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 Intervista a Nerina Dirindin (Univ. Torino): “Serve un nuovo Dna per il nostro Welfare”

13 MAR - “Il problema non è la quantità di risorse ma il fatto che vengono spese male a causa della mancanza di un disegno politico nazionale sulla non autosufficienza”. Questa una delle principali criticità evidenziate in questa intervista dalla professoressaNerina Dirindin, docente di Economia Pubblica e di Scienza delle Finanze presso l’Università di Torino, già alla guida del Dipartimento della Programmazione del Ministero della Sanità e con al suo attivo anche un’esperienza di governo “tecnico”, quando fu scelta da Renato Soru quale Assessore alla Sanità della Sardegna, incarico ricoperto fino alle ultime elezioni regionali.
Con la professoressa Dirindin abbiamo commentato il nostro Dossier sulla non autosufficienza, cercando di individuare le criticità e le soluzioni per offrire una risposta innovativa. “Il vulnus della questione è di natura culturale: bisogna cambiare l’approccio sulla questione”.

Professoressa Dirindin, trenta miliardi sono le risorse destinate all’assistenza ai non autosufficienti. Non sembrano pochi ma i problemi ci sono lo stesso. Si può dire allora che si spende male?
Sì. La spesa non è poca e il problema sta proprio nel fatto che le risorse disponibili si spendono male o quantomeno senza coordinamento e programmazione. Ci sono troppe sovrapposizioni di interventi nazionali e locali che mancano di integrazione. Ci sono troppi soggetti scollegati tra loro e nel tempo ognuno ha pensato più a se stesso piuttosto che a lanciarsi in un nuovo disegno collettivo sul tema della non autosufficienza.
 
Esiste quindi un problema di coordinamento politico? 
Senza dubbio. Ma più di ogni altra cosa è necessario un nuovo disegno organico che cambi l’approccio culturale. Serve una vera rivoluzione di pensiero su questi temi a livello nazionale.
 
Come?
Innanzitutto deve cambiare il modo di considerare gli anziani. Non più come un peso ma come una risorsa. In seconda istanza occorre valorizzare il lavoro delle diverse figure che si dedicano alle cure e all’assistenza, troppo spesso sottopagate. Poi serve potenziare l’adozione dei Piani personalizzati in modo da integrare efficacemente tutte le risorse al fine di intercettare meglio i bisogni della singola persona. Altro aspetto è l’integrazione socio sanitaria che, nonostante alcune buone esperienze locali, fatica ancora a decollare in tutto il Paese. Ultimo nodo, ma non per importanza, è lo sviluppo della domiciliarità.
 
Dai  dati del nostro Dossier emerge una grossa discrepanza tra il Nord e il Sud. Al settentrione vi sono molte più strutture e si effettua molta più assistenza domiciliare, mentre nel Meridione vi è un numero maggiore di soggetti che beneficiano di indennità e pensioni d’invalidità. Come si spiega il fenomeno?
Nel nostro Paese, ripeto, bisogna cambiare la cultura che fa elogio del “dono”, mentre occorre ridisegnare il welfare in una logica dove la priorità sia sempre il servizio offerto dalla collettività ai suoi stessi membri. E questo si fa prima di tutto alleggerendo il peso sulle famiglie aiutandole prima di tutto nell’assistenza domiciliare. La ricetta non sta infatti nel potenziamento esponenziale delle sedi residenziali. Non faremmo altro che isolare i soggetti e aumentare i costi per le famiglie e per il sistema. Ma purtroppo nelle Regioni in difficoltà è passata l’idea (anche perché è più facile) che l’importante è che vengano dati i soldi, non che siano forniti servizi adeguati.
 
Per potenziare la dotazione finanziaria dell’assistenza in questi anni si sente sempre più parlare dello sviluppo di Fondi integrativi ad hoc. Può essere una strada percorribile?
Premetto che non ho nessun tabù sul tema, anche se la questione dirimente a mio avviso non è nella quantità di risorse disponibili ma risiede nella loro gestione: bisogna spendere meglio ciò che si ha. Il problema, ripeto, è che bisogna cambiare la cultura sulla non autosufficienza. Perché, se non cambia l’approccio, immettere più risorse rischia di non produrre miglioramenti. Detto questo, ritengo che l’eventuale sviluppo di forme integrative di assistenza debba avvenire attraverso Fondi territoriali finanziati con la fiscalità generale a garanzia di un accesso universale ed equo a queste prestazioni, per evitare che diventino d’elite o siano limitate a singole categorie.
 
In questo quadro a cosa dovrebbe servire il Fondo per la non autosufficienza fortissimamente voluto all’epoca del governo Prodi, ma poi, di fatto, lasciato al palo senza risorse? Può essere ancora uno strumento utile?
Mi auguro che il nuovo Governo possa affrontare organicamente il tema della non autosufficienza e quindi anche quello del Fondo, che non ha avuto buona sorte a causa della sovrapposizione dei soggetti teoricamente coinvolti ma nei fatti più impegnati a mantenere le proprie prerogative e competenze che a favorire sinergie organizzative e di intervento. Da qui un sistema ingessato, difficile da scardinare. Però, ripeto, non bisogna focalizzare tutta l’attenzione sulle risorse se prima non cambia il contesto culturale. Certo, questa riorganizzazione non sarà facile ma è l’unica strada per affrontare la questione.
 
Può essere la delega fiscale e assistenziale un’occasione?
Certamente, anche se del vecchio testo lascerei solo il titolo.
 
Cosa pensa invece delle nuove proposte di rimodulazione del ticket che tengono conto del reddito e del quoziente familiare. Come ad esempio quelle adottate sperimentalmente in Lombardia proprio per i servizi socio assistenziali?
La questione dei ticket è molto ampia anche se il rischio è che si voglia solo aumentare il gettito derivante dal ticket, come prevede la manovra di luglio per quelli sanitari. In ogni caso credo che si dovrebbe mettere mano al sistema delle esenzioni per reddito e credo che l’utilizzo dell’Isee possa essere una buona soluzione. Certo, in merito ai ticket in generale ho anche una preoccupazione.
 
Quale?
Non bisogna arrivare attraverso i ticket a richiedere ai cittadini dei ceti medi e medio alti una elevata quota di risorse. In questo modo il sistema universalistico rischia di saltare perché sempre più soggetti si rivolgeranno al privato.
 
In conclusione, quindi, si riuscirà ad intervenire efficacemente sulla materia della non autosufficienza?
Penso che ci sia la possibilità di dare una svolta. L’elogio del “dono” non mi è mai piaciuto perché il servizio pubblico deve garantire in primis i servizi. Questa inversione di tendenza c’è, anche se, come dicevo, il mutamento culturale è un percorso molto difficile da realizzare perché sulla non autosufficienza si continua a parlare sempre e solo di risorse. Ma il problema, lo ripeto ancora, sta essenzialmente nel porre le condizioni per essere in grado di rispondere in modo totalmente innovativo al nuovo quadro sociale ed epidemiologico del Paese. Dobbiamo finalmente imparare a convivere con una popolazione sempre più anziana, e bisognosa di servizi e prestazioni molto diversi da quelli che ancora oggi caratterizzano il Dna del nostro Welfare.
 
Luciano Fassari

13 marzo 2012
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