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Coronavirus. Le criticità “smascherate” dall’emergenza: cosa abbiamo imparato

di Enrico Desideri

E’ stata evidente, infatti, la necessità di una guida unica nazionale sui comportamenti e sulle scelte di fondo a garanzia della salvaguardia del Diritto alla Salute (altro che “regionalismo differenziato”!), ma è stato parimente chiaro che la pratica attuazione non può che essere messa a punto, contestualizzata, dalle Regioni e dalle singole Aziende Sanitarie

06 APR - Fin troppo paragonata ad una guerra, l’emergenza planetaria dovuta al nuovo coronavirus (COVID) ha avuto una risposta rapida ed efficace dello Stato: la scelta del lockdown, infatti, è stata giudicata dal mondo scientifico importante per limitare il numero dei contagi e di conseguenza il numero dei morti (Ferguson N. Bhatt S:, Imperial College di Londra), ma senza dubbio molto lo dobbiamo al valore dei nostri sistemi sanitari pubblici, nonostante siano stati colti purtroppo per alcuni aspetti vulnerabili, non preparati, soprattutto a causa della mancata implementazione del Piano per le maxi emergenze da pandemia elaborato nel 2007 e di una risposta europea ed internazionale coordinata.
 
Da più parti si sono alzate, quindi, voci e scritti tesi a sottolineare le carenze che si sono manifestate in queste difficili lunghe settimane durante lo stato di emergenza. Senza volerci accodare al numero crescente di osservatori che giungono a parlare di “provvida sventura”, di manzoniana memoria, durante questi mesi concitati, sono emersi aspetti di grande interesse, sia in negativo che in positivo!
 
Volendo iniziare dalle cose favorevoli grazie alle quali è stato possibile dare rapida risposta alla pandemia (così come ci è stato riconosciuto dagli osservatori di tutto il mondo), in Italia ha funzionato da subito, almeno in questo caso, un forte e deciso coordinamento centrale sulle Linee essenziali di risposta all’epidemia, pur nel rispetto della autonomia delle regioni e delle scelte gestionali delle singole Aziende Sanitarie. E’ stata evidente, infatti, la necessità di una guida unica nazionale sui comportamenti e sulle scelte di fondo a garanzia della salvaguardia del Diritto alla Salute (altro che “regionalismo differenziato”!), ma è stato parimente chiaro che la pratica attuazione non può che essere messa a punto, contestualizzata, dalle Regioni e dalle singole Aziende Sanitarie. Nell’emergenza, come è stato da tutti riconosciuto, le ASL e le Aziende Ospedaliere hanno saputo dare prova di rapidità nel riordino adattativo delle linee produttive in raccordo efficace con il livello regionale, nel solco delle direttive impartite dal Ministero; quindi, NO al vecchio centralismo lento ed incerto anche per gli inevitabili condizionamenti; Si ad una catena decisionale che si muove nel solco di scelte e visioni strategiche UNICHE per tutti!
 
E’ solo il caso di accennare allo straordinario senso di abnegazione dimostrato da tutti gli operatori e le operatrici sanitarie, non scordando, almeno in questa evenienza, lo straordinario apporto dato nell’ambito sociale dagli operatori dei comuni e delle ASL!
 
La prima lezione da metabolizzare: non ci può essere garanzia di universalità delle cure “solo” attraverso la misura dei LEA (i cui criteri da anni sappiamo bene che devono essere rivisti…!), ma deve essere ripresa un’azione di indirizzo e normazione finalizzata ad applicare i migliori modelli di presa in cura dei pazienti acuti e cronici, estendendoli a tutte le realtà regionali!
 
Altro aspetto di grande rilievo, assolutamente positivo, è il forte credito che, almeno in questa vicenda, è stato dato alla comunità scientifica: in questo frangente ogni decisione, ogni notizia sugli organi di informazione - fortunatamente- è stata tratta da quanto detto o dichiarato da epidemiologi, virologi o infettivologi e questo ha ostacolato la valanga di notizie senza controllo, fake news, che quotidianamente si sono riversate sui social!
 
C’è da augurarsi che di questa fiducia resti memoria nei cittadini e nella mente di certi politici sulle tematiche sanitarie un po' improvvisati! Ma, a questo proposito, dobbiamo riconoscere che per molti la presenza di servizi di epidemiologia nelle ASL sono stati una scoperta, mentre il loro insostituibile ruolo, anche al di fuori dell’ambito delle malattie infettive, è assolutamente strategico!
 
Personalmente non ho memoria di interventi politico-istituzionali tesi a valorizzare, potenziare questo livello di assistenza e queste professionalità nate soprattutto per garantire lo studio valutativo dell’andamento epidemiologico, ad esempio, nelle sotto-popolazioni esposte a tossici ambientali o maggiormente fragili per motivi socio-economici o per la lontananza dai centri di cura o a causa del basso livello d’istruzione! Questa a mio parere è la seconda lezione che traggo dagli eventi di questi ultimi mesi.
 
L’impegno di tutti i professionisti e di tutte le professionalità, ha aperto peraltro un percorso normativo, speriamo una evoluzione non limitata alla cura dei pazienti COVID, teso ad alzare, con una specifica norma, il limite oltre il quale una condotta diviene rilevante ai fini della responsabilità professionale, penale e civile.
 
“La battaglia si vince sul territorio”, con questo aforisma in molti hanno voluto sottolineare, giustamente, che una parte del sovraccarico negli ospedali è stato palesemente dovuto ad una storica sottovalutazione delle grandi potenzialità delle Cure Primarie, medici medicina generale, infermieri, farmacisti e psicologi territoriali, che nella tragedia, anche emotiva, hanno saputo, specie in alcune realtà, dimostrare la loro capacità di sostegno delle funzioni vitali del corpo e della psiche.
 
A prova di quanto detto, pur nelle oggettive difficoltà legate all’iniziale forte mancanza di DPI e di strumenti diagnostici (analisi dei tamponi naso-faringei, digito puntura per il dosaggio ematico anticorpi…), è stata dimostrata la capacità di evitare la crescita del tasso di ospedalizzazione (prevalenza ospedalizzati su totale positivi), che si è avuto in alcune realtà italiane più organizzate e già preparate ad affrontare sul territorio , in raccordo con gli specialisti ospedalieri, le non meno letali malattie croniche! Questa è senza dubbio la terza e principale lezione da memorizzare se vogliamo evitare inutili ospedalizzazioni (e i relativi costi). Dobbiamo, quindi, riprendere la strada, che per la verità era in essere a livello del Ministero e di molte regioni, per un nuovo assetto organizzativo capace di garantire un raccordo strutturato, cioè garantito e sistemico, fra i protagonisti delle Cure Primarie e quelli delle cure specialistiche ospedaliere.
 
A tale proposito, è opportuno sottolineare come in questo frangente siano state sperimentate con successo nuove forme di filtro dei MMG all’accesso al Pronto Soccorso. La drastica riduzione degli accessi al Pronto soccorso, osservata durante la pandemia, certo collegata alla paura del virus, è la prova indiretta della inappropriatezza degli accessi al PS nelle situazioni ordinarie!
 
E’ noto infatti come solo una minoranza (circa il 25%) degli accessi non in ambulanza ai PPSS siano appropriati e non trattabili sul territorio:
fornendo ai MMG e ai PLS gli strumenti per svolgere efficacemente questo nuovo e complesso compito, possiamo superare questa “lamentatissima” criticità che causa lunghe (e non giustificabili) attese. Ad es., nella mia esperienza, l’inserimento all’interno del PS di medici di famiglia, in tempi ordinari si intende, a valle del triage infermieristico, dando loro il necessario supporto e la possibilità di far effettuare accertamenti minimi necessari (es. RX del torace, il dosaggio di un enzima o di un metabolita), ha risolto, con la soddisfazione di tutti, i picchi di iper-afflusso al PS tipico, dei mesi invernali, nei “fine settimana”.
 
Detto questo, è doveroso sottolineare, oggi, quanto già da tempo rimarcato in ordine al sotto finanziamento del nostro SSN a cui è legata la forte carenza di personale sanitario, in particolare di medici, specie nelle discipline specialistiche più necessarie! Tale carenza è legata soprattutto alla- più volte segnalata- illogica e netta chiusura del numero di iscrizioni a medicina e nelle Scuole di Specializzazione( ad es. di Anestesia e Rianimazione!), così come la mancanza di personale per la assistenza di questi pazienti, alcuni assai complessi, che è strettamente connessa al tetto di spesa imposto da una Norma (il “famigerato” tetto di spesa per il personale: 2004-1.4%) molto vigilata dalla Corte dei Conti (…) anche in Aziende Sanitarie in pareggio di bilancio,“ alla faccia” dell’autonomia organizzativa e gestionale prevista dall’art 3 c1 del D. Lgs. n°502/02!
 
Non c’è dubbio che queste non più giustificabili limitazioni costituiscano la quarta lezione da non dimenticare:  alla carenza di personale si è aggiunta la carenza di pp.ll. oggettivamente molto molto ridotti specie per le “costose” terapie intensive. Pochi, o addirittura in molte realtà assenti, i pp.ll. di sub-intensiva respiratoria (UTIP), e tutto ciò senza un reale impegno per lo sviluppo delle cure domiciliari per i pazienti fragili, anche molto complessi ad es. in nutrizione artificiale o attaccati ad un respiratore; per non parlare della carenza in tutta Italia di pp.ll. per le Cure Intermedie!
 
Ancora, una forte riduzione di risorse ospedaliere perché costose, non certo perché opportunamente rese meno necessarie grazie ad una diversa e più appropriata assistenza territoriale. Ecco la quinta.
 
La debolezza maggiore emersa, specie nel confronto con altri Paesi che si sono dimostrati - come noto - decisamente più attrezzati, è stata sul piano delle tecnologie indispensabili ad es. per il “governo dati” (ad es piattaforme per il tracciamento dei contatti in modo anonimo con tecnologie applicabili su smartphone o bracciali abilitati) o le applicazioni di Telemedicina che può risolvere il “dubbio amletico” (il principe Amleto per altro nell’esprimerlo teneva in mano un teschio…), se visitare tutti, con il rischio di contagio e diffusione del virus, o proteggere noi e gli altri riservando a casi selezionati la visita medica tradizionale ed utilizzando mezzi semplici come Skipe o Zoom o un’ apposita valigetta WIFI per la televisita o il teleconsulto relativo a soggetti in isolamento domiciliare , così come il telemonitoraggio per disporre di dati che da device ormai miniaturizzati e in grado di trasmettere al medico, anche in continuo, i parametri vitali, quali i valori della saturometria o della pressione arteriosa o della glicemia, così come un’immagine ekofast del torace, permettendo nei fatti una sorta di triage virtuale!
 
Ricordandoci che queste tecnologie, superata la emergenza COVID, resteranno utilissime per ridurre la necessità di ospedalizzazione dei pazienti cronici, per ridurre i costi e per migliorare i PDTA attraverso uno stretto collegamento fra Cure Primarie e Rete Specialistica
 
A mio giudizio la mancanza di investimenti in tecnologie informatiche, a fronte di un’onda tecnologica mai vissuta prima, appare una grossa sesta criticità emersa.
A proposito di innovazione, è qui doveroso un richiamo alle difficoltà che da sempre vive la ricerca in Italia!
Ce ne siamo accorti adesso perché le chiediamo risposte certe e rapide su tecniche diagnostiche (e relativa sensibilità-specificità), sullo studio del virus e dei farmaci contro al virus, ma non vi è dubbio che, nel nostro Paese, le abbiamo riservato un ruolo da Cenerentola, per fortuna coperto in parte dalla passione e dalle collaborazioni internazionali dei nostri ricercatori!
 
A questo proposito va però anche riconosciuta la prontezza con la quale il sistema ricerca ha saputo in Italia mettere in cantiere, anche con metodologie innovative e rigorose, ben 8 sperimentazioni ad oggi già in Fase III sui possibili farmaci anti COVID (remdesivir, tocilizumab, emapalumab, sarilumab..).
 
In ultimo, questa terribile pandemia ha avuto un forte impatto sulla vita sociale, economica e lavorativa colpendo, come inevitabile, le classi sociali più fragili.
In una situazione di insostenibilità oggettiva, la sopravvivenza è stata resa possibile dall’intervento pronto e generoso della comunità (volontariato, associazioni di tutela e/o singoli cittadini) spesso in sinergia con i Comuni!
 
La Sanità deve rilanciare il tema che costituisce il fondamento della L 833/78: la partecipazione di tutti al bene comune.
 
Il Distretto Socio Sanitario costituisce, specie con gli accorpamenti - a volte decisamente eccessivi – delle ASL, l’interfaccia naturale ed autorevole per progetti integrati con il Volontariato e i Comuni non “calati dall’alto”, ma disegnati, discussi e condivisi da chi è espressione dei bisogni di tutti e delle straordinarie potenzialità delle nostre Comunità, come dimostrato in modo incontestabile dalla emergenza che stiamo vivendo a causa del COVID.
 
La necessità di rivedere e valorizzare il ruolo del Distretto Socio-sanitario rappresenta a mio giudizio il settimo aspetto emerso in questo particolare periodo, in molte Regioni, ad oggi, il suo ruolo è del tutto incerto (addirittura in alcuni convegni l’ho sentito scambiare con il Poliambulatorio, il poliambulatorio ex INAM!!!) mentre, a mio parere, costituisce un fattore organizzativo indispensabile se vogliamo superare le incomprensioni e le, a volte solo apparenti, difficoltà del SSN italiano

Enrico Desideri
Presidente Fondazione Innovazione e Sicurezza in Sanità
Già coordinatore nazionale DD.GG per Federsanità


06 aprile 2020
© Riproduzione riservata


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