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Come uscire da 10 anni orribili per il Ssn? Alcune proposte per provare ad invertire la rotta

di Carlo Palermo (Anaao Assomed)

Avere per almeno un quinquennio un incremento annuale del Fsn intorno ai 2 mld può rappresentare il primo passo verso la salvezza, il livello minimo di finanziamento per affrontare le criticità emergenti. Serve anche per avviare un grande piano assunzionale. Governo e Parlamento devono poi recuperare il ruolo che spetta loro. Non si può accettare che il fai-da-te delle Regioni e gli ostacoli alle riforme da parte di settori del mondo accademico diventino fonte di nuove diseguaglianze

29 NOV - Sotto il profilo finanziario, il periodo che va dal 2010 e arriva ai giorni nostri è stato terribile per il SSN. A causa della crisi economica, il finanziamento è stato progressivamente ridotto. In due anni addirittura in termini assoluti rispetto all’anno precedente: 2013 con il Governo Monti e il 2015 con il Governo Renzi. Solo con il Governo Letta nel 2014 si è avuta una crescita superiore al tasso inflattivo medio (+ 2,9 mld: + 2,7% rispetto al 2013). Per il resto, il finanziamento è cresciuto di circa un miliardo all’anno, insufficiente a coprire anche il differenziale inflattivo con conseguente perdita di valore in termini reali del FSN. Secondo Gimbe il de-finanziamento del SSN nell’ultimo decennio è calcolabile in 37 mld di €.

La limitazione della spesa per il personale sanitario, introdotta con la Legge n. 296 del 2006 e ripresa dalla Legge Finanziaria per il 2010, associata alle politiche dei piani di rientro per le Regioni in deficit di bilancio, rivelatesi di carattere prettamente economicistico e poco attente alle esigenze di salute dei cittadini, ha determinato nel 2017, come si deduce dai dati del CAT, una carenza nelle dotazioni organiche di circa 8 mila medici, 2 mila dirigenti sanitari e 36 mila infermieri rispetto ai dati del 2010. Regioni e Aziende per raggiungere l’equilibrio dei conti economici hanno risparmiato tagliando sul personale, un Bancomat che è stato ferocemente sfruttato. E non si è trattato solo di blocco del turnover, ma anche di gravidanze o di assenze per malattie prolungate mai sostituite.
 
Anche i posti letto negli ultimi 10 anni hanno subito una vera e propria falcidia, portando l’Italia in coda alle graduatorie europee nel rapporto PL/1000 abitanti. Per questo le condizioni di lavoro nei reparti ospedalieri e nei servizi territoriali, soprattutto nelle Regioni in piano di rientro, sono rapidamente degradate e l’accesso alle cure per i cittadini è diventato difficile, con il prolungamento delle liste d’attesa misurato in semestri se non in anni, in particolare per visite specialistiche, chirurgia in elezione e diagnostica di secondo livello.
 
Così, in particolare al Sud, sono progressivamente peggiorati gli indici di morbilità e mortalità della popolazione, costretta all’emigrazione sanitaria per soddisfare i propri bisogni di salute. Negli ospedali i piani di lavoro, i turni di guardia e di reperibilità sono oramai coperti con crescenti difficoltà e, una volta occupate le varie caselle, si incrociano le dita sperando che nessuno si ammali buttando all’aria il complicato puzzle che bisogna comporre ogni mese. Per gli operatori questo significa milioni di ore di straordinario non pagate, numero di turni notturni e festivi pro-capite in insopportabile crescita, fine settimana quasi sempre occupati tra guardie e reperibilità, difficoltà a poter godere perfino delle ferie maturate. Oggi la sostenibilità organizzativa ed economica degli ospedali italiani si fonda su condizioni di sfruttamento dei professionisti, inconciliabilità tra lavoro e vita familiare e sociale, burnout e malattie stress correlate.

Il risparmio per le Aziende relativamente al mancato turnover dei medici, dirigenti sanitari e infermieri per il solo 2017 è valutabile intorno a 2,5 miliardi di €, mentre gli straordinari non retribuiti rappresentano un regalo di 500 milioni di € che ogni anno viene generosamente elargito dagli operatori. La situazione è pesante e pericolosa per il diritto alla salute dei cittadini ed i dati, che negli anni come Anaao non ci siamo stancati di produrre, indicano che il quadro rischia di avvitarsi verso il dramma, prospettandosi nel prossimo futuro la difficoltà di reperire specialisti a causa della scriteriata programmazione dei fabbisogni nell’ultimo decennio e la possibilità di dover chiudere servizi pubblici.

Di fronte a questa dura realtà che sta mettendo in crisi le strutture sanitarie, in particolare nel settore dell’emergenza/urgenza, le Regioni reagiscono con provvedimenti tanto fantasiosi quanto illegittimi ed inefficaci. Dopo aver clamorosamente fallito con le proposte di assunzione prima di medici pensionati, poi stranieri ed infine militari, oggi si avventurano verso il reclutamento di neo laureati abilitati, anche al di fuori di percorsi di formazione specialistica, o si affidano a cooperative rendendo impossibile la verifica del livello di competenza professionale. Non considerano che derogare dalla normativa nazionale per l’accesso alla dirigenza medica e sanitaria nel SSN, significa abbassare ulteriormente la qualità e la sicurezza delle cure, e quindi incrementare il rischio clinico e il contenzioso con i pazienti.

Cosa fare concretamente in questo difficile contesto?
Importante è sicuramente dare seguito alle promesse avanzate da parte di esponenti dell’attuale maggioranza governativa per la salvaguardia del SSN. Avere per almeno un quinquennio un incremento annuale del FSN intorno ai 2 mld può rappresentare il primo passo verso la salvezza, il livello minimo di finanziamento per affrontare le criticità emergenti. Serve anche per avviare un grande piano assunzionale il cui costo è valutabile, per i soli medici e dirigenti sanitari, in circa un miliardo di €. E’ necessario, pertanto, prevedere nella prossima Legge di Bilancio il superamento del limite posto con l’articolo 11 del DL “Calabria” all’incremento delle dotazioni organiche rispetto al 2018, altrimenti le Regioni in piano di rientro impiegherebbero decenni per recuperare il personale perso dal 2009 in avanti.
 
La proposta è di portare la disponibilità economica dal 5% attuale al 20% dell’incremento del finanziamento del fondo sanitario regionale rispetto all’anno precedente, per almeno tre anni. In presenza di uno sblocco largo delle assunzioni, per far fronte alla carenza attuale e futura di specialisti deve essere rapidamente emanato il regolamento attuativo della norma contenuta nell’articolo 12 del DL “Calabria” che permette l’assunzione a tempo determinato degli specializzandi del 4° e 5° anno con un contratto di lavoro a tempo parziale collegato a quello dell’Area della Dirigenza sanitaria. Ad oggi sono circa 9.000 i medici in formazione interessati, e rappresentano, insieme con i circa 15.000 specializzati degli ultimi tre anni, una platea adeguata per tamponare la prima ondata pensionistica che avremo entro il 2022.
 
Il risparmio sui contratti di specializzazione, conseguente all’assunzione a tempo determinato degli specializzandi da parte delle Regioni, associato comunque ad un ulteriore finanziamento statale, permetterebbe di incrementarne il numero ad iniziare dall’anno accademico 2020/2021 ad almeno 11.000/11.500, di cui 10.000/10.500 statali e 1000 regionali. Innescando tale circolo virtuoso si comincerebbe a rispondere alle attese dei medici intrappolati nell’imbuto formativo, destinati altrimenti ad aumentate nei prossimi anni per l’arrivo alla laurea degli studenti iscritti dalla magistratura amministrativa, senza contare che l’incremento degli specializzandi e del numero dei futuri specialisti permetterebbe di affrontare la seconda ondata di pensionamenti dal 2023 in avanti.

Ma sarà sufficiente avere un numero congruo di specialisti per il futuro?
Oramai il nostro lavoro è vissuto come gravoso, difficile e perfino pericoloso a causa del rischio di denunce ed aggressioni. Spesso si dimentica che un medico è sottoposto a ben quattro livelli di responsabilità: penale, civile, disciplinare e deontologica. Un lavoro con profonde ripercussioni sulla qualità della vita familiare e sociale che non tutti si sentono di affrontare. Lo dimostrano le scelte fatte dagli specializzandi che preferiscono discipline spendibili sul mercato privato, come cardiologia, dermatologia, pediatria, oculistica, chirurgia plastica, che sono saturate già nei primi scaglioni di merito, mentre chirurgia generale o medicina di emergenza/urgenza rappresentano scelte secondarie. Indubbiamente il lavoro nel privato è meno stressante, si affronta una casistica di elezione, non critica, e garantisce una alta remunerazione, in particolare nell’ambito chirurgico. Gli stipendi del settore pubblico, dopo 10 anni di blocco contrattuale, si sono sviliti e l’attuale dinamica contrattuale è insufficiente a garantirne un recupero in tempi brevi. Nel contempo, in Europa cresce la domanda di laureati in Medicina.
 
La Commissione europea indica una necessità di 230 mila medici entro il 2023. I Paesi europei, verso i quali emigrano ogni anno circa 1.500 nostri laureati, assicurano una valorizzazione delle loro capacità professionali e retribuzioni che possono arrivare al doppio di quelle italiane. Bisogna, pertanto, pensare a nuove modalità di remunerazione del lavoro disagiato eliminando l’anacronistico blocco sulle risorse accessorie stabilito con l’articolo 23 della Legge 75/2017 (cosiddetta “Madia”), soprattutto dopo aver ottemperato a quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo come è stato fatto con il recente CCNL dell’Area sanità, procedendo inoltre alla defiscalizzazione della retribuzione di produttività così come è stato fatto nel privato, anche convenzionato.

Non sono problemi che possono essere risolti con mere politiche regionalistiche.
Il Governo e il Parlamento devono recuperare il ruolo che spetta loro perché le politiche sanitarie necessitano di un forte potere di indirizzo. Non si può accettare che il fai-da-te delle Regioni e gli ostacoli alle riforme da parte di settori del mondo accademico diventino fonte di nuove diseguaglianze in ambito sanitario. Non si può accettare che il progressivo de-finanziamento del sistema e la perdita di attrattività per il lavoro pubblico portino ad una sanità duale: una residuale, povera in finanziamenti, personale e tecnologie per i poveri; una ricca di risorse, di possibilità diagnostiche e terapeutiche avanzate e di professionalità per i ricchi, sostenuta da fondi sostitutivi e assicurazioni personali. Sarebbe la fine di quel SSN fondato 40 anni fa sui principi di universalità, equità e solidarietà. 

Carlo Palermo
Segretario nazionale Anaao Assomed

29 novembre 2019
© Riproduzione riservata


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