scavato tra Ginevra e l’Abruzzo per far scorrazzare i neutrini.
 
“Minima moralia” direbbe Adorno. Sono solo una frazione delle storie delle Vincenzine del nostro settore. Perdono o vincono, lottano comunque e sempre. Con gli anni passati mai perduti, gli amori perduti mai passati. Col surplus dei sentimenti o nonostante questi. Capaci, come scrive Kipling, di guardare con dolcezza le cose di una vita anche quando sono lì infrante in terra, piegandosi per ricostruirle con i propri arnesi logori. Perché sanno che non serve cercare il trauma originario dell’infelicità ma trovare il seme prezioso della felicità.
 
Lottano per le colpe di noi maschi, in questa società da sempre imperniata sulla biochimica litigiosa del testosterone, quando siamo affettivamente analfabeti, sentimentalmente insipienti, sensibilmente incolti. Uomini, mezzi uomini, omminicchi e quaquaraquà, sentenzia Sciascia (ho omesso una categoria intermedia). Gli antichi greci la sapevano lunga: diceva Eraclito che il nostro demonio è il nostro carattere. Pericoloso specialmente nei suoi estremi opposti, quando sia ottusamente rigido sia debolmente insicuro.
 
Creonte è re testardamente ottuso, non sa usare che la spada su Antigone e la di lei, per lui incomprensibile, forza degli affetti. Orfeo è invece emotivamente balbuziente, e finisce col rispedire Euridice agl’inferi dopo avere fatto tanto per riprendersela, insicuro si gira non sa bene se per paura che lei non lo segua più o al contrario temendo che poi lo seguirà troppo, o per averne, lui noto artista, l’applauso o forse, esegesi metaforica carnale e antropologica del mito, semplicemente perché “dopo il seme c’è la fuga” (oggi il decoder).
 
Insomma le nostre Vincenzine spesso lottano per noi nonostante noi. Sommando lavoro e affetti. E la sera, quando rientrano a casa dalla “fabbrica” (l’ospedale, l’ASL, il laboratorio, la farmacia, l’azienda...), gli occhi stanchi, ancora più veri, riescono pure a regalarci un sorriso. In cambio vogliono un nostro sguardo attento, sincero, pulito, rassicurante, protettivo. Non ringraziamole quest’8 marzo. Facciamolo tutti i giorni. Ma senza fronzoli, solo meritandocele.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria 


07 marzo 2017
© Riproduzione riservata


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