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Per la sanità sta per partire una stagione mai vista di riforme. Le Regioni saranno pronte?

di Ettore Jorio

Il Covid ci ha lasciato in dote, oltre ai drammi umani, sociali ed economici, anche una straordinaria occasione per riformare profondamente il nostro sistema sanitario. Un bel lavoro al più vicino orizzonte delle Regioni, specie di quelle del Mezzogiorno, per non parlare di quelle commissariate

20 GEN - L'emergenza causata da SARS-COVI-2 (acronimo di Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2) ha stravolto la vita del pianeta e ha determinato l'esigenza di revisione dei sistemi sanitari nazionali, dimostratisi tutti deboli e impreparati ad affrontare la pandemia. Una esperienza che impone, ovunque, la necessità di dotarsi di sistemi di tutela dalle emergenze sanitarie che sembrano essere, comunque, dietro la porta e con pochi e inadeguati rimedi farmacologici e mezzi terapeutici.
 
L'Italia, come la totalità dei Paesi occidentali, ha sofferto l'evento epidemico, registrando decine di morti e un notevole segmento della popolazione gravemente infetto, sui cui strascichi sarà il tempo a fare emergere successive preoccupazioni, che si sperano non invalidanti.
 
Urge la revisione dei programmi
Tutte le Regioni, nessuna esclusa, dovranno pertanto rivedere i loro sistemi sociosanitari, francamente indeboliti soprattutto sul piano della prevenzione e dell'assistenza territoriale, che hanno dimostrato la loro debolezza in tutta la sua portata.
 
Dovranno altresì riconsiderare l'offerta ospedaliera - troppo aggiornata in funzione dell'entità dei DRG e, per alcune di essi, resa funzionale ad intercettare l'altrui mobilità passiva per centinaia di milioni di euro - adeguandola con quelle specialistiche (pneumatologia, malattie infettive, dermatologia, eccetera) ritenute, a torto, obsolete, cogliendo così l'occasione per dare una migliore risposta alla domanda generata dalla irrefrenabile immigrazione.
 
Per non parlare delle Regioni commissariate che dovranno fare un siffatto sforzo con il contemporaneo obbligo di dovere ripianare i loro enormi deficit patrimoniali ed equilibrare i conti economici, naturalmente in costante disavanzo determinato da vecchi vizi gestori, da una inarrestabile mobilità passiva di centinaia di milioni di euro, da contenziosi più o meno volutamente celati e conseguenti interessi di mora sopportati, da una governance non sempre all'altezza dei suoi compiti e da una delinquenza organizzata ben insediata all'interno del sistema.  
 
Vietato disperdere lo sforzo del Governo
Il Governo si è impegnato, prescindendo se al lordo ovvero al netto del MES, ad utilizzare una consistente parte del Recovery plan per potenziare, per l'appunto, la prevenzione e l'assistenza territoriale. Un intervento programmatico, finanziariamente assistito, che dovrebbe facilitare e avvicinare il momento erogativo ai cittadini, alleggerendo nel contempo la domanda che ha da sempre privilegiato il ricorso all'ospedale.
 
Ha individuato in proposito due strumenti che, tra l'altro, dovrebbero favorire una siffatta trasformazione:
- le case di comunità, che nella missione 6 del Recovery plan, vengono definite «punto di riferimento di prossimità e punto di accoglienza e orientamento ai servizi di assistenza primaria di natura sanitaria, socio-sanitaria per i cittadini». In quanto tali dovrebbero diventare, in sinergia con l'assistenza domiciliare, il punto di svolta e di rigenerazione dell'organizzazione della medicina preventiva e di prima istanza. Lo farebbero a tal punto da offrire l'occasione, finalmente, concreta per mettere ordine ad un sistema imperniato su un distretto sino ad oggi troppo metafisico, in alcune regioni reso operativo sulla carta, e su quelle Aft e Uccp che hanno dimostrato ovunque la loro inadeguatezza operativa, tanto da essere quasi ovunque organizzativamente disattese. Un modo questo per rilanciare l'efficienza e l'efficacia della medicina convenzionata, resa sofferente da una condizione esistenziale un po' «fuori moda»;
 
- gli ospedali di comunità, già previsti nel Patto per la salute 2014-2016 e nel piano di cronicità del settembre 2016, ne sono previsti uno ogni 80 mila abitanti. Qui dovranno intendersi fondamentali per un loro efficace posizionamento le condizioni orografiche del territorio, spesso nel sud impossibili. Una struttura fondata da ragioni apprezzabili, che prende atto della funzione ancillare della famiglia, dal momento che essa è destinata anche all'assistenza di quei pazienti impossibilitati a sostenere le loro precarie condizioni di salute presso il loro domicilio, sia per assenza di una rete familiare di sostegno che per la necessità di fare ricorso a cure infermieristiche continue.
 
Nuovi  programmi e atti aziendali cercansi
Tutto questo porta a dovere riconsiderare in ogni regione la più generale programmazione della salute, sia dell'offerta ospedaliera, dell'emergenza-urgenza e, prioritariamente, del territorio, con il meritato inserimento delle reti Usca, alle quali dare una maggiore dignità di quella sino ad oggi riconosciuta loro, quanto a previsioni organizzative e trattamento del personale dedicato.
 
Tutto questo intarsiato con le necessità assistenziali da rendere in relazione al Piano di emergenza Covid con piano vaccinale al seguito.  Il tutto funzionale a determinare nuovi atti di indirizzo per il concepimento e la redazione degli atti aziendali, propedeutici a rendere l'offerta programmata in erogazione reale. Un bel lavoro al più vicino orizzonte delle Regioni, specie di quelle del Mezzogiorno, per non parlare di quelle commissariate.
 
Ettore Jorio
Università della Calabria

20 gennaio 2021
© Riproduzione riservata


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