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Coronavirus. Responsabilità sanitaria e norme emergenziali: alla ricerca di un equilibrio difficile, ma fondamentale

di Maurizio Hazan e Daniela Zorzit

Ieri è stata raggiunta un'intesa su un nuovo testo di emendamento migliorativo. La norma non deresponsabilizza il “sistema” ma semplicemente chiarisce come i moderni assetti della responsabilità civile non sembrino oggi dar spazio a risarcimenti per malpractice in caso di Covid, salvo vi sia una colpa grave particolarmente qualificata. L'ipotesi di un Fondo per gli indennizzi è una strada potenzialmente virtuosa ma non gestibile in tempi brevi, date le evidenti e non banali complessità regolatorie da essa implicate

03 APR - Lo scorso 1 aprile è stato pubblicato, su questa rivista, il testo dell’emendamento che aveva in precedenza ricevuto il parere favorevole dal Governo e che pareva in procinto di essere approvato. Ieri un nuovo testo è stato licenziato, a matrice simile, ma migliorativo in quanto teso a superare alcune delle perplessità sollevate da alcune novità che avevano integrato, in corso di lavorazione, il testo precedente.

Il complesso lavorio, auspicabilmente in via di definizione, cerca di comporre in una norma difficili equilibri e trovare una sua sostenibilità di fondo.
Si tratta, lo abbiamo detto più volte, di un provvedimento delicato ma eccezionale, volto a sostenere il comparto sanitario in questo difficile transito emergenziale ed a chiudere la strada, nei limiti del possibile, a contenziosi di cui, mai come in questo momento, il sistema paese non sente il bisogno…
 
L’obiettivo è quello di calibrare e specificare il limite della responsabilità in un frangente, quello del Covid 19, che ha scompaginato regole e priorità, rendendo oltremodo complicate anche le cose facili e ponendo in perfetta connessione la colpa grave, e la regola di responsabilità prevista dall’art. 2236 c.c., con le difficoltà endemiche di una urgenza terapeutica che non riesce ancora a muoversi entro coordinate certe. Per questo occorre il coraggio di uscire dalle coltri delle interpretazioni riduttive (o abrogative dell’art. 2236 c.c.) e chiarire cosa debba intendersi davvero per colpa grave durante questa emergenza che sarà tramandata alla storia. E dunque rassicurare coloro i quali si impegnano tutti i giorni in una battaglia strenua, fornendo loro uno scudo solido che consenta di prendersi carico dei pazienti senza dover temere troppo facili ritorsioni accusatorie.

Ciò non significa “deresponsabilizzare” ma alzare, con una norma ad hoc, e di molto il limite oltre il quale una condotta diventa rilevante ai fini risarcitori: il tutto tenendo in specifico conto non solo la ontologica inafferrabilità, mutevolezza ed imprendibilità di un morbo che, ad oggi, pone più incognite che certezze, ma anche i problemi del sovraffollamento nosocomiale, della non adeguata disponibilità di risorse umane e materiali, oltre a quelli correlati al fatto che molti operatori della sanità risultano applicati in contesti diversi da quelli in cui hanno maturato la loro specializzazione. E ancora, superando, almeno in questa fase, le distinzioni tra la colpa per imperizia, imprudenza o negligenza, in un contesto in cui ogni scelta (terapeutica ma anche logistica) è vincolata e costretta entro gli strettissimi margini imposti dalla rapidità e prontezza dell’azione.

Ora, raggiungere questo risultato – che di per sé incontrerà ovvie resistenze da parte di portatori di interessi divergenti (il che di per sé dispiace, in un momento in cui sarebbe opportuna una visione solidale del fenomeno…) – occorre fare i conti con la complessità e la delicatezza del tema, cercando di mettere a punto una disposizione che, al di là della sua cifra etica, sappia resistere alle ben prevedibili critiche che potranno pioverle addosso.

Sotto questo profilo, la versione precedentemente approvata dal Governo, modificata rispetto alle precedenti elaborazioni dell’emendamento, presentava qualche profilo di debolezza, che richiedeva di essere sanata prima di licenziarla in forma definitiva. Proveremo a darne contezza.

Il primo comma sembrava aprirsi indiscriminatamente a tutti gli eventi accaduti durante il periodo di emergenza anche se non riferiti specificamente al Covid ed anche se conseguenti a condotte tenute antecedentemente ma manifestatesi, in termini di danno, durante l’emergenza. La versione precedente dell’emendamento prevedeva invece l’espressa limitazione agli eventi “riferibili direttamente od indirettamente” all’infezione Covid 19.
 
Tale specificazione non avrebbe dovuto essere espunta, ancorchè le regole dell’interpretazione razionale paiano in grado di ovviare al problema: l’evento che si verifica durante l’emergenza è quello che i medici non hanno potuto contrastare (nel senso di impedire, scongiurare) proprio perché impegnati a gestire la situazione innescata dall’epidemia. Pensiamo al paziente che arriva in ospedale o si rivolge al medico durante l’emergenza e non può essere ben curato perché tutto il personale è impegnato ed assorbito nel fronteggiare l’allarme Covid.

Sempre il primo comma riferiva la limitazione di responsabilità, oltre che alle strutture sanitarie e socio sanitarie pubbliche e private, agli “esercenti le professioni sanitarie - professionali - tecniche amministrative del Servizio sanitario”: si trattava, anche qui, di una aggiunta in corso d’opera, volta a espressamente ricomprendere le figure tecniche amministrative, ma la formulazione complessivamente adottata sembrava riferire la disposizione ai soli operatori del Servizio sanitario, il che non pare corretto (sebbene anche in questo caso la regola dell’interpretazione razionale potesse soccorrere).
 
La disposizione prosegue ed elencava le ipotesi in cui l’esenzione non opera; ipotesi riferite, rispettivamente a:
a) a condotte intenzionalmente finalizzate alla lesione della persona;
b) a condotte caratterizzate da colpa grave consistente nella macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali predisposti per fronteggiare la situazione in essere;
c) a condotte gestionali o amministrative poste in essere in palese violazione dei principi basilari delle professioni del Servizio sanitario nazionale in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che le ha poste in essere o che vi ha dato esecuzione.
 
La diversificazione della regola dell’esenzione, introdotta dalla lettera c) – aggiunta in corso d’opera – destava qualche perplessità, sia sotto il profilo soggettivo sia in relazione al fatto che solo qui era posto il limite del dolo. Anche questo sfasamento meritava un ripensamento.

Il comma 2 dettava una regola volta a specificare ancora maggiormente i confini della colpa grave, nel tentativo di rendere meno nebuloso un concetto che già il comma 1 lettera b aveva in qualche modo ridisegnato, disancorandolo dalla maggiore o minor distanza da linee guida che, nel caso del Covid, appaiono come un sentiero cangiante in continua evoluzione. Qui, si chiedeva di tener in specifico conto alcune delle maggiori criticità con cui operatori e strutture hanno dovuto confrontarsi in questo periodo emergenziale e, più precisamente, la “proporzione tra le risorse umane e materiali disponibili e il numero di pazienti su cui è necessario intervenire nonché il carattere eterogeneo della prestazione svolta in emergenza rispetto al livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore”. 

Il terzo comma, dedicato alla responsabilità penale, riportava medesimi principi, adattandoli al diverso ambito di riferimento.
 
Questo dunque il quadro normativo di cui si discuteva fino al primo aprile.

La versione evolutiva di quel testo, che oggi parrebbe aver ricevuto un consenso generalizzato, risolve i problemi sopra evidenziati, mantenendo pienamente fede all’impostazione di fondo che animava la proposta normativa originaria.

A prescindere da quel che sarà la versione finale della norma, si tratta di una iniziativa che, a fronte di una situazione di allarme di straordinario impatto, mira dunque ad introdurre chiare limitazioni di responsabilità per gli operatori sanitari e gli enti stessi che si trovino a prestare la propria attività nelle situazioni di emergenza. Ciò proprio al fine di tener conto anche delle ontologiche difficoltà (operative,strutturali, gestionali ecc.) che in tali evenienze occorre fronteggiare e per consentire che i servizi di pubblica necessità possano comunque essere garantiti pure in contesti estremi. 

Rimangono, sullo sfondo ed anzi in primo piano, i pazienti. Quei pazienti che, oggi come mai in passato, confidano nella generosità dello sforzo, assoluto ed incondizionato, che tutti gli operatori della sanità, nessuno escluso ed a tutti i livelli, compiono per provare, quotidianamente, a sconfiggere il nemico comune.

In questo contesto, l’alleanza terapeutica assume una dimensione ancora diversa, e se possibile, nuova, nei tempi moderni. Dimensione incompatibile, naturalmente, con la prospettiva di una conflittualità alimentata tra le pieghe dei numerosi, e in buona parte inevitabili, eventi avversi a cui stiamo quotidianamente assistendo. Eventi che il sistema sanitario si è trovato ad affrontare con mezzi non sempre adeguati allo scopo e, soprattutto, senza conoscere risposte terapeutiche definitive. Tanto più in un ambito che non è nazionale, ma di portata mondiale: il che rivela una complessità gestionale catastrofale e straordinaria.

Questo non significa che una vittima del Covid debba rimanere sempre e necessariamente esposta, senza alcuna possibilità di ristoro. La norma non deresponsabilizza il “sistema” ma semplicemente chiarisce, in modo più forte e netto (e con decise finalità preventive, onde evitare speculazioni risarcitorie) come i moderni assetti della responsabilità civile non sembrino oggi dar spazio a risarcimenti per malpractice in caso di Covid, salvo, davvero, vi sia una colpa grave particolarmente qualificata (o addirittura il dolo, ipotesi peraltro remota, tanto più in uno scenario in cui i medici si stanno prodigando per salvar vite). 

V’è da pensare, peraltro, che, anche laddove non vi fosse una tal disposizione ad hoc, il sistema potrebbe comunque difendersi da improvvide campagne accusatorie utilizzando gli strumenti esistenti; viene qui in linea di conto, in particolare, l’art. 2236 cc., letto però al filtro della più “illuminata” giurisprudenza (tra cui Cass. pen. 10.06.2014 n. 24528 est. BLAIOTTA) che ha ben evidenziato come detta norma si atteggi "come regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare l'addebito di imperizia sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà".
 
In quest’ottica si è sottolineato, con grande slancio prospettico (anzi, retrospettivo), tutto teso a riportare alla vita il significato autentico e primordiale del precetto di cui all’art. 2236 cc., che "Questa rivisitazione della normativa civilistica appare importante, non solo perchè recupera le ragioni profonde che stanno alla base del tradizionale criterio normativo di attenuazione dell'imputazione soggettiva, ma anche perché (..) pone in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall'altro (aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le situazioni nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in quella temperie intossicata dall'impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili. Quest'ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa".
 
Si tratta della (ri) affermazione di un principio che valorizza (nella giusta luce della attenuazione della responsabilità), l’urgenza terapeutica e che pare trovare naturale collocazione e sviluppo nella attuale emergenza Covid. Una regola codicistica che va letta nel senso della necessità di tener conto delle circostanze peculiari in cui l’esercente viene chiamato ad operare ed a spendere le sue energie, fisiche , intellettuali ed emotive: mai come ora l’art. 2236 cc. dovrebbe poter ritrovare linfa e “potenza espressiva ed applicativa” perchè (per riprendere le parole di Cass. 10.06.2014 n. 24528 ) "una attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi, sovente accresciuta dall'urgenza; e di distinguere tale situazione da quelle in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l'urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in emergenza. (..) Da questo punto di vista, si è concluso, l'art. 2236 cod. civ. non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell'ordine stesso delle cose".
 
Una “illuminata” applicazione dei principi già esistenti, si diceva, consentirebbe comunque, verosimilmente, di respingere potenziali “attacchi”: ma il solo peso di un contenzioso nutritissimo, ancorchè concluso sempre (in ipotesi) vittoriosamente, rappresenterebbe, per un comparto già sfiancato dal virus, un gravame difficilmente sostenibile e fiaccherebbe la fiducia e la dedizione di chi mette in gioco se stesso per proteggere la salute altrui. 

In questo contesto, dunque, la prevedibile levata di scudi di chi riterrà che i pazienti debbano essere tutelati in modo più energico merita di esser guardata con meno slancio emotivo e più razionalità.

D’altra parte, la soluzione alternativa o complementare, potrebbe risiedere nella costituzione di un fondo, destinato ad erogare indennizzi a coloro i quali siano stati vittime del Covid per errore medico. Non siamo però qui in un contesto simile a quello che in Francia regola l’alea therapeutique.
 
Non siamo di fronte a situazioni tipicamente nosocomiali, a prestazioni caratterizzate da una imprevedibilità genetica dell’evento avverso e dalla difficoltà di ricondurla ad una responsabilità sanitaria. Siamo dinanzi ad un fenomeno collettivo e catastrofale, che infiltra ogni strato della società e del nostro vivere civile: ed allora si pone con ancor più urgenza il problema correlato alla davvero straordinaria difficoltà di comprendere se il decesso di un paziente sia dovuto a causa imputabile o meno alla struttura / al singolo medico (piuttosto che, autonomamente, all’inevitabile e non contrastabile insulto del virus).
 
E dunque il Fondo come e quando opererebbe? Per i soli casi in cui vi sia una responsabilità non grave? Come la si accerta, a fronte di una serie di assai probabili “esimenti” opponibili in stato di emergenza? Ed anche laddove si pensasse ad un sistema indennitario, a chi dovrebbero esser riservati gli indennizzi, posto che, se non vi è responsabilità, i diritti e le aspettative degli eredi di chi muore a casa sono uguali a quelli degli eredi di chi muore in ospedale.  

E’ una strada, quella del Fondo, potenzialmente virtuosa ma non gestibile in tempi brevi, date le evidenti e non banali complessità regolatorie da essa implicate, negli scenari Covid.

Il pericolo è perdere tempi di gioco, alimentando un conflitto sociale antinomico rispetto a quella che è sembrata essere, durante questa severa emergenza, la possibile rinascita dell’alleanza terapeutica, nel senso più sacro e profondo del termine.

Ed in questo contesto, le regole di tutela dei medici, rispetto ai loro rischi lavoristici esponenzialmente aumentati, dovranno essere perfettamente presidiate, con sistemi ben calibrati e, qui si, con coinvolgimento degli assicuratori sociali e dello Stato. 
 
Maurizio Hazan
Avvocato
 
Daniela Zorzit
Avvocato

03 aprile 2020
© Riproduzione riservata


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