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I medici e il dovere di toccare

di Enzo Bozza
11 NOV - Gentile Direttore,
bisogna toccare. La conoscenza parte proprio da questo. Non occorre essere sensisti o materialisti o empiristi e rimanere inerti nelle categorie filosofiche della conoscenza. Capire e fare qualcosa, dimostrando di aver capito, è molto più di un paradigma gnoseologico. E’ verità.

Papa Francesco ha usato la parola toccare per capire e aiutarsi, come testimonianza di solidarietà e fratellanza. Toccante, è l’aggettivo che descrive ciò che coinvolge, come spesso si usa la definizione “a pelle” per indicare una sensazione istintiva e primaria. Come la pelle di Curzio Malaparte è il romanzo della sofferenza vissuta come dolore sentito, profondo e storico. La pelle, è il confine tra noi e il mondo, toccare supera questo confine, gli altri sensi sono sublimazione e percezione indiretta. Toccare significa stabilire un contatto autentico e veramente conoscitivo con la realtà.

Il mio professore di Clinica Medica diceva spesso che bisogna toccare i pazienti, stabilire un rapporto autentico con le persone, fatto di gesti che non sono solo conoscitivi ma concretamente empatici perché il contatto fisico stabilisce un rapporto più profondo con la persona. Un coinvolgimento che supera i confini di identità e solitudine nel proprio corpo. Si acquisisce conoscenza e intimità e si consegna fiducia, accudimento: i paradigmi più importanti del lavoro del medico. Rimanere confinati nel proprio orticello senza mai alzarsi dalla poltrona e stabilire un contatto fisico con il paziente, produce distanza, diffidenza isolamento e inespressività comunicativa. Tante volte, appoggiare la propria mano sul braccio o sulla spalla del paziente, scongela la relazione, rende più autentico e aperto il dialogo. Il linguaggio non verbale, la prossiemica, il contatto fisico esprimono quello che a parole è difficile, se non impossibile, dire.

Toccare con mano la sofferenza è molto più che ascoltarla, leggerla o teorizzarla, maneggiare il dolore significa percepire non soltanto l’entità e l’aspetto di una ferita, ma sentire la fatica di vivere, la delusione, l’amarezza, i sogni svaniti, la paura, tutti aspetti che sanguinano molto più di una ferita e fanno molto più male di una colica renale. Siamo abituati a trattare il dolore con farmaci sintomatici perché vogliamo curare solo l’aspetto materiale della sofferenza e rimaniamo seduti sulla nostra poltrona, non toccando per non farci contagiare dal dolore, perché il dolore è contagioso, è pesante, impegnativo ed è pericoloso aggirarsi dalle sue parti. Si corre il rischio di trovarlo anche dentro di noi. Potremmo scoprire che è il tessuto più autentico e presente della nostra anima, quello su cui abbiamo costruito tutto, senza saperlo.

Per questo ci sono due modi di essere medici: quello tecnico e di superficie, a responsabilità limitata, e quello difficile, molesto, impegnativo, faticoso di chi tocca il dolore e l’anima, che stabilisce una conoscenza profonda e diretta con la sofferenza, cercando di capirla e spiegarla, superando l’efficacia di qualsiasi farmaco. Il primo medico imbroglia se stesso e il paziente. Il secondo riscatta se stesso e la Medicina dalla fama di cortigiana del dolore, stabilendo un patto di alleanza con la vita riconoscendo e svelando ogni maschera della nostra fatica di vivere. La Medicina è sempre stato questo. Dovrebbe essere questo. Nessuna riforma o politica o decreto potrà mai stravolgere l’unico modo per curare: toccare.

Enzo Bozza
Medico di base a Vodo e Borca di Cadore

11 novembre 2022
© Riproduzione riservata

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