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Medico, arte e cinema

di B. Marchetti, T. Mattiazzi
21 GIU - Gentile Direttore,
nella magnifica cornice veneziana, durante il fine settimana scorso, si è realizzato il convegno “Medicina tra umanesimo e tecnologia” organizzato dall’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Venezia con Fondazione Ars Medica in collaborazione con Università Ca’ Foscari e Libera Associazione d’Idee presso l’Ospedale SS. Giovanni e Paolo in Venezia, nella incantevole sala San Domenico.

Ultimo di una serie inaugurata cinque anni fa, anche quest’anno l’originale consesso, non ha tradito le attese per modalità e contenuti. Nonostante i propositi di indagine critica intorno alla tecnica in relazione alle sue implicazioni con l’umano, fossero tutt’altro che semplici: “Medicina tra umanesimo e tecnologia” ha saputo ossigenare qualche pensiero stantio e ha nella sua sintesi messo al mondo un metodo che potrà ingenerare una conversione nell’approccio alla tecnologia in campo medico (ma non solo).

Il primo approccio avviato è stato quello con il linguaggio cinematografico: nel pomeriggio di venerdì la prima sessione è stata dedicata alla visione di spezzoni di film che nel tempo hanno saputo ispirare e successivamente tornare ad ispirarsi alle scoperte e alle pratiche della medicina. Sono andati in scena films come “Metropolis”, “2001 Odissea nello spazio”, “Frankestein di Mary Shelley”, e altri non meno suggestivi e decisivi.

Perché aprire un convegno con il cinema? Cosa possono ancora rivelarci film come “Matrix” o “Elysium”? Innanzitutto siamo convinte che alzare lo sguardo dal quotidiano per allargare la comprensione dei linguaggi artistici, possa nutrire le idee e portare alla formulazione di nuove domande; poi ci premeva utilizzare canali comunicativi non convenzionali in medicina (anche se di immagini si nutre e si struttura l’intera diagnostica moderna – oppure, per contro, proprio per questo) per offrire qualche chiave interpretativa in più. Perché crediamo nella valenza gnoseologica della metafora, sia essa cinematografica, letteraria, o mitica, e nel suo potenziale evocativo e rivelativo.

La collaborazione tra Medicina e Filosofia, avviata per realizzare reciproca cura, apre scenari che mostrano nuove contaminazioni tali da  incontrare la complessità dell’umano sia esso medico o paziente.

“Ci si può affidare a un medico senz’anima?”. La domanda con cui la Dott.ssa Ornella Mancin ha aperto i lavori del sabato, ci colloca immediatamente nel cuore pulsante di uno dei temi caldi del convegno: è realmente possibile che a prendersi cura dell’essere umano sia un essere privo di anima?

La prima mossa che decidiamo di fare, raccogliendo la provocazione della presidente di Ars Medica, è di  portare la domanda sul nostro terreno e riformulandola: è davvero possibile che esista un “medico senz’anima”? E se sì, egli (esso!) potrebbe ancora a rigore, ovvero secondo i precetti e i valori di fondo della professione, essere definito medico?

Sono stati il Dottor Roberto Merenda, direttore del dipartimento chirurgico e UOC Chirurgia Generale Ospedale SS. Giovanni e Paolo di Venezia e la Dott.ssa Patrizia Marti responsabile del Fab Lab dell’Università di Siena a rispondere in modo chiaro ed evidente alla prima domanda di noi filosofe: la risposta è sì, nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale, nei luoghi di prima accoglienza, nelle sale operatorie e nelle case di riposo per anziani, in modi diversi – per il momento ancora sotto la guida o la supervisione degli umani - sono già operativi dei robot. Scopriamo con meraviglia, non scevra da una certa inquietudine, che la robotica ha fatto passi da gigante e che molte delle situazioni ipotizzate negli spezzoni di film proposti il giorno prima seppure in diverso modo, sono già in atto nella nostra epoca.

Viviamo un tempo che solo pochi anni fa pensavamo fantascientifico.
In alcune strutture sanitarie italiane vengono utilizzati dei robot nella facilitazione del rapporto medico-paziente, a Venezia-Mestre è a disposizione la punta di diamante della robotica applicata alla chirurgia, i robot  Da Vinci vengono utilizzati per effettuare interventi chirurgici in cui il medico opera a distanza. A Bologna il robot Marino, un umanoide con prestazioni altissime, avrà il compito di stimolare i bambini con patologie oncologiche e/o croniche gravi ad esprimere emozioni come rabbia, paura, tristezza; a Siena si sta lavorando con Paro, una piccola foca robot che avrà il compito di sostituire gli animali viventi nel trattamento di pet therapy con pazienti anziani affetti da demenza senile.

Questi gli scenari, per certi versi entusiasmanti della tecnologia applicata alla medicina ad oggi. Non possiamo esimerci, en passant, dal rilevare che pur svolgendo un ruolo anche positivo essi danno origine a nuove e ineludibili questioni bioetiche, di certo affrontate in fase di progettazione e sperimentazione, ma sicuramente non definitivamente risolte.

Ma ritorniamo a noi: alla seconda domanda, se il medico senz’anima – l’automata – possa a rigore definirsi medico tentano una prima risposta i medici  specialisti e i filosofi presenti al convegno veneziano: Il Dott. Merenda afferma che è l’umano (il medico) a governare la tecnica, guidare il robot e a gestirne le azioni in vista del percorso di cura da lui individuato.  

Ci chiediamo: stanno veramente così le cose? E’ veramente “umano” – munito di anima, se stiamo alla definizione iniziale – lo sguardo che costruisce il percorso che va dalla diagnosi alla prognosi nella cura del paziente? Oppure la logica scientista e organicista che ancora informa le basi epistemologiche, decidendo a monte le mosse del medico, risponde al principio cartesiano che separando il corpo del paziente (res extensa) dall’anima (res cogitans) rende “meccanico” lo sguardo del medico e trasforma il paziente in un oggetto? Il Professor Umberto Galimberti avverte che è questo rovesciamento, trasformando la soggettività in oggettività, a collocare lo sguardo del medico nella prospettiva meccanica, ad avezzarlo alla modalità operativa della tecnica, privando il medico dei talenti specificamente umani e la tecnica della sua reale efficacia di strumento originariamente destinato al ben-essere dell’umanità.

Il problema è dunque mal posto: non è in questione se il medico debba avere o non avere un’anima (un umano senz’anima di fatto non esiste, essendo corpo e anima realtà indivisibili dal punto di vista dell’esistenza) ma se egli sia in grado di divenire consapevole del fatto che sta praticando la propria arte a partire da premesse che inficiano a monte la sua chiarezza di giudizio con il rischio di trasformarlo in quello che il professor Ivan Cavicchi definisce “Trivial Machine”.

In definitiva, uno dei messaggi emersi con forza dagli interventi delle filosofe durante il seminario del venerdì, dalle riflessioni offerteci dai prof.ri Luigi Vero Tarca e Ivan Cavicchi emerge con limpidezza che il Nuovo Medico debba recuperare la sua arte, quella che ha deposto per occuparsi o pre-occuparsi della macchina, per utilizzarla con e per l’umano, attivando modalità positive, non-oppositive, a-duali, accoglienti, compassionevoli, culturalmente femminili, ma che possono essere adottate indifferentemente dal proprio genere.

Il Nuovo Medico arriverà ad avere in mano il proprio destino quando in piena scienza e coscienza disobbedirà all’apparato tecnico-tecnicistico che lo riduce a robot, quando, come suggeriva il giovanissimo medico Jacopo Favaro nel suo intervento del venerdì, utilizzerà il proprio libero arbitrio per dire no.

Chiudiamo ringraziando l’ineccepibile Presidente di OMCeO dott. Giovanni Leoni e con lui l’intero gruppo dirigente veneziano, sotto la cui guida si stanno realizzando eventi destinati a contribuire significativamente all’affermarsi del Nuovo Medico.

Bruna Marchetti
Tiziana Mattiazzi

Libera Associazione di Idee, Venezia


21 giugno 2017
© Riproduzione riservata

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