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Stamina. Corte Costituzionale: “Stop a nuove autorizzazioni al trattamento. Non sono giustificate”


Per la Corte sono legittime le limitazioni imposte dal decreto “Balduzzi” del 2013. “Le circostanze peculiari ed eccezionali” del decreto “non ricorrono nei riguardi di altri pazienti" che chiedano succesivante di essere trattati. E questo perché non vi è “giustificazione” a “ una deroga al principio di doverosa cautela nella validazione e somministrazione di nuovi farmaci”. LA SENTENZA.

07 DIC - A fari ormai pressoché spenti sulla vicenda giunge una sentenza della Corte Costituzionale che riapre il caso Stamina. Lo spunto è venuto da un ricorso del Tribunale di Taranto che aveva posto lo questione di legittimità delle norme previste dal decreto Balduzzi laddove la somministrazione del trattamento Stamina veniva limitata solo a quei pazienti già in cura o ai quali il trattamento era già stato consentito da un giudice. Per il giudici napoletani ciò provocava un doppio binario discriminatorio nel diritto alle cure e così, nell’autorizzare un trattamento ex novo presso gli Spedali di Brescia, rimandavano comunque la questione alla Corte per verificare la legittimità della disciplina introdotta dal decreto Balduzzi.
 
La Corte ha depositato la propria decisione il 5 dicembre scorso decretando la legittimità del decreto ma soprattutto ribadendo alcuni concetti sui criteri che dovrebbero ispirare sempre le scelte e le decisioni terapeutiche. Scrive infatti la Corte che “decisioni sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non potrebbero nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore, bensì dovrebbero prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali e sovra-nazionali – a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che a questi fini rivestono gli organi tecnico-scientifici”.
 
“Inoltre – prosegue la Corte - la promozione di una sperimentazione clinica per testare l’efficacia, ed escludere collaterali effetti nocivi, di un nuovo farmaco non consente, di regola, di porre anticipatamente a carico di strutture pubbliche la somministrazione del farmaco medesimo: e ciò per evidenti motivi di tutela della salute, oltre che per esigenze di corretta utilizzazione e destinazione dei fondi e delle risorse a disposizione del Servizio sanitario nazionale”.
 
“Nel caso in esame – sottolinea poi la Corte tornando al merito della sua decisione - il legislatore del 2013, nel dare corso ad una «sperimentazione […] concernente l’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali», ha parzialmente derogato ai principi di cui sopra. Ma lo ha fatto intervenendo nella particolare situazione fattuale, innanzi ricordata, che vedeva, in concreto, già avviati trattamenti con cellule staminali per iniziativa di vari giudici che, in via cautelare, avevano ordinato a strutture pubbliche di effettuarli”.
 
“In tale anomalo contesto – prosegue la Corte - il d.l. n. 24 del 2013, come convertito dalla legge n. 57 del 2013, privilegiando principi di continuità terapeutica ed esigenze di non interferenza con provvedimenti dell’autorità giudiziaria, ha quindi consentito la prosecuzione dei trattamenti con cellule staminali già “avviati” o già ordinati da singoli giudici”.
 
Ma per i giudici sarebbe “Irragionevole l’estensione indiscriminata di siffatta, temporalmente circoscritta, deroga, che l’ordinanza di rimessione mira ad ottenere, facendo leva sugli evocati parametri costituzionali che, a torto, prospetta violati. Ciò senza considerare che, allo stato, la sussistenza delle condizioni per la prosecuzione della sperimentazione prevista dalla legge censurata risulta esclusa dal decreto del Ministero della salute adottato, sulla base della relazione dell’apposito comitato scientifico, il 4 novembre 2014, nelle more del presente giudizio”.
 
“Le circostanze peculiari ed eccezionali – aggiunge la Corte - che hanno indotto il legislatore a non interrompere il trattamento con cellule staminali nei confronti dei pazienti che di fatto l’avevano già avviato, o per i quali un giudice aveva, comunque, già ordinato alla struttura pubblica di avviarlo, non ricorrono, dunque, nei riguardi di altri pazienti che quel trattamento successivamente chiedano che sia loro somministrato. In relazione a detti soggetti non trova, infatti, giustificazione una deroga al principio di doverosa cautela nella validazione e somministrazione di nuovi farmaci”.
 
Per questi motivi sentenzia la Corte, si “esclude, sia che tra le due categorie di pazienti poste in comparazione sussista la violazione del precetto dell’eguaglianza ipotizzata dal rimettente, sia che possa prospettarsi leso il diritto alla salute o violato il dovere di solidarietà nei confronti dei pazienti per i quali non può darsi avvio presso strutture pubbliche al trattamento in questione dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 24 del 2013”.
 
Ricorda infine la Corte, che “anche la Corte di Strasburgo ha, del resto, ritenuto che il diniego di accesso alla terapia secondo il metodo “Stamina” – deciso, nel caso al suo esame, da un giudice italiano in applicazione, appunto, del d.l. n. 24 del 2013, come convertito – persegue lo scopo legittimo di tutela della salute ed è proporzionato a tale obiettivo, né ha effetti discriminatori (sentenza 6 maggio 2014, su ricorso Durisotto contro l’Italia)”.

07 dicembre 2014
© Riproduzione riservata

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