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La sanità integrativa, una delle sfide della politica sanitaria

di Carla Colicelli

Quello che non bisognerebbe fare è non intervenire in questo settore oppure richiamare il peso dei costi di intermediazione, che sicuramente esistono, ma sono il corrispettivo delle forme di spreco e inefficienza che conosciamo nel pubblico. Sembra in sostanza che occorra introdurre qualche aggiustamento nel modello di offerta sanitaria italiana che parta dalle esigenze di sostenibilità e di equità trovando una possibile mediazione tra l’esistente e l’auspicabile

12 GIU - Mercoledì 6 giugno si è svolta la VIII edizione del Welfare Day, l’evento promosso da Rbm Salute a Palazzo Colonna a Roma, che è diventato nel tempo un appuntamento annuale mportante sul tema della sanità integrativa in Italia. Oltre a prevedere in apertura la presentazione della consueta ricerca del Censis sui comportamenti e la spesa degli italiani di tasca propria per la salute e la sanità, l’iniziativa si caratterizza per l’ampia partecipazione di pubblico, ma soprattutto per quella di esperti e rappresentanti della politica, delle istituzioni e delle parti sociali.
 
Di deciso interesse, come ormai da alcuni anni, la fotografia del settore presentata da Marco Vecchietti, con dati inediti sulle prestazioni e gli assistiti all’interno di un’ampia platea di italiani che aderiscono ad una qualche forma di copertura assicurativa o mutualistica. Importante anche l’intervento introduttivo di Giuseppe De Rita, che ha richiamato alla memoria di tutti la distinzione tra “bisogni monetabili” e “bisogni non monetabili”, con tutte le implicazioni di carattere etico ed economico che ne conseguono.
 
Per chi ha seguito sin dall’inizio il Welfare Day sorge però spontanea la domanda: perché a fronte di simili approfondimenti e riflessioni - da almeno 8 anni a questa parte - la situazione sembra non evolvere né si intravedono possibili linee di intervento di tipo migliorativo? Eppure è evidente che, dopo la stagione della centralità del paziente e quella della riorganizzazione in senso aziendalistico della sanità regionalizzata, il tema oggi di maggiore rilievo dal punto di vista della politica sanitaria è quello della sostenibilità, non solo e non tanto economico-finanziaria, quanto generazionale ed intersettoriale.
 
Solo per citare uno degli ultimi spunti da questo punto di vista, nell’ambito del recente Festival dello Sviluppo Sostenibile la Alleanza italiana (ASviS) ha proposto un Decalogo per la promozione dell’Obiettivo 3 dell’Agenda Onu 2030 “Salute e benessere per tutti a tutte le età” (si veda www.asvis.it), che sottolinea tra le altre cose l’importanza della promozione delle salute in tutte le politiche, la lotta alle disuguaglianze, la necessità di far crescere la ricerca e la prevenzione, ed anche quella di un proficuo rapporto tra pubblico e privato.
 
Rispetto a questo ultimo punto, Asvis propone la valorizzazione del privato sociale, l’integrazione territoriale di funzioni e servizi, la lotta alle sovrapposizioni e duplicazioni. La sanità italiana soffre in particolare della crescita delle cronicità e delle disuguaglianze, compensate in passato come oggi, laddove possibile, dalle forme di “welfare familiare” e dalla spesa di tasca propria. E non dobbiamo nasconderci che ambedue le strategie messe in campo dalla società civile sono da tempo in crisi, per le note difficoltà di una famiglia sempre più debole e di una distribuzione delle risorse economiche sempre più squilibrata.
 
Riesce difficile capire allora come mai continui a perpetuarsi una situazione di “anarchia conflittuale” rispetto a questo ambito di domanda di salute, nella quale coesistono svariegate forme di copertura aggiuntiva (più di 6 secondo gli studi più accurati), di cui godono più di 12 milioni di italiani, che si prevede diventino presto più di 20 milioni secondo i dati di osservatori obiettivi. Questa fetta non indifferente di copertura aggiuntiva riguarda peraltro una quota minoritaria di tutta la spesa privata: sempre secondo fonti scientificamente ineccepibili tra 5 e 15 miliardi annui rispetto ai 40-45 della spesa privata.
 
Ed in questa fattispecie ricorrono, oltre alle assicurazioni sanitarie individuali, decisamente minoritarie, le tante forme di cosiddetto welfare aziendale, dai Fondi contrattuali, ai Fondi interaziendali, alle Polizze grandi aziende, alle Polizze della PA e degli enti pubblici, alle Polizze degli enti previdenziali privati. Non si può non concordare sul fatto che la spesa di tasca propria” sia “la più grande forma di disuguaglianza in sanità” e le alternative a tale proposito sono solo due: o abbatterla - per lo meno per le prestazioni ricomprese nei Lea -, o “regolarizzarla” attuando misure ed accordi che ne facciano una opportunità ed uno strumento di maggiore giustizia sociale.
 
Quello che proprio non bisognerebbe fare è non intervenire, fare finta di niente e parlare di altro, oppure richiamare il peso dei costi di intermediazione, che sicuramente esistono, ma sono il corrispettivo delle forme di spreco e inefficienza che conosciamo nel pubblico. Sembra in sostanza che occorra introdurre qualche aggiustamento nel modello di offerta sanitaria italiana che parta dalle esigenze di sostenibilità e di equità trovando una possibile mediazione tra l’esistente e l’auspicabile, anche attraverso la spesa di tasca propria e le forme di intermediazione, che comunque continueranno ad esistere.
 
Carla Colicelli

12 giugno 2018
© Riproduzione riservata


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