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Ecco perché le Regioni devono avere più autonomia sui farmaci

di Consiglio Direttivo Associazione Alessandro Liberati
04 OTT - Gentile Direttore,
vorremmo portare all’attenzione dei lettori due considerazioni sulle possibili implicazioni della sentenza 4546 del Consiglio di Stato, che ha accettato il ricorso di Roche s.p.a. nei confronti della Regione Veneto e stabilito che le Regioni non possono fare raccomandazioni sull’uso appropriato dei farmaci (perché condizionerebbero i clinici nel loro utilizzo) e non possono in questo modo stabilire implicitamente delle equivalenze terapeutiche.
 
Una prima considerazione riguarda il concetto di “raccomandazioni”. Esse hanno certamente l’obiettivo – come evidenziato nella sentenza – di condizionare la pratica clinica e nella fattispecie l’uso dei farmaci. Tuttavia, anche quando sono associate a indicatori di uso atteso, le raccomandazioni rappresentano indirizzi (nel caso specifico condivisi da gruppi multidisciplinari sulla base dell’analisi delle prove di efficacia disponibili) e non configurano l’obbligo di attenersi a determinate pratiche, a meno che non siano previsti dei provvedimenti contrari a chi ”trasgredisce”.
 
Una seconda considerazione riguarda il concetto di “equivalenza terapeutica”. Il fatto che ci siano diversi farmaci approvati a livello centrale e rimborsati dai Sistemi Sanitari non significa necessariamente che tutti abbiano prove di efficacia e sicurezza ugualmente solide e che siano da ritenersi equivalenti nei vari contesti di utilizzo, anche dal punto di vista del rapporto costo-efficacia.
 
La sentenza del Consiglio di Stato evidenzia che l’AIFA è l’ente preposto a stabilire tali equivalenze. Tuttavia l’AIFA, che è ente regolatore e definisce rimborsabilità e prezzo dei farmaci, non sembra avere al momento le risorse per fare valutazioni puntuali di equivalenza terapeutica su tutti i farmaci presenti nel Prontuario Terapeutico Nazionale. In assenza di un organismo nazionale “terzo” (come ad esempio nel Regno Unito, dove c’è il NICE), spesso tocca alle Regioni fare queste valutazioni, con l’obiettivo di gestire al meglio la loro quota del Fondo Sanitario Nazionale, non in un’ottica di “risparmio” ma di uso ottimale delle limitate risorse disponibili.
 
In base a queste considerazioni, pur concordando con l’auspicio di uniformità dell’assistenza sanitaria sul territorio nazionale, riteniamo difficile pretendere dalle Regioni di non “sforare” con la spesa sanitaria se si nega loro la possibilità di orientare la prescrizione dei farmaci attraverso raccomandazioni condivise con i clinici, senza peraltro obbligare i clinici stessi (cioè senza punirli in caso di comportamenti non conformi).
 
Le raccomandazioni non impediscono ai medici di prescrivere secondo scienza e coscienza, a meno di comportamenti palesemente contrari alle buone pratiche, come stabilito dalla legge Gelli.
 
Viceversa, la sentenza impedisce alle Regioni di fare raccomandazioni sull’uso appropriato dei farmaci, o quantomeno di monitorare l’impatto di tali raccomandazioni. Un ricorso analogo a quello della Roche è stato fatto anche dalla ditta AbbVie contro la Regione Lazio (in corso il primo grado di giudizio presso il TAR del Lazio).
 
Ci auguriamo un esito differente rispetto al contenzioso Roche-Veneto, che cioè venga riconosciuta alle Regioni la possibilità di utilizzare le raccomandazioni come strumento di politica del farmaco.
 
E ci auguriamo, al di là delle sentenze della giustizia amministrativa, che anche in Italia si decida di investire nella creazione di un organismo nazionale forte e indipendente che possa supportare le Regioni nel fare valutazioni sull’uso appropriato dei farmaci, dal punto di vista clinico (in primis) e dell’uso ottimale delle risorse disponibili.
 
Il Consiglio Direttivo dell’Associazione Alessandro Liberati

04 ottobre 2017
© Riproduzione riservata

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