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Coronavirs. Intervista al Dg Scibetta (Ulss 6): “Determinante l’associazione tra scelte corrette e modello consolidato”

Domenico Scibetta ripercorre con noi i mesi dell’emergenza, che hanno richiesto un forte impegno non solo dal punto di vista professionale ma anche emotivo: “Nelle fasi più dure e cruente dell’epidemia, negli ospedali si moriva senza una mano cara da stringere. E il silenzio delle strade mi faceva sentire ancor di più il peso della responsabilità”. Vincente, per contenere l’epidemia, è stato, secondo il Dg, il gioco di squadra, ma anche l’assunzioni di decisioni corrette innestate in un modello consolidato “che certo non si può creare in poche settimane o mesi”.

di Endrius Salvalaggio
06 LUG - Ad un mese dalla ripartenza di tutte le attività ospedaliere, la Ulss 6 Euganea sta investendo in un modello organizzativo tale per cui metta a riparo gli ospedali dal rischio delle trasmissioni delle infezioni. “Ormai è chiaro che gli ospedali sono luoghi ad alto rischio biologico, cui recarsi solo in caso di necessità, mentre i servizi territoriali, che hanno avuto un ruolo fondamentale nelle strategie di contenimento della diffusione del contagio, ne sono usciti ulteriormente valorizzati e saranno sempre più importanti in futuro”, spiega Domenico Scibetta, Direttore generale dell’Ulss 6 Euganea, che ha amministrato in questi mesi la Ulss più grande del Veneto e che in questa intervista spiega come, Covid o non Covid, questa sarà l’unica strada ripercorribile se ci sarà oltre a questo, anche un investimento sul altro personale sanitario ed una continua valorizzazione sui distretti che avranno in caso di nuovi focolai o di un ritorno della pandemia un ruolo fondamentale di air – bag per gli ospedali.

Direttore Scibetta, cosa l’ha toccata di più nella fase uno?
Dal punto di vista professionale dover intraprendere una lotta contro il tempo incrementando i posti letto in rianimazione e organizzando percorsi di cura dei pazienti Covid+ per livelli di intensità crescenti: dall'isolamento domiciliare degli asintomatici o con pochi sintomi, al potenziamento dei reparti di malattie infettive e delle Unità di terapia subintensiva. Lascio parlare i numeri: noi ci siamo occupati di mezzo migliaio di pazienti Covid nei nostri ospedali e di oltre quattromila persone in isolamento domiciliare, intercettate per tempo, prima che il virus facesse danni.

Dal punto di vista personale mi ha colpito molto il rendermi conto che, nelle fasi più dure e cruente dell’epidemia, negli ospedali si moriva senza la vicinanza dei propri familiari, senza una mano cara da stringere, senza il conforto dei propri affetti. Per mantenere vivo il collegamento con i parenti avevamo procurato decine e decine di tablet ma lo stare accanto, me ne rendo conto, è un’altra cosa.

Un’altra emozione indelebile è stata attraversare la città, durante il giorno o  a tarda sera, dopo aver chiuso l’ufficio, per rientrare a casa. Nessun movimento di vita, clima lunare da day after, una assenza di persone e un silenzio totalizzante che mi facevano sentire ancor di più il peso della responsabilità.

Che idea si è fatto di medici ed infermieri che hanno, più di ogni altro, lavorato in questi mesi nelle condizioni ormai note a tutti?
Non voglio contribuire ad alimentare la retorica degli “eroi”, sottolineo soltanto che, per fare un esempio, quando abbiamo dovuto concentrare le forze sul Covid Hospital di Schiavonia, convogliando personale da altri ospedali, tutti hanno risposto "presente". Conoscevano la squadra, erano già parte della "famiglia".

Lo stesso atteggiamento lo abbiamo riscontrato in tutti i nostri collaboratori, in qualunque area si trovassero ad operare, vuoi ospedaliera che territoriale. Ognuno ha dimostrato di essere se stesso, ciò che era anche prima del Coronavirus. Il risultato è stato quello sotto gli occhi di tutti, straordinario, frutto del palesarsi di quello che ciascuno è sempre stato. Non è facile approntare una "sanità da guerra": sono stati molteplici i momenti difficili, ma tutti superati grazie ad un fortissimo gioco di squadra che parte dalla regìa del presidente Zaia per arrivare a tutte le diramazioni territoriali. Gioco di squadra e senso di appartenenza dove nessuno si è risparmiato.

Stiamo entrando nel pieno della fase due. Per evitare il più possibile assembramenti, sono stati rafforzati i sistemi di prenotazione on line, di telemedicina come la televisita, il  teleconsulto, il telemonitoraggio?
Questa pandemia ha accelerato un percorso di profonda revisione del modello organizzativo che dovrà fondarsi sulla “connected care”, le cure connesse. Ora i servizi sanitari e socio-sanitari stanno gradualmente tornando alla normalità, ma sarà una normalità diversa da quella pre-Covid: ormai è chiaro che gli ospedali sono luoghi ad alto rischio biologico, cui recarsi solo in caso di necessità, mentre i servizi territoriali, che hanno avuto un ruolo fondamentale nelle strategie di contenimento della diffusione del contagio, ne sono usciti ulteriormente valorizzati e saranno sempre più importanti in futuro.

Giocoforza le alternative date dalla “medicina da remoto” ne sono uscite potenziate, e certamente si insisterà su questa strada, Covid o non Covid. Bisogna però che avvenga un cambiamento del un modello culturale di erogazione dell’assistenza che punti sul “mobile” e recepisca rapidamente modalità smart da tempo già in uso in molti settori della nostra vita ordinaria le cui abitudini vengono “monitorate” costantemente, compresi anche alcuni parametri vitali e stili di vita. Vuole che non si riesca a farlo in Sanità? Si perderebbe un appuntamento con la storia! Certo che occorrono notevoli investimenti e formazione, sia degli operatori che dei cittadini.

Per dare la possibilità a tutti di accedere alle prestazioni e cure ambulatoriali, la Regione Veneto ha stabilito che gli ospedali siano aperti fino alle 22, 7 giorni su 7. Con il personale che è appena uscito dalla fase uno, come pensa di garantire questi orari? 
Le aperture serali, prefestive e festive non le ha scoperte il Coronavirus. La Regione Veneto le ha stabilite e realizzate già nel 2013. E’ chiaro che nel post-Covid le nuove modalità di erogazione dei servizi richiedono un incremento della dotazione organica, di cui peraltro Azienda Zero si sta già occupando. Le faccio solo un esempio: per fronteggiare al meglio il Covid 19 abbiamo proceduto ad assumere, sempre tramite Azienda Zero, 96 operatori tra medici, infermieri, farmacisti, tecnici di laboratorio, assistenti sanitari, oss.  Per dire che non stiamo certo con le mani in mano.

Dopo la fase acuta, sarà importante un'organizzazione territoriale capace di contenere possibili focolai. Quindi rilevazione - isolamento e contenimento - cura. Su questo ambito come vi siete organizzati?
Si immagini una Sanità fatta solo di ospedali, con tutti accalcati dentro. Dall’acufene all’insufficienza renale, dall’influenza stagionale ai politraumi, dall’incontinenza urinaria alla miocardite, dalla rinite allergica al melanoma: un coacervo di mali concentrati in un unico luogo di cura. Fantascienza, giustamente si dirà, per il nostro modo di concepire l’assistenza, modulata nella realtà di tutti i giorni per intensità di cura e diversificata in molteplici forme, in un’articolazione composita tra ospedale e territorio. Perché se è vero che i casi gravi di Covid-19, come di qualunque altra patologia, vengono affidati alle cure ospedaliere, è altrettanto vero che la moderna Medicina è costituita in larga parte dall’assistenza territoriale. Se l’ospedale resiste e non viene travolto dallo tsunami di richieste di salute è perché c’è un grande territorio che funge da filtro. Cuscinetto. Air-bag. Diga.

Il Covid-19 non è stato sconfitto, c’è, è dietro l’angolo, a noi è stata concessa una rimodulazione delle libertà individuali che allenta le maglie delle restrizioni, e se abbiamo allargato il nostro orizzonte, lo dobbiamo ai tanti, tantissimi operatori del territorio che, con sollecitudine, hanno dimostrato di saper fare meravigliosamente il loro mestiere. Sono loro i soldati che hanno protetto gli ospedali, alzando gli scudi e facendo sistema.

Ricordo che nella fase più acuta del contagio abbiamo monitorato tutti i giorni più di 4.200 padovani posti in isolamento domiciliare per Covid, impiegando a tempo pieno 170 operatori del Dipartimento di Prevenzione. E nel contempo abbiamo continuato a seguire in Adi altre 3000 persone. E’ racchiusa in questi numeri la forza del nostro modello territoriale.
 
Parliamo di terapie intensive. I sindacati dicono che abbiamo sofferto anche la nostra Regione dei tagli dei posti letto per le terapie intensive. Nell'Ulss che Lei dirige quanti posti letto disponibili ci sono?
La dotazione dei posti letto nelle terapie intensive in condizioni di ordinaria attività è sempre stata adeguata ai bisogni come è dimostrato da un indice di occupazione pari al 78% nelle terapia intensive degli ospedali gestiti dalla ULSS Euganea. Diverso è invece il ragionamento in condizioni di grave emergenza quali quelle vissute durante la pandemia. In questi casi la differenza la fa la tempestività di adeguamento delle risposte: nella nostra ULSS, in pochissimo tempo abbiamo allestito più del doppio dei posti letto di rianimazione, senza mai raggiungerne la saturazione neanche nelle fasi più critiche. E questo è dovuto anche all’allestimento delle terapia sub-intensive che, in un percorso di progressiva gravità, hanno funzionato da cuscinetto tra le unità operative di malattie infettive le terapie intensive.

Come è andata la collaborazione con il profesor Crisanti?
Abbiamo lavorato sodo, dando il massimo per evitare scenari rivelatisi poi per fortuna errati come quello ipotizzato dall’epidemiologo Neil Ferguson dell’Imperial College che preconizzava 500 mila morti. Ed in questo lavoro tutti hanno svolto un ruolo importante sotto un grande direttore d’orchestra che è il governatore Luca Zaia. Il contributo di ciascuno è stato importante,  dai violini ai triangoli. E lo spartito è diventato musica. Non ci sono state né primedonne né ballerine di fila!

A volte, seguire l’intuito infrangendo le regole acquisite, può essere vincente?
Guardi, nel Veneto sono state prese decisioni strategiche che le evidenze hanno dimostrato essere vincenti: la chiusura dell’ospedale di Schiavonia e l’esecuzione dei tamponi a tutti gli abitanti del comune di Vò. La sera di quel 21 febbraio, il giorno della diagnosi Covid sul primo paziente, infatti l’Ospedale di Schiavonia è stato blindato, con gli accessi vietati in entrata e in uscita, per quindici giorni, il tempo di incubazione del virus.

E’ stato poi scelto quale Covid-Hospital, il maggiore del Veneto: tutti i suoi trecento posti letto sono stati dedicati a far fronte all’emergenza, con un impegno finanziario regionale aggiuntivo di 3 milioni di euro, solo per tecnologia, escludendo tutti gli altri investimenti.

Decisioni corrette innestate in un modello consolidato che certo non si può creare in poche settimane o mesi ma è il risultato di anni di sviluppo di un modello assistenziale fondato sulla gerarchia degli ospedali, sulle reti cliniche, sui percorsi assistenziali che operano integrazione orizzontale e verticale.

Endrius Salvalaggio

06 luglio 2020
© Riproduzione riservata

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