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Piano Nazionale della Prevenzione: invito alla lettura e all’azione (meglio tardi che mai)

di Claudio Maria Maffei

Se il PNP continuasse la sua vita sotto traccia (che vuol dire col solo coinvolgimento degli addetti ai lavori che lo “debbono” scrivere per conto delle Regioni visto che il monitoraggio dei Piani Regionali è dentro il monitoraggio centrale dei LEA) sarebbe davvero una occasione persa per ridare centralità alle attività di prevenzione e per a dare a tali attività una impostazione in linea con una visione più “moderna” della prevenzione

08 NOV - Temo che il Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2020-2025 possa essere una occasione persa e sarebbe davvero un peccato, per il Servizio Sanitario Nazionale e per i cittadini. Questo Piano in larga misura completa in modo fortemente innovativo sul versante delle attività di prevenzione quello che si prevede con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)  sul versante delle attività territoriali. La domanda è: ma chi governa le sanità regionali ne è consapevole e sta agendo di conseguenza? La risposta mi pare che possa essere: almeno per ora no e certo non ovunque. Anche se si avvicinano (se non sono già state superate) alcune scadenze che il PNP prevedeva.
 
Che il dibattito sul PNP e quindi l’attenzione che lo circonda siano quantomeno sotto traccia, lo evidenzia lo scarso numero di interventi dal campo qui su QS (che lo aveva puntualmente presentato in occasione della sua approvazione), che è sicuramente una  delle sedi in cui è più vivace il confronto sui temi emergenti della nostra sanità. Unico segnale recente è stata la comunicazione dell’avvenuta approvazione del PNP da parte della Giunta della Regione Lombardia (la cui politica sanitaria potrà non piacere, ma sui cui tempi di programmazione non si fa certo parlare dietro).
 
Se il PNP continuasse la sua vita sotto traccia (che vuol dire col solo coinvolgimento degli addetti ai  lavori che lo “debbono” scrivere per conto delle Regioni visto che il monitoraggio dei Piani Regionali è dentro il monitoraggio centrale dei LEA) sarebbe davvero una occasione persa per ridare centralità alle attività di prevenzione e per a dare a tali attività una impostazione in linea con una visione più “moderna” della prevenzione. Per complessità e ricchezza il PNP ricorda molto il Piano Nazionale della Cronicità, che del resto rappresenta il primo processo con cui il PNP prevede di integrarsi. Ma la storia del Piano della Cronicità è nota: in molte Regioni a distanza di sei anni dalla sua approvazione ancora deve di fatto partire.
 
Nel caso del PNP il rischio di una sua inadeguata applicazione è più subdolo: i meccanismi di verifica sono molto più cogenti rispetto a quelli molto generici previsti nel Piano della Cronicità e quindi il rischio sta nella sua realizzazione formale (tipo compito a casa) senza una reale adozione dell’approccio alla prevenzione che esso prevede. Un approccio (quello One Health) che è senz’altro altrettanto innovativo di quello che (in teoria) prevedeva il cosiddetto Chronic Care Model nel caso del Piano della Cronicità.
 
L’approccio One Health, leggiamo nel PNP, considera la salute come risultato di uno sviluppo armonico e sostenibile dell’essere umano, della natura e dell’ambiente e, riconoscendo che la salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi sono interconnesse, promuove l'applicazione di un approccio multidisciplinare, intersettoriale e coordinato per affrontare i rischi potenziali o già esistenti che hanno origine dall’interfaccia tra ambiente-animali-ecosistemi.
 
Il PNP è inoltre caratterizzato (qui offro una sorta di menù degustazione dei suoi principi ispiratori più innovatori rispetto alla pratica corrente) dalla scelta di:
• sostenere il riorientamento di tutto il sistema della prevenzione verso un “approccio” di Promozione della Salute, rendendo quindi trasversale a tutti i Macro Obiettivi lo sviluppo di strategie di empowerment e capacity building (purtroppo il PNP un po’ esagera con questo glossario all’inglese, manco la sanità pubblica fosse il tennis) raccomandate dalla letteratura internazionale e dall’OMS;
 
• tenere conto che per agire efficacemente su tutti i determinanti di salute sono necessarie alleanze e sinergie intersettoriali tra forze diverse, secondo il principio della “Salute in tutte le Politiche” (Health in all Policies, ci risiamo);
 
• consolidare l’attenzione alla centralità della persona, tenendo conto che questa si esprime anche attraverso le azioni finalizzate a migliorare l’Health Literacy (alfabetizzazione sanitaria, non commenterò più questo glossario) e ad accrescere la capacità degli individui di agire per la propria salute e per quella della collettività (empowerment) e di interagire con il sistema sanitario (engagement) attraverso relazioni basate sulla fiducia;
 
• rafforzare l’approccio life course nella consapevolezza che gli interventi preventivi e protettivi realizzati con tempestività nella primissima fase della vita portano a risultati di salute positivi che dureranno tutta la vita e si rifletteranno anche sulle generazioni successive e sulla comunità intera;
 
• migliorare l’approccio per setting, favorendo una maggiore interazione tra tutti i setting (la scuola, l'ambiente di lavoro, la comunità e i servizi sanitari) e individuando l’Ente locale (Comune) quale “super-setting” in cui gli altri convergono;
 
• perseguire l’approccio di genere come un cambio di prospettiva e culturale affinché la valutazione delle variabili biologiche, ambientali e sociali, dalle quali possono dipendere le differenze dello stato di salute tra i sessi, diventi una pratica ordinaria al fine di migliorare l’appropriatezza degli interventi di prevenzione e contribuire a rafforzare la “centralità della persona”.
 
Ma dove il PNP fa (o meglio farebbe) fare un grande passo in avanti alle politiche di prevenzione delle Regioni è dove prevede che il profilo di salute ed equità della comunità rappresenti il punto di partenza per la condivisione con la comunità e l’identificazione di obiettivi, priorità e azioni sui quali attivare le risorse della prevenzione e al tempo stesso misurare i cambiamenti del contesto e dello stato di salute, confrontare l’offerta dei servizi con i bisogni della popolazione, monitorando e valutando lo stato di avanzamento nonché l’efficacia delle azioni messe in campo. Già solo questa previsione, quella del profilo di salute e di equità come precondizione per la valutazione dei Piani di Prevenzione Regionali, sarebbe di per sé un salto di qualità importante.
 
A fronte di tanta ricchezza potenziale di questi Piani qual è la concreta situazione delle Regioni, almeno nella maggioranza dei casi? Mi limito a elencare solo per titoli alcune delle criticità più importanti:
• gravissimo sottofinanziamento del macrolivello prevenzione (dentro il sottofinanziamento complessivo della sanità) e conseguente gravissima carenza di risorse umane dei Dipartimenti di Prevenzione;
 
• dissoluzione (dove c’era) della rete epidemiologica;
 
• scarsa integrazione tra Dipartimenti, Distretti, medici di medicina generale e pediatri di libera scelta;
 
• totale disattenzione della politica nei confronti della prevenzione (i Sindaci dovrebbero giocare un ruolo chiave, ma è difficile sentirli parlare di argomenti diversi dall’ospedale, il loro ovviamente);
 
• scarsa domanda di prevenzione da parte dei cittadini;
 
• la concentrazione di troppi processi contemporaneamente in Regioni non attrezzate per gestirli a partire dal riordino sia dei servizi territoriali in declinazione del PNRR (case della comunità, centrali operative, ospedali di comunità, telemedicina e domiciliarità/residenzialità) che di quelli ospedalieri in applicazione del DM 70 vecchio e nuovo.
 
In un contesto così il PNP rischia di non entrare davvero nella agenda delle politiche sanitarie regionali. Torno a ripetere quello che ho detto all’inizio: sarebbe davvero un grave peccato.
 
Claudio Maria Maffei

08 novembre 2021
© Riproduzione riservata


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