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I Forum di Quotidiano Sanità. La sinistra e la sanità. Enrico Rossi: “La sanità dovrebbe basarsi sull’autogoverno di chi ci lavora”

di Enrico Rossi

Per la sanità dovrebbe valere la straordinaria idea della sinistra per cui il cambiamento nella società può essere prodotto essenzialmente da forme di autogoverno dei produttori alle quali anche il sistema sanitario potrebbe ispirarsi, in modo che il personale dipendente di un’azienda sanitaria diventi protagonista del suo funzionamento, partecipando alle scelte con le sue conoscenze e, al contempo, realizzandosi come lavoratore il cui scopo ultimo è la salute dei cittadini

18 MAR - La sanità, come prova a dimostrare Ivan Cavicchi, se ho capito il senso del suo bel pamphlet, è la più politica delle questioni, perché riguarda i rapporti economici e sociali su un punto delicatissimo che è la vita e la morte delle persone, la salute e il benessere di una comunità.
 
Le categorie e gli strumenti, come la marxiana contraddizione, che sapientemente vengono usati nel libro per ragionare della sanità sono gli stessi che possono essere utilizzati per parlare di ambiente, diseguaglianze sociali, territoriali, di squilibri di genere e di potere.
 
E’ una novità interessante e coraggiosa che prova a rispondere al bisogno di una ricerca non superficiale sulle cause della crisi della sanità pubblica e sui modi per uscirne.
 
La sinistra ha rinunciato da tempo a pensare il conflitto, come elemento motore di cambiamento e di promozione umana, non solo in sanità ma in tutti gli altri aspetti della vita sociale ed economica, in Italia come in Europa.
 
Si è creduto che lo sviluppo capitalistico, lasciato libero, producesse un generale avanzamento rispetto a cui il compito fondamentale delle forze progressiste fosse solo di intervenire per risolvere i residui problemi.
 
Difficile dire da dove si è cominciato. La rinuncia ad un pensiero critico è stata in ogni campo, nella forma di una generale subordinazione alle categorie economiche neoliberiste e al trionfo del mercato in ogni attività e settore.
 
L’autocritica, ha ragione Cavicchi, è una peculiarità della sinistra che vuole effettivamente cambiare le cose.
C’erano forse altre strade rispetto a una generale smobilitazione?
 
Il primo errore è stato pensare che non ci fossero, rimanendo così stretti in una morsa: da un lato la riduzione dei finanziamenti alla sanità che è stata senza precedenti per quantità e durata nel tempo, dall’altro, non meno grave, il prevalere di una concezione consumistica della sanità per la quale non sono stati posti limiti di sobrietà ed eticità, soprattutto se la spesa è funzionale al mercato.
 
Possiamo avere una scusante: tutto ciò che abbiamo fatto - razionalizzazioni, efficienza, riduzione dei costi, produttività - lo abbiamo fatto mossi dalla buona intenzione di limitare per il nostro popolo i danni prodotti da quella morsa feroce.
 
Non tutto il lavoro è, ovviamente, da buttare perché esso ha garantito per molte prestazioni un miglioramento della qualità, lo sviluppo di specializzazioni e di innovazioni, di nuovi farmaci e nuove cure che hanno certo contribuito all’aumento della speranza di vita, ora regredita in modo impressionante a causa della pandemia.
 
Questa politica della riduzione del danno, della ricerca di risposte a problemi contingenti si è rivelata profondamente inadeguata e oggi, nelle mutate condizioni prodotte dal Covid 19, sarebbe dannosa.
 
Non solo perché il Covid 19 ha mostrato tutte le fragilità del sistema sanitario, al netto della eroica resistenza e del sacrificio di tanti operatoti sanitari, ma anche perché la debole resilienza dei servizi sanitari di fronte all’urto della pandemia ha provocato colpi e dissesti tali nell’organizzazione del sistema che non sarà possibile tornare indietro, ai tempi precedenti l’evento traumatico, come se nulla fosse accaduto.
 
Cavicchi va subito al cuore del problema, alla questione politica: sono maturi i tempi per una “quarta riforma della sanità”, perché i tempi nuovi, come quelli che stiamo vivendo, impongono nuovi pensieri, nuove categorie e concetti, che stanno oltre la buona amministrazione delle cose.
 
Occorre tornare ai fondamenti e ai valori della sanità pubblica, sanciti nella legge 833 del ‘78, che il successivo riformismo debole ha via via contraddetto, dando spazio al privato e impoverendo la struttura sanitaria pubblica.
 
Oggi la situazione è tale che lo stesso flusso di risorse, abbastanza importante, che si è avuto in questo periodo, potrebbe essere persino fuorviante e spingere a inseguire di volta in volta le esigenze che emergono, creando l’illusione di poter continuare senza profondi cambiamenti e finendo per alimentare più pesanti e insostenibili squilibri nel sistema.
 
Senza un pensiero profondo non si va da nessuna parte e anche le maggiori risorse possono contribuire alla crisi, continuando nella stessa sbagliata direzione.
 
Ad esempio: le opportune e per tanti versi doverose assunzioni che sono state fatte durante la pandemica dove saranno collocate una volta che essa sarà terminata?
 
Chi e come dovrà formare questa nuova generazione di sanitari, per quali incarichi e per quale organizzazione della sanità?
 
Anche a me, come a Cavicchi, sembra che finora le proposte avanzate dalla sinistra non siano all’altezza dei problemi e dei compiti che essa deve porsi se vuole veramente avere a cuore gli interessi dei più deboli e dei più offesi; la cui tutela e emancipazione è la ragione stessa della esistenza di una forza progressista, ed è la base del diritto sacrosanto di attuare politiche di ridistribuzione della ricchezza per costruire contro la malattia sistemi sanitari universali, pubblici che danno a tutti, secondo il bisogno, risposte gratuite e di massima qualità.
 
Il libro di Cavicchi apre dunque un dibattito necessario a cui, partendo soprattutto dalla mia esperienza di lavoro politico, vorrei dare un contributo aggiungendo qualche considerazione e ponendo qualche interrogativo.
 
La premessa da cui dobbiamo partire è che la sanità, come strumento per tutelare la salute, si è vendicata sull’economia per la semplice ragione che il lavoro richiede individui in salute.
 
L’O.M.S., già nel 2007, nel suo rapporto sulla salute nel ventesimo secolo, lanciava un monito a proposito del rischio di pandemie virali, “in un mondo dove il delicato equilibrio uomo e microbi viene alterato da diversi fattori”, tra i quali la rottura degli equilibri degli ecosistemi e i cambiamenti climatici.
 
Il dibattito politico in generale ma anche quello che noi vogliamo fare non deve trascurare questo elemento fondamentale.
 
Scrive infatti Paolo Giordano, nel suo libro “Nel contagio”, che “la nostra aggressività verso l’ambiente rende sempre più probabile il contatto con patogeni nuovi” e perciò “il contagio è un sintomo e l’infezione è nell’ecologia”.
 
La prima volta siamo stati impreparati ad affrontare una situazione per tanti versi inattesa ma non possiamo permetterci di esserlo ancora se dovessero ripresentarsi, come prevedono molti scienziati, eventi simili al Coronavirus.
 
Se da un lato occorre sanare la ferita inferta alla natura da decenni di sviluppo incontrollato e rimettere in equilibrio l’attività dell’uomo con la natura stessa attraverso una transizione ecologica, dall’altro occorre essere anche pronti ad affrontare i rischi che possono presentarsi a causa degli attuali squilibri.
 
Il sistema sanitario è stato vulnerabile e solo molto parzialmente capace di resilienza.
 
Scrive Vittorio Emanuele Parsi, (Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo), che “il livello di resilienza dell’elemento più fragile detta il livello di resilienza dell’intera struttura”.
 
La sanità nella pandemia si è rivelata essere troppo fragile e ha inciso negativamente sul livello di resilienza dell’intera struttura sociale ed economica, che così si è dovuta bloccare.
 
La verità è che in Italia veniamo da anni in cui, oltre che a una carenza di pensiero critico e riformatore, si sono attuate politiche di tagli al personale e alle dotazioni sanitarie in genere che, puntando tutto sull’efficienza e sulla produttività, hanno creato un sistema incapace di assorbire un urto pesante come quello del Covid 19.
 
Siamo stati vulnerabili anche perché abbiamo ridotto, in 10 anni, dal 2008 al 2019 di ben 38.000 unità il personale sanitario e diminuito il numero dei posti letto dal 7,2 al 3,2 per centomila abitanti.
 
E’ stato giusto ricercare una più alta specializzazione dei posti letto e ottimizzare il loro utilizzo negli ospedali, ma è stato miope non recuperare quanto veniva ridotto negli ospedali rafforzando il territorio con posti letto di cure intermedie, organizzati secondo una intensità di cura articolata fino all’assistenza domiciliare, in modo da avvicinare veramente alla popolazione un livello adeguato di assistenza e di continuità della presa in carico.
 
Inoltre, dobbiamo domandarci se, in presenza di risorse limitate, non si sia stati propensi a spendere in modo sproporzionato per le tecnologie, spesso duplicate in modo irrazionale, e per l’ultimo farmaco costosissimo, mentre con troppa facilità si è tagliato su altre specialità di tipo medico e clinico, come la pneumologia , l’infettivologia, la geriatria, la medicina interna, ecc. , per non parlare della prevenzione, che per legge è uno dei tre pilastri del nostro sistema sanitario e che invece è stata lasciata letteralmente senza risorse.
 
Infatti, ciò su cui fin dall’inizio della pandemia si è stati maggiormente carenti, e che ha finito per saturare subito i posti letto ospedalieri e le terapie intensive, è stato proprio l’aspetto della prevenzione e della cura a partire dal territorio.
 
Una tendenza che viene confermata anche sul piano dei farmaci dove si ha l’impressione che si sia preferito dirigere gli investimenti prioritariamente verso i più profittevoli vaccini piuttosto che su un farmaco capace di curare la malattia.
 
Oggi, la pandemia riporta in auge la necessità della clinica, della medicina sociale, della prevenzione che sono prestazioni il cui drg non è neppure paragonabile alle costose prestazioni dell’alta tecnologia o ai farmaci di ultimissima generazione.
 
Non si tratta, evidentemente, di negare queste prestazioni costose ma di assicurare meglio anche le altre che sono altrettanto essenziali per la salute degli individui e delle comunità.
 
Avere puntato tutto sull’efficienza, sull’aziendalizzazione e quindi sul drg ha prodotto distorsioni grandi nel sistema sanitario che devono essere correte riportando al centro il diritto alla salute e al primo posto nel governo del sistema la programmazione sanitaria, basata sul rilevamento dei bisogni della popolazione, sulla individuazione del modo migliore per soddisfarli, indipendentemente dal drg, e infine sulla preparazione a fare fronte ad eventi come Covid 19 che potrebbero ripetersi.
 
Il mercato è una delle più grandi invenzioni dell’umanità ma, come abbiamo visto, non sempre da solo garantisce l’equilibrio corretto tra domanda e offerta.
 
Infatti, proprio nel settore dei vaccini, vediamo che la spinta a massimizzare i profitti impedisce o comunque ostacola che sia trovato il giusto equilibrio tra la scarsità di quanto viene prodotto e il bisogno di vaccinare miliardi di persone per raggiungere quell’immunità di gregge che si riferisce non ad una popolazione circoscritta in un territorio ma all’intera umanità.
 
Per uscire da questa soffocante e distorcente supremazia assoluta degli aspetti finanziari e delle logiche del mercato in sanità, per non essere più tanto vulnerabili di fronte di fronte ad eventi non riconducibili ad una domanda che, sbagliando, abbiamo supposto in costante crescita lineare e durevole nel tempo, é necessario che accanto al concetto di efficienza si ridia più forza a quello di efficacia e in modo razionale si introduca quello che fino a ieri abbiamo combattuto: la ridondanza.
 
Per essere veramente resilienti rispetto ad un evento pandemico dovremmo provare a ragionare su un’idea di ridondanza appropriata per i sistemi sanitari. Ci costerà sempre meno di in lockdown generalizzato.
 
Sempre Vittorio Emanuele Parsi, in un recente dibattito che si è svolto preso il laboratorio sanità dell’Università Sant’Anna di Pisa, ha richiamato il concetto di riserva strategica, introdotto nell’esercito romano da Silla (88-85 a.C): un contingente di forze che, rispetto all’esercito già allocato, non si sa quando e come interverrà ma che è pronto a farlo a fronte di un imprevisto.
 
Se avessimo ragionato in questo modo anche per la sanità non sarebbe stato necessario fermare gran parte dell’attività di cura e lasciare le sole emergenze, per fare posto ai malati di Covid 19; così negando e ritardando assistenza e provocando sofferenze e morti aggiuntive di cui non non ci libereremo tanto presto nel tempo.
 
E ancora Parsi, in ”Vulnerabili”, propone l’esempio delle navi militari che sono costruite con ridondanza per proteggere l’equipaggio e che sono dotate di doppie strutture, doppi comandi, doppie vie di fuga, doppie protezioni che servono in caso di necessità per tutelare quanto più possibile l’elemento più prezioso che é quello umano, in caso di attacco.
 
Continuando la metafora, nella lotta contro la malattia non si dovrebbe negare alla sanità ciò che viene concesso in campo militare per proteggere meglio i soldati e rendere gli eserciti più efficaci sul campo di battaglia.
 
Un altro punto su cui riflettere è la contrapposizione rigidità/flessibilità. Infatti, è stato grazie alla capacità del personale sanitario di lavorare in modo collegiale, oltre le divisioni tra le specialità e i reparti, se si è riusciti a fare fronte alla ondata pandemia.
 
Questa flessibilità, questa integrazione di saperi e competenze diverse è stata dettata dallo stato di necessità prima dentro gli ospedali e si estesa poi anche al territorio, dove in modo massiccio gli “ospedalieri” sono intervenuti nelle RSA insieme agli operatori della prevenzione, e si sono moltiplicati i contatti tra i diversi settori sanitari.
 
Il nodo più problematico rimane quello della medicina famiglia, su cui condivido le analisi fatte da Cavicchi circa la necessità di una riflessione profonda che non si limiti a favorire l’associazionismo e il lavoro in comune negli ambulatori. Il rapporto con queste figure essenziali della sanità pubblica deve essere riformato, senza ricorrere necessariamente alla forma della dipendenza diretta dal sistema, integrandole pienamente e facendole lavorare in sintonia con gli altri servizi sanitari.
 
Per i medici di medicina generale è centrale il tema delle malattie croniche che affliggono una parte importante della popolazione e la cui mancata corretta gestione provoca tante sofferenze e ingenti e assurdi sprechi.
 
La pandemia ci dovrebbe avere costretto anche ad impostare una corretta e adeguata programmazione delle figure specialistiche, dopo anni tagli e di improvvidi risparmi.
 
Insieme alla rivalutazione delle figure specialistiche, che sono state trascurate, e alla necessità di un maggiore integrazione tra le aziende ospedaliere universitarie e quelle sanitarie, per soddisfare bene e correttamente i bisogni formativi, emerge anche il bisogno di una formazione più flessibile in grado di relazionarsi e fare da base ai vari specialismi rafforzando l’interdipendenza.
 
Discutere di una formazione di questo tipo è una esigenza che sembra venire dagli stessi operatori dopo l’esperienza della pandemia che li ha visti lavorare di più insieme.
 
Alcuni di loro si spingono a chiedere una ridefinizione delle attuali strutture organizzative ospedaliere e territoriali in funzione dei processi di cura, oltre che dei profili specialistici, in modo da fare convivere un modello flessibile accanto ai reparti.
 
Lo stesso concetto di riserva strategica e flessibilità pongono il problema di una generale ridefinizione della formazione.
 
A partire dalle mie esperienze politiche in sanità, queste sono le mie riflessioni e gli interrogativi che sento di dover porre dopo questo anno di crisi pandemica che ha sconvolto ogni assetto della società e in particolare la sanità.
 
Nessuna pretesa esaustiva, ovviamente, ma solo la speranza di contribuire alla discussione per ridefinire la quarta riforma della sanità che Cavicchi chiede alla politica.
 
Infatti, la politica può fare molto male o molto bene alla sanità. Fa male quando la utilizza per il potere e per il consenso triviale, quando interferisce sugli incarichi del personale sanitario, ma può fare bene quando, ponendo le giuste domande agli operatori e agli esperti, ascolta, è capace di fare sintesi e si assume la responsabilità di un progetto per il quale si batte e convince.
 
In questo senso, mi sembra che rischieremmo di restare al di sotto dei bisogni di cambiamento se riducessimo tutto il dibattito a problemi, come azienda o consorzi, regioni o stato centrale, e altre cose simili che sono importanti e reali ma che alla fine riguardano più i rapporti di potere che i temi della salute dei cittadini.
 
Infatti, una volta che ci saremo chiariti sui contenuti profondi della riforma che riguardano il senso e il fine di un sistema sanitaria pubblico, sulla sua funzione di tutela e di eguaglianza, in quanto è gratuito e di qualità e capace di adattarsi agli eventi traumatici senza essere travolto, gli aspetti organizzativi, che pure sono determinanti per l’organizzazione e erogazione dei servizi, conseguiranno in grande parte dalla impostazione generale che ci siamo dati.
 
In generale, per la sanità - su questo punto il libro di Cavicchi è davvero pieno di spunti interessanti - dovrebbe valere la straordinaria idea della sinistra per cui il cambiamento nella società può essere prodotto essenzialmente da forme di autogoverno dei produttori alle quali anche il sistema sanitario potrebbe ispirarsi in modo che il personale dipendente di un’azienda sanitaria diventi protagonista del suo funzionamento, partecipando alle scelte con le sue conoscenze e, al contempo, realizzandosi come lavoratore il cui scopo ultimo è la salute dei cittadini.
 
In fondo, sempre per restare alle suggestioni marxiane di Cavicchi, dove, più che in sanità, lo sviluppo della conoscenza diventa “forza produttiva immediata” di salute e la tecnologia, le macchine diventano “organi della stessa intelligenza umana”?
 
Pertanto, dove, se non in sanità, può cominciare a svilupparsi l’utopia concreta dell’autogoverno dei produttori?
 
D’altra parte, sul lato della cittadinanza, proprio la pandemia ci ha fatto rendere conto della forza della mobilitazione sociale degli individui.
 
Gli italiani sono stati capaci di imporsi comportamenti rigorosi per combattere il contagio, accettando le restrizioni, portando la mascherina per proteggere soprattutto gli altri e sacrificandosi anche sul piano economico.
Produttore primario di salute è diventato innanzitutto il cittadino consapevole e rispettoso di sé stesso e degli altri.
La riforma dovrebbe riflettere sulle opportunità che gli strumenti digitali possono offrire per aiutare le persone ad essere veramente educate e protagoniste della tutela della propria salute e di quella degli altri.
 
Giustamente Cavicchi richiama l’attenzione su questi temi che sono trattati troppo distrattamente e che avrebbero bisogno invece di strategie precise e di forti investimenti.
 
Infatti, seguendo questo ragionamento, viene spontaneo domandarsi, se è vero che il Coronavirus colpisce di più nelle aree dove la qualità dell’aria è meno buona perché non provare ad attuare una strategia di controlli più rigida e di riduzione delle emissioni che potrebbero contribuire a diminuire la diffusione del contagio e, almeno in parte, mitigare le restrizioni e quindi anche i limiti imposti alle attività economiche?
 
Queste idee e tante altre, che il libro susciterà, rischiano di restare, per usare una espressione che piace all’autore, come “caciocavalli” appesi al soffitto, confermando uno scarto insostenibile tra pensieri e realtà. C’è bisogno che i concetti discussi e condivisi siano tradotti, sistemati e normati in una legge che dovrà essere appunto la quarta riforma della sanita pubblica in Italia.
 
Si presenta necessariamente il problema di quale soggetto politico possa e voglia impegnarsi in questo percorso di lavoro e assumere l’obbiettivo della riforma per rilanciare la sanità pubblica.
 
Molte responsabilità, è chiaro, stanno sul versante delle forze di sinistra che in questi anni sono state troppo subalterne alle politiche di austerità e alle logiche di mercato; ma è vero anche che senza una spinta sociale, senza idee nuove che provengano direttamente dai luoghi di lavoro, dal protagonismo degli operatori sanitari e dei cittadini, sarà difficile che la politica da sola possa riuscire nell’impresa di riformare nel profondo la sanità per riaffermare, nel secolo nuovo, i principi che quarant’anni fa furono stabiliti in una legge dello Stato e che poi via via sono stati, almeno in parte, disattesi.
 
Bisogna trovare sul tema della sanità canali nuovi di rapporto tra politica e società, ristabilire un flusso continuo di discussione, di informazione e anche di conflitto e di critica perché nasca un movimento da avere forza sufficiente per operare il cambiamento di cui discutiamo.
 
Molte cose sembrano andare in senso contrario a questo obiettivo.
Però, dalla nostra parte, in modo persino impetuoso, c’è la pressione della realtà che in questo anno, che ha scosso il mondo dalle radici, si è fatta sempre più forte e che esige risposte in un senso o in un altro.
 
Lo sbocco che avrà questa crisi, positivo o negativo per la sanità pubblica, dipenderà da molti fattori ma anche dall’impegno nostro e dalla nostra volontà. Le aperture verso un partito coerentemente progressista e riformista nel metodo, lasciano sperare che questo partito possa essere il Partito democratico.
 
Si offre alla sinistra, dopo gli anni della crisi e dei tagli in sanità, la possibilità di recuperare la frattura che si è aperta con tanti cittadini e operatori su un punto essenziale che riguarda la protezione delle persone e il sentimento di sicurezza che può derivare solo da una società solidale e inclusiva.
 
Enrico Rossi
Già presidente della Regione Toscana
 
Vedi gli altri interventi realtivi a questo Forum: Cavicchi, Bonaccini, Maffei.

18 marzo 2021
© Riproduzione riservata


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