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Consenso informato e Dat: il ruolo e l’etica della comunicazione

17 DIC - Gentile Direttore,
l’approvazione della legge “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” è una conquista di civiltà che va letta all’interno di un quadro normativo e culturale più ampio. L’averla presentata con il termine giornalistico di “legge sul biotestamento” è infatti riduttivo rispetto ai potenziali cambiamenti che introduce per i diritti delle persone assistite, i doveri degli operatori e gli impegni delle aziende sanitarie.
 
I temi che vengono regolamentati riguardano infatti l’etica della comunicazione sanitaria in senso ampio, sia dal punto di vista dei valori e delle competenze degli operatori, chiamati a ridefinire le modalità con cui rappresentano le informazioni cliniche e si relazionano alle persone assistite, che dal punto di vista di ogni cittadino chiamato a partecipare alle decisioni per le proprie cure, con una particolare enfasi sul fine vita.

Sul piano normativo questa legge va letta congiuntamente alla legge 24 del 2017 sulla sicurezza delle cure e la responsabilità degli esercenti le professioni sanitaria, nonché alla legge 150 del 2000 "Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni". In questa duplice cornice il consenso informato e le DAT possono trovare coerenza e connessioni con gli impegni delle organizzazioni sanitarie e dei professionisti per la sicurezza delle cure, la trasparenza e più in generale la centralità della persona assistita nella trama dei servizi.
 
La relazione con la legge 24 è molto evidente, in quanto entrambe le norme intervengono sul rapporto tra operatori sanitari e persone assistite, nel tentativo di anticipare e risolvere in modo organizzato i possibili conflitti derivanti da attività o esiti di cura diversi dalle aspettative delle parti. Visto che la sicurezza delle cure è riconosciuta come parte integrante del diritto alla salute e che gli operatori e le aziende si impegnano a prevenire e controllare il rischio clinico, tale impegno dovrà essere rappresentato alle persone assistite nel momento in cui avranno bisogno di rivolgersi ad una struttura o ad uno specialista per un bisogno di cura. Pertanto, nei documenti informativi e nelle comunicazioni orali i medici dovrebbero rappresentare i rischi e la prognosi di un determinata procedura diagnostico-terapeutica all’interno di quella specifica struttura sanitaria, non i soli riferimenti alla casistica tratti dalla letteratura o da documenti di società scientifiche.
 
Purtroppo ancora oggi molte strutture di propri dati di outcome, in altri termini non misurano i loro risultati ma solo i volumi di attività. Allo stesso modo, le buone pratiche per la sicurezza dei pazienti potranno essere illustrate per condividere con il paziente l’impegno dei professionisti e delle aziende sanitarie nel controllo del rischio, superando la visione semplicistica della sicurezza per cui l’esito è determinato solo dalle condizioni del paziente e dalle competenze individuali dello specialista e non dal contesto in cui si opera. In questo senso la nuova legge completa la 24, recuperando spazio per una comunicazione preventiva dei rischi, in cui entrambe le parti hanno la responsabilità di scelte condivise.
 
In merito al fine vita, la nuova legge configura una situazione in cui la mancata raccolta o il mancato rispetto delle DAT divengono a pieno titolo un evento avverso, che può provocare danni dovuti all’accanimento terapeutico e più in generale all’inappropriatezza delle cure di fine di vita. E’ auspicabile che nel recepimento della legge, gli enti locali e le aziende sanitarie considerino nella comunicazione sulle DAT anche le scelte per la donazione di organi e tessuti, per dare piena attuazione al diritto a donare ed organizzare percorsi di fine vita sicuri ed appropriati, in cui si consideri sempre la donazione come possibile esito delle cure, per il bene della collettività e nel segno del principio solidaristico del SSN.

La connessione con la legge 150 è più sottile e richiede una lettura che vada oltre le apparenti differenze tra gli atti dei professionisti sanitari e della pubblica amministrazione. Fino ad oggi, tipicamente, le aziende sanitarie hanno lasciato il compito di organizzare la comunicazione con i pazienti ai direttori di dipartimento o di unità operativa, inclusa la definizione e distribuzione dei documenti informativi per il consenso. Di conseguenza, i medici hanno progressivamente prodotto una enorme quantità di documenti informativi, spesso tratti dalle società scientifiche, nei casi migliori con revisioni o adattamenti dei medici legali esperti di responsabilità professionale.
 
In uno studio che abbiamo condotto in Toscana alcuni anni fa, abbiamo raccolto oltre 500 informative di consenso impiegate in tutte le specialità: nessuna di queste ha superato il test di leggibilità basato sull’italiano standard, dell’Istituto di Linguistica computazionale del CNR di Pisa. Il motivo è abbastanza ovvio, quei documenti sono pensati più come un illusorio mezzo di prevenzione del contenzioso che come un supporto alla comunicazione. Peraltro, nell’ampia casistica di sinistri raccolti in Toscana dal 2003 ad oggi, meno dell’1% è attribuibile alla mancanza del consenso informato, mentre più recentemente abbiamo osservato che un 40% di pazienti dimessi da un ricovero per malattie cardiovascolari non segue le terapie indicate a 6 mesi dalla dimissione, dati coerenti con la letteratura internazionale.
 
Evidentemente il consenso informato va interpretato più come un impegno reciproco tra medico e paziente che come una liberatoria ai trattamenti. Ebbene, per costruire questo impegno reciproco è necessario il contributo dell’azienda, intesa come pubblica amministrazione che offre ai propri dipendenti ed utenti una rappresentazione trasparente delle attività che offre, come accedervi e come ottenere i risultati desiderati. Per fare questo, ogni azienda sanitaria, nella cornice unitaria dei servizi sanitari regionali e nazionale, dovrebbe descrivere i propri servizi con appositi strumenti informativi dinamici, in cui i percorsi e le prestazioni siano corroborati da indicatori di processo e di esito, che in questo modo diventerebbero davvero mezzi per aiutare le persone a scegliere i servizi ed a porre le domande giuste ai medici.
 
Un buon esempio di comunicazione istituzionale da considerare è il sito NHS choices, in cui le stesse informazioni cliniche sono presentate in diversi formati per gli specialisti, i medici di famiglia ed i pazienti, sulla base degli indirizzi prodotti dal NICE. NHS choices impiega strumenti quali le option grid e le infografiche con frequenze naturali, per facilitare la comprensione delle statistiche a medici e pazienti, mostrando sia gli esiti attesi che quelli osservati.
 
La sfida per il nostro Servizio Sanitario Nazionale è enorme, perché la buona comunicazione richiede tempo, formazione ed organizzazione. Il tempo della comunicazione interpersonale tra medico e paziente può variare molto a seconda del contesto clinico, della fase del percorso assistenziale e della qualità della comunicazione stessa; eppure, in ogni caso, è un tempo da codificare e pianificare come parte integrante delle attività cliniche dell’equipe sanitaria, visto che è attraverso la raccolta delle informazioni che il medico può comprendere le condizioni, i bisogni ed i valori dei pazienti, sulla cui base presentare le alternative terapeutiche e successivamente aggiornare ed eventualmente rivalutare le scelte fatte. Non ci sono evidenze definitive in merito ad uno standard di tempo per una buona comunicazione medico-paziente, anche se alcuni studi hanno mostrato che i pazienti vorrebbero più tempo per comunicare con i medici.

La formazione è il punto di partenza per mettere i medici e le equipe sanitarie nelle condizioni di gestire il consenso informato e le DAT in modo appropriato ed efficiente. Ad oggi nel nostro Paese la comunicazione clinica è pressoché assente nei corsi di laurea in medicina, al di là di qualche rara eccezione ricavata spesso negli insegnamenti di psicologia e nelle attività elettive. Il consenso informato viene certamente trattato sul piano giuridico nei corsi di medicina legale, ma le abilità per una buona comunicazione orale e scritta nei confronti delle persone assistite sono affidate per lo più alla formazione continua, con la conseguenza che per i medici le competenze comunicative non sono oggetto di valutazione e di selezione. In buona parte dei paesi europei la comunicazione clinica è invece insegnata fin dai primi anni dei corsi di laurea ed è addirittura oggetto di valutazione per l’abilitazione professionale e le successive certificazioni, come accade ad esempio in Olanda o in Irlanda.
 
Oggigiorno anche nel nostro Paese si sta affermando nella pratica il modello bio-psico-sociale della relazione medico-paziente, sotteso dalla nuova legge, in cui l’obiettivo è curare sia la malattia intesa come disease che come illness, densa del vissuto e delle aspettative della persona assistita, l’agenda del paziente. La programmazione accademica è pertanto chiamata ad aggiornarsi per rispondere ai precetti della legge, così come la formazione continua che non potrà più essere sporadica o improvvisata su un tema così delicato, per il quale esistono metodologie e strumenti evidence-based, come ad esempio l’impiego del paziente simulato (vedi lista metodi e strumenti sul sito della European Association for Communication in Healthcare).
 
L’organizzazione ha bisogno di struttura e competenze specialistiche in comunicazione per poter offrire ai dipendenti ed agli utenti strumenti di navigazione nel mondo dell’informazione sanitaria. Vanno valorizzate le risorse esistenti, sburocratizzando gli uffici comunicazione e relazioni con il pubblico, affinché divengano l’anello di collegamento tra la comunicazione interna ed esterna dell’azienda, riferimento auspicabilmente autorevole per i professionisti, il management ed i cittadini. Tutto questo richiede strategie manageriali che avvicinino sempre di più l’area amministrativa, non più da intendere nel senso gestione impiegatizia cavillosa, fiscale, macchinosa, all’area clinica. Le risorse amministrative possono essere il valore aggiunto per la gestione delle numerose pratiche comunicative e informative, piuttosto che essere confinate agli “atti amministrativi”. La letteratura scientifica afferma che la cultura burocratica ostacola la cultura della sicurezza in senso lato, incluso il rischio economico. Questa tendenza andrebbe invertita.
 
Da sviluppare la produzione di contenuti, sfruttando modalità e canali coerenti con l’evoluzione delle tecnologie e delle abitudini di fruizione delle conoscenze. Un piccolo esempio sono i cartoon per la sicurezza dei pazienti nel canale YouTube del Centro GRC, pensati per offrire una informazione di base ai pazienti ed alle famiglie sui rischi più frequenti, come le cadute, le infezioni e gli errori di terapia, e su come prevenirli. Questo tipo di informazione può essere impiegata per costruire un terreno comune solido tra operatori sanitari e pazienti prima del contatto interpersonale, in cui si possa dedicare il limitato tempo a disposizione per personalizzare la comunicazione e giungere ad un consenso informato che è il risultato di un processo di apprendimento reciproco tra gli attori in gioco, il medico con la sua equipe sanitaria, la persona assistita con la sua famiglia di ogni colore, classe sociale e composizione.
 
Anche le procedure diagnostico-terapeutiche più complesse possono essere descritte in anticipo con mezzi audiovisivi di facile comprensione, spazio quindi alla immaginazione ed alla creatività per sviluppare la comunicazione di qualità e facilitare le relazioni interpersonali quando la comunicazione ci mette di fronte alle decisioni più difficili.
 
Tommaso Bellandi
Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del pazienti della Toscana


17 dicembre 2017
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