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La legge sul testamento biologico. Cosa cambia con le Dat

di Luca Benci

Una legge nata – come la legge sull’aborto – con evidenti spinte dal “basso” che parte dai casi “eroici” di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, alle tante associazioni che hanno elaborato le varie modulistiche di direttive anticipate che oggi costituiscono l’ossatura preziosa da cui partire per determinare il contenuto delle Dat (seconda e ultima parte).

20 DIC - Nel contributo precedente avevamo affrontato le innovazioni della recente legge “Norme di materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” approvata in via definitiva dal Senato in data 14 dicembre u.s. relativamente alla pratica del consenso informato.
 
In questa seconda parte ci occuperemo delle disposizioni anticipate di trattamento o D.A.T. che costituiscono la terminologia italiana del testamento biologico o biotestamento.
Preliminarmente affronteremo la questione dell’idratazione e della nutrizione artificiale, dell’accanimento terapeutico e della sedazione palliativa profonda.
 
La natura della nutrizione e idratazione artificiale
La discussione sulla natura della nutrizione e dell’idratazione artificiale è stata posta in ordine alla sua rifiutabilità come trattamento sanitario. Le posizioni che si fronteggiavano erano e sono due: il fronte laico che la considera avente natura sanitaria in quanto “posta in seguito a una valutazione dello stato dello stato energetico del paziente e monitorata da medici e operatori sanitari professionali” (Commissione ministeriale c.d. Veronesi-Oleari) e il fronte cattolico che anche sulla base di un parere del Comitato nazionale di bioetica li considera “acqua e cibo” e quindi non rifiutabili in quanto da considerarsi “sostentamento ordinario di base” finalizzate a garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere” (CNB, parere del 30 settembre 2005).
 
E’ opportuno ricordare che sia il mondo scientifico – tra tutti il parere della Società italiana di nutrizione parenterale (SINPE, Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale, gennaio 2007) sia, soprattutto, la Corte di cassazione sul caso Englaro avevano già chiarito la natura terapeutica delle pratiche: “Non vi è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario.
 
Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche”. (Cassazione civile, I sezione, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748).
 
La posizione del mondo scientifico d’altra parte non poteva non partire dal presupposto che la miscela nutrizionale alla base della nutrizione artificiale sia a tutti gli effetti un composto farmaceutico e più esattamente una preparazione “galenica magistrale” soprattutto laddove venga infusa per via parenterale.
 
L’annosa discussione si chiude con l’approvazione della legge. Alimentazione e idratazione artificiale sono atti sanitari e quindi sottoposti alla volontà del paziente con la possibilità del suo rifiuto. Non possono, di conseguenza, essere imposti. Il tentativo di limitare il perimetro dell’autodeterminazione non è passato.
 
La questione dell’accanimento terapeutico
Non esiste una definizione condivisa di accanimento terapeutico – espressione contraddittoria nella parte in cui premette l’accanimento all’impossibile beneficialità terapeutica – e sui vari tentativi di delineare ambiti e limiti il mondo professionale, bioetico e giuridico si è diviso.
 
Il secondo comma dell’articolo 2 della legge approvata si limita a una minima definizione nel solo circoscritto ambito dei pazienti con “prognosi infausta a breve termine” o di “imminenza della morte” e lo individua nella “ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”. La definizione minimale riconosciuta dalla legge deve essere interpretata necessariamente con i principi fissati direttamente dall’articolo precedente sul consenso informato. Si allarga quindi il perimetro dell’accanimento a tutte le terapie non volute.
 
Difficile in questi casi non concordare con chi autorevolmente ha affermato che è “oggettivamente accanimento terapeutico tutto ciò che non è voluto dal paziente” (Mori  M., Il caso Eluana Englaro, Pendragon, 2008). In questa ottica è “terapia accanita”, senza consenso, a titolo esemplificativo, l’amputazione di un arto, un trattamento dialitico, il posizionamento di un sondino nasogastrico o di una peg attuate anche non nell’imminenza della morte.
 
La questione della sedazione palliativa profonda
L’articolo 2 della legge interviene anche istituzionalizzando la pratica della sedazione continua profonda già introdotta, nei fatti, da un parere del Comitato nazionale di bioetica del 29 gennaio 2016. Con tale pratica si intende la “somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, per ridurre il livello di coscienza fino a annullarla” al precipuo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile. Il Comitato nazionale di bioetica lo circoscriveva alle condizioni di malattia terminale inguaribile nell’imminenza della morte”.
 
Le tre situazioni contestuali devono essere tutte presenti: malattia inguaribile in uno stato avanzato, imminenza della morte e presenza di uno o più sintomi refrattari. La pratica, ovviamente, necessita del consenso del paziente.
 
Nella sostanza, questa volta, la legge recepisce quanto indicato dal Comitato nazionale di Bioetica.
 
Le disposizioni anticipate di trattamento
I modi di chiamare il testamento biologico – espressione più nota e utilizzata tanto che la si è sempre utilizzata durante l’approvazione della legge soprattutto sui mezzi di comunicazione – sono diversi e scontano logiche diverse in merito alla loro vincolatività.
 
Nella scorsa legislatura ci fu un tentativo di approvare un disegno di legge che le definiva “dichiarazioni” (ddl Calabrò) con il chiaro intento di negarne la vincolatività.  Le dichiarazioni dovevano semplicemente “essere tenute in considerazione”. Nel fine vita quindi si riespandeva il potere del medico e dell’equipe curante che avrebbe avuto l’ultima parola sulle cure da apprestare.
 
Le “disposizioni” hanno invece un deciso segno contrario e pongono l’accento sulla volontà del disponente e la loro vincolatività serve, oltre che per riaffermarne i principi costituzionali di autodeterminazione,  per evitare quella penosa “giurisdizionalizzazione” del fine vita di cui siamo stati, negli ultimi anni, tutti testimoni.
 
Ogni persona potrà dunque esprimere attraverso le disposizioni anticipate di trattamento in “previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”. Ecco allora che la legge mostra il lato migliore di se stessa. Da un lato stabilisce in modo incontrovertibile che l’autodeterminazione della persone è un principio che non si affievolisce nel fine vita, dall’altro specifica che permane il connubio del consenso informato (questa volta come previsione anticipata) che fa gravare sul medico l’onere informativo affinché la persona possa prendere le proprie decisioni in modo consapevole.
 
Il contenuto delle DAT è relativo alle volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”.
 
La legge prevede anche l’eventuale nomina di un “fiduciario” da farsi direttamente delle disposizioni o anche successivamente.
 
Le DAT sono un atto formale. Non solo richiedono la necessaria forma scritta – o misure come la videoregistrazione da considerarsi equivalenti – ma devono essere redatte per atto pubblico o  scrittura privata autenticata o anche la mera scrittura privata presso il Comune di residenza laddove questo abbia istituto l’apposito registro.
 
Un vero e proprio punctum dolens dell’impianto normativo è la specifica mancanza di previsione di un registro unico nazionale in quanto demanda alle regioni la “possibilità” di istituire registri regionali. Il registro nazionale però viene istituto dall’emendamento proposto nella legge di Bilamcio 2018 con relativo finanziamento di due milioni di euro che si presenta come una tempestiva integrazione di una legge ancora non promulgata. Un caso più unico che raro nella storia repubblicana.
 
Le DAT sono vincolanti ma possono essere non attuate solo qualora “appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Il testo della norma non lascia spazio a interpretazioni diverse da quella letterale.
 
Le Dat per essere disattese devono essere “palesemente incongrue” – rilevabili cioè ictu oculi senza bisogno di approfondite disamine cliniche – o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente” – in questo caso si ingenera un equivoco tra Dat e sua applicazione – e terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione – situazione che si può verificare quando intercorre un periodo temporale ampio tra la sottoscrizione delle Dat e la loro applicazione – con la avvertenza che non devono essere foriere di generici benefici ma di “concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.
 
La pianificazione condivisa delle cure
Le DAT possono essere redatte da chiunque in previsione di una futura incapacità che potrebbe non verificarsi mai.
 
Diversa, invece, è la pianificazione anticipata delle cure che prevede uno stato di malattia “cronica e invalidante “ già instaurato e “caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”. La pianificazione, viene specificato, una volta effettuata è vincolante. Si precisa infatti che “il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.
 
Anche in questo caso è prevista la nomina di un fiduciario e la forma scritta con qualche formalità in meno (non però l’annotazione in cartella clinica e sul fascicolo sanitario elettronico).
 
La pianificazione condivisa delle cure appare viziata da una contraddizione evidente: la condivisione richiama, nei fatti, l’ambigua formulazione della sempre invocata e auspicata “alleanza terapeutica” – situazione che mostra, da sempre, i suoi limiti visto che è stato necessario ricorrere a una legge per disciplinare i rapporti tra medico e paziente – dall’altro fa correre il rischio della riduzione del perimetro dell’autodeterminazione nei casi in cui il curante  non condivida le determinazioni del paziente.
 
L’istituto della pianificazione è solo eventuale – “può”- e sostituisce nei fatti, una volta redatta, una precedente DAT. In caso di non condivisione si applica la DAT laddove presente.
 
Una volta redatta la pianificazione condivisa diventa vincolante per il “medico e per l’equipe sanitaria”. La specificazione paventa il rischio di un mutamento di opinione del medico – attore con cui deve essere redatta la pianificazione – e di tutta l’equipe – comunque tenuta alle volontà del paziente anche se non ne è richiesta la partecipazione all’atto condiviso – che “ tradendo” le intenzioni iniziali con il progredire della malattia disattenderebbe le volontà del paziente (pur in una logica di condivisione).
 
Altra questione da porre è relativa al rapporto tra il medico che ha sottoscritto la pianificazione condivisa e gli altri membri dell’equipe mono e interprofessionale.  Si pone il problema quindi della vincolatività della pianificazione effettuata, a titolo esemplificativo, da un medico di una equipe ospedaliera nei confronti di tutti i medici della stessa equipe anche  con diverso e maggiore  incarico dirigenziale (struttura semplice, complessa e dipartimentale).
 
La risposta, in prima approssimazione, sembra comunque propendere per la vincolatività anche se dovrebbero essere approfonditi meglio, in altra sede ovviamente, gli aspetti specifici della normativa di settore.
 
Non vi sono dubbi invece sulla vincolatività della pianificazione condivisa nei confronti del personale infermieristico.
 
Diverso ancora è il caso di cambio di curante  – esempio cambio reparto – che non è tenuto al rispetto della pianificazione condivisa con altri professionisti se non era già parte dell’equipe. In questo caso vi è la reviviscenza della precedente Dat se esistente e comunque, nello spirito della legge, si apre alla ricostruzione della volontà precedentemente espressa secondo quanto indicato dalla Corte di cassazione sul caso Englaro.
 
Vincolatività delle disposizioni anticipate di trattamento e mancata previsione di esonero per le strutture e di obiezione di coscienza per i professionisti
Il legislatore ha chiarito bene il carattere vincolante delle disposizioni anticipate di trattamento sia nei confronti della struttura che del professionista.
 
Per quanto riguarda le organizzazioni sanitarie si precisa all’articolo 1 che “ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi” della legge. Vi è da domandarsi se il riferimento al privato debba essere solo a quello convenzionato o anche al privato che non ha alcun collegamento e finanziamento dal Servizio sanitario nazionale. Stante il carattere di principi costituzionali della norma si ritiene che qualunque struttura anche se svolge l’attività a livello di pagamento diretto da parte del paziente debba assoggettarsi al rispetto delle indicazioni legislative. Le norme non prevedono esclusioni di sorta, neanche per le strutture religiose, che sono comunque tenute tutte al rispetto dei principi costituzionali.
 
La persona non perde i suoi diritti solo perché ricoverata in un luogo di ricovero di impronta religiosa.
Stesso orientamento è previsto sui professionisti in cui, volutamente, non viene previsto lo scivoloso istituto dell’obiezione di coscienza che riporterebbe il rischio dell’autoreferenzialità paternalistica con il  depotenziamento dell’autodeterminazione.
 
A poco vale il richiamo all’ingannevole istituto della “clausola di coscienza” visto che la deontologia professionale non può in alcun modo contenere norme o essere interpretata contra legem.
 
Conclusioni
La legge “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” è una buona legge sul consenso informato e sul testamento biologico.
Vi sono anche lacune evidenti quali il regime sanzionatorio degli atti posti in essere senza consenso a cui non si può che rimandare alle elaborazione dottrinarie e giurisprudenziali degli ultimi decenni.
 
E’ la terza legge a impronta bioetica dopo la legge sull’interruzione della gravidanza e la legge sulla procreazione medicalmente assistita. Come impianto è senza dubbio più ispirata alla prima – dove l’autodeterminazione, pur nelle contraddizioni del testo, è presente – che non sulla seconda, caratterizzata da clamorosi e incostituzionali divieti sanzionati per ben quattro volte dalla Suprema Corte.
 
Questa legge attribuisce diritti di cittadinanza sul “governo della vita” e del morire che della vita ne è parte.
 
Una legge nata – come la legge sull’aborto – con evidenti spinte dal “basso” che parte dai casi “eroici” di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, alle tante associazioni che hanno elaborato le varie modulistiche di direttive anticipate che oggi costituiscono l’ossatura preziosa da cui partire per determinare il contenuto delle Dat.
 
Da un punto di vista istituzionale è impossibile non ricordare il contributo fondamentale della giurisprudenza e dei tanti Comuni che hanno istituito i registri di fine vita.
Una partecipazione corale, diffusa, sentita sulla materia della salute e del fine vita che ha evitato di confinare il dibattito tra gli addetti ai lavori e a un ceto politico ristretto.
 
Non è però una legge complessiva sul “fine vita” visto che non è intervenuta sulle azioni volontarie dirette a porre fine alla vita nel momento in cui rimangono materia da codice penale questioni come il suicidio assistito e l’eutanasia.
 
Il caso del Dj Fabo che ha emozionato la pubblica opinione non trova risposta in questa legge e le problematiche rimangono quindi totalmente aperte.  In questi casi i cittadini italiani non possono fare altro che rifugiarsi nella clandestinità professionale – la c.d. eutanasia clandestina – o a migrare – come “migranti di diritti” -  in Svizzera.
 
Luca Benci
Giurista

20 dicembre 2017
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