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Medicina interna. Simi: a rischio l’assistenza negli ospedali. Assegnato il 79% delle borse di specializzazione, allarme ‘desertificazione’ dei reparti


Quest’anno la medicina interna non ha fatto l’en plein nell’assegnazione delle borse di specializzazione e mentre il turn over dei medici diminuisce (quelli che vanno in pensione non sono rimpiazzati), aumenta di pari passo il loro burn out. Nel frattempo il pubblico manifesta un’ostilità crescente nei confronti dei camici bianchi e del personale sanitario, soprattutto al pronto soccorso e nei reparti

10 OTT -

Gli internisti lanciano l’allarme: se va avanti così non ci saranno più specialisti per coprire l’assistenza nei reparti di medicina interna e in pronto soccorso. E sarà una catastrofe perché i reparti di medicina interna e di chirurgia generale sono la colonna portante anche degli ospedali più piccoli. Quest’anno la medicina interna non ha fatto l’en plein nell’assegnazione delle borse di specializzazione (solo il 79% di quelle a disposizione sono state coperte) e mentre il turn over dei medici diminuisce (quelli che vanno in pensione non sono rimpiazzati), aumenta di pari passo il loro burn out. Nel frattempo il pubblico manifesta un’ostilità crescente nei confronti dei camici bianchi e del personale sanitario, soprattutto al pronto soccorso e nei reparti. Che certo non giova all’attrattività di questa specialità fondamentale negli ospedali. Come arginare la crisi della medicina interna e garantire un’assistenza internistica adeguata anche per il futuro?

Medici e infermieri sono sempre più i punchball della rabbia dei cittadini, la prima e più vulnerabile interfaccia di una sanità sempre più inadeguata a dare le risposte attese. Ma si tratta di un fenomeno non del tutto nuovo. “Nel 2022 il Ministero della Salute ha istituito un ‘Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti delle professioni sanitarie’ – ricorda il professor Gerardo Mancuso, vice-presidente della Società Italiana di Medicina Interna SIMI – con lo scopo di monitorare il fenomeno e promuovere delle garanzie. Sulla base di questa attività, nel 2023 sono stati registrati 16 mila casi di violenza (2/3 di tipo verbale, il 26% di tipo fisico) ai danni degli operatori sanitari. Quelli maggiormente interessati da episodi di violenza sono stati gli infermieri, seguiti dai medici e dagli operatori socio-sanitari e in due casi su tre la violenza è stata perpetrata ai danni di donne (ma al sud prevalgono i casi di violenza sui maschi).

L’età delle persone aggredite è sotto i 50 anni e gli ambienti più a rischio sono il pronto soccorso, i reparti e i servizi psichiatrici. Nel 70% dei casi ad aggredire è stato un paziente, nel 28% i parenti”. Contrariamente a quanto si possa pensare, le Regioni più interessate sono quelle del Nord (soprattutto la Lombardia). Le conseguenze di questi atti di violenza, oltre a quelle di ordine fisico, sono la comparsa di sintomi depressivi, di burn-out e la perdita di serenità sul lavoro, che può impattare sulle performance medico-infermieristiche. “I trigger più evidenti di questa ondata di violenza ai danni degli operatori sanitari – afferma il professor Mancuso – sono: il sovraffollamento del pronto soccorso, che vicaria sempre più spesso attività non pertinenti (manca un adeguato follow up delle malattie sul territorio, i pazienti non trovano punti di riferimento fuori dall’ospedale) e la riduzione del personale sanitario sanitari. Negli ultimi 8 anni c’è stata una contrazione di circa 15 mila medici e 20 mila infermieri. e questo contribuisce a determinare l’allungamento delle liste d’attesa e a scatenare l’impazienza di chi afferisce in PS, pretendendo una valutazione clinica immediata, a prescindere dal codice del triage”.

Una situazione ben evidente alla maggior parte dei dipendenti del Ssn che, interrogati in merito a quali potessero essere le principali cause del fenomeno-violenza, ha indicato il definanziamento del Ssn, seguito da carenze di ordine organizzativo. Cosa fare dunque? “Di recente il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legge n. 137 (settembre 2024) – ricorda il professor Mancuso – che agisce su due fronti. Il primo è la modifica dell’articolo 635 del Codice Penale che stabilisce che questi comportamenti siano puntiti con una reclusione fino a 5 anni e una multa fino a 10 mila euro (ma se il reato viene agito da diverse persone, la punizione si aggrava); l’altra modifica riguarda gli articoli 380 e 382 bis del Codice di Procedura Penale che prevedono l’arresto in flagranza o in differita di chi ha commesso il reato. Il terzo punto inserito nel DL è che, nella prossima finanziaria saranno destinate risorse economiche destinate alla videosorveglianza dei pronto soccorso e degli ambienti di lavoro”.

Ma può bastare l’effetto deterrente della legge ad arginare gli episodi di violenza contro il personale sanitario? “Si tratta di un fenomeno complesso – afferma il professor Mancuso – che non si può affrontare solo con una legge, per quanto corretta dal punto di vista tecnico. Questi episodi sono anche espressione delle difficoltà che sta attraversando il Ssn, difficoltà che riguardano i numeri, cioè la contrazione delle risorse umane, il definanziamento del Ssn, quindi l’impossibilità di accedere con facilità alle attività diagnostiche e terapeutiche che il paziente si aspetta di ricevere. Si tratta peraltro di criticità che non riguardano solo l’Italia, ma che sono più o meno diffuse in tutti i Paesi europei. A questo va aggiunto un diffuso atteggiamento di aggressività delle persone caratteristico dei nostri tempi, derivante anche da una crisi generale della salute mentale”.

Una sanità in burn out dunque, per quanto concerne chi è già dentro il sistema e sempre meno attrattiva per le nuove leve, come racconta la storia delle tante borse di specializzazione che non vengono assegnate in seguito al concorso annuale. “Le cause di questo fenomeno – sostiene il professor Mancuso – sono tante e vanno ricercate nei carichi di lavoro eccessivi, negli stipendi inadeguati al costo della vita ma soprattutto al tipo di responsabilità e di impegno che il lavoro di medico e di infermiere comportano, nelle difficoltà di carriera. Lavorare in ospedale in Italia oggi significa una vita di grandi sacrifici per uno stipendio che è inferiore fino al 40-50% rispetto ad altri Paesi europei, come la Francia. Ma differenze importanti si riscontrano anche tra il Nord e il Sud d’Italia; chi lavora in un ospedale del Nord-Est lavora molto di più che in quelli del Sud e questo genera una migrazione di personale medico e infermieristico che va ad impoverire sempre più il Sud”.

Una sanità insomma sempre più orientata al privato, come si intuisce anche dalle scelte dei neo-medici, che sembrano prediligere nettamente le specialità con maggior sbocco nel privato, mentre altre sembrano destinate all’estinzione (microbiologia, biochimica patologia clinica, radioterapia, medicina e cure palliative, medicina nucleare, medicina d’emergenza urgenza, ecc.). “I giovani medici – afferma il professor Mancuso – sono meno attratti dalla sanità pubblica e lo dimostrano due dati su tutti: la riduzione del numero di specializzandi in medicina interna (quest’anno è stato coperto solo il 79% dei posti di specializzazione) e in chirurgia generale (assegnato solo il 51% dei posti di specializzazione). Queste due specialità, molto ambite e ritenute prestigiose in passato, oggi risultano sempre meno attrattive per i giovani. Ma andando avanti così nel prossimo futuro non saremo più in grado di gestire gli ospedali dedicati a queste attività. I 1.050 reparti di medicina interna in Italia devono essere gestiti da specialisti internisti; ma se manca il turn over perché i giovani non vogliono più fare gli internisti, in futuro assisteremo ad un’ulteriore contrazione dell’offerta assistenziale. E forse non dovremo neppure aspettare i prossimi anni. Già un’analisi di qualche anno fa evidenziava una contrazione del 22-23% delle risorse umane all’interno delle medicine interne”.

Come fare per invertire questa tendenza? “È un argomento di ordine sindacale e non a caso la SIMI ha invitato al suo congresso annuale, per la prima volta, anche un rappresentante dei vertici sindacali (Ignazio Ganga, segretario confederale della CISL) – ricorda il professor Mancuso – Per una società scientifica come la SIMI, che si occupa di valorizzare le attività assistenziali e l’organizzazione del lavoro, queste tematiche hanno un peso importante.

E certo, la soluzione non è facile. La ricetta di aumentare gli stipendi sarebbe molto facile, ma non basta perché andrebbe affrontata anche l’evidente disorganizzazione del lavoro, dovuta anche al fatto che l’ospedale continua a farsi carico di attività che dovrebbero essere gestite dal territorio. Abbiamo deciso dunque di interrogare il sindacato su questo tema, che riguarda la salute dell’intera nazione. Se la SIMI prepara bene i propri giovani per affrontare in modo adeguato la professione, ma poi il lavoro non è ben organizzato, se mancano i presupposti per lavorare in serenità e applicare le conoscenze scientifiche, anche le risposte di salute in futuro saranno meno performanti”.

“Non c’è ospedale, anche il più piccolo – ricorda il professor Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna SIMI – che non abbia un reparto di medicina e uno di chirurgia; questo lo prevede la normativa attuale, ma anche la nuova riforma del Ssn disegnata dal Pnrr. L’internista insomma è uno specialista presente in ogni ospedale. Ma la medicina interna è in crisi, così come lo sono anche tutte le specialità che richiedono il lavoro di corsia, di reparto, per non parlare dell’emergenza urgenza. Non è più possibile non affrontare i problemi alla base di questa fuga: stipendi inadeguati, il burn out, le denunce crescenti per colpa o risarcimento danni, le aggressioni. E in questo la politica deve intervenire: servono maggiori investimenti sul personale, una legge ancora più adeguata rispetto alle richieste di risarcimento danni per le attività mediche, che comprenda la depenalizzazione completa (fatta eccezione per dolo e colpa grave); una maggiore sorveglianza, sicurezza e prevenzione delle aggressioni, mettendo personale delle forze dell’ordine in tutti i pronto soccorso. Occorre insomma ridare dignità e un riconoscimento economico adeguato a chi svolge un’attività così pesante e di responsabilità. È l’unica via per far tornare ad essere appealing la medicina interna e quella d’emergenza-urgenza. Quello che chiediamo è di essere messi in condizione di interpretare al meglio la vera missione del medico, che è quella di far trovare, a chi ne ha bisogno, risposte ai suoi problemi”.



10 ottobre 2024
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