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Forum QS/3. La sanità e il Governo Draghi. Cosa aspettarsi? Intervista a Filippo Anelli (Fnomceo) e Dario Manfellotto (Fadoi)


Per Anelli “è il momento dell’azione e della ricostruzione: occorre riconoscere e valorizzare l’impegno di tutti i medici. Non solo adeguando finalmente le loro retribuzioni agli standard europei. Ma anche coinvolgendoli, come richiedono a gran voce, nei processi decisionali”. Per Manfellotto “occorre abbandonare il dogma economicistico che ha guidato negli ultimi 20 anni la gestione della sanità”.

12 FEB - Il Governo di Mario Draghi è pronto e domani alle 12 il neo presidente si recherà insieme ai suoi ministri al Quirinale per il giuramento nelle mani del Capo dello Stato.
 
Roberto Speranza è stato confermato alla guida della Salute ma per il resto tutto, al di là dei nomi, è cambiato, con un nuovo Governo e una maggioranza inedita che abbraccia quasi l'80% delle forze presenti in Parlamento.
 
Ma pensiamo si possa però dare per certo che la Sanità resterà uno dei temi forti anche del nuovo Esecutivo, a causa del perdurare dell’epidemia, della necessità di accelerare il piano vaccini e poi di attuare quelle riforme di sistema delle quali il nostro SSN  ha certamente bisogno come già rilevato in questi mesi da moltissimi osservatori. 
 
In attesa di conoscere il programma del nuovo governo, Quotidiano Sanità prosegue il suo Forum con alcuni stakeholder della sanità per definire quale dovrebbe essere l'agenda ideale nel campo della salute.
 
Dopo la prima puntata e la seconda puntata a intervenire sono il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli e il presidente della Fadoi, Dario Manfellotto.

Quali dovrebbero essere a suo avviso le priorità dell’agenda sanità del futuro Governo?
Anelli. Sicuramente la formazione dei medici specialisti e di medicina generale. È qui che maggiormente si è disinvestito, lesinando sulle borse di formazione. Ora la situazione è in via di miglioramento: 14500 sono state le borse di specializzazione, quasi 2000 i posti al corso di Formazione Specifica in Medicina Generale. Non dobbiamo però abbassare la guardia: occorrono nuovi specialisti e medici di medicina generale, non solo per sostituire i colleghi che andranno in pensione, ma anche per far fronte alle nuove esigenze create dalla pandemia. Non basta, infatti, aumentare il numero di posti letto o nelle terapie intensive se non abbiamo la possibilità di incrementare, di conseguenza, il personale. Dobbiamo inoltre una risposta ai diecimila medici laureati tuttora nell’imbuto formativo. L’auspicio è quello di un provvedimento normativo che, per Legge, faccia corrispondere a ogni laurea in medicina un posto nelle Scuole o al Corso in Medicina Generale.

È necessario, in parallelo, modernizzare il sistema di assistenza. Si devono adottare iniziative per avviare un piano di assunzioni di medici, procedendo, tra l'altro, alla stabilizzazione a tempo indeterminato del gran numero di specialisti medici attualmente ancora precari. Vanno costruiti nuovi ospedali, che permettano il rispetto delle norme di sicurezza e che tengano separati i percorsi Covid da quelli per la cura delle altre patologie. In caso contrario, si privilegerà, come è già accaduto, la cura del Covid rispetto a quella di malattie non meno gravi e, alla fine della pandemia, saremo costretti a contare, oltre alle morti da Covid, anche quelle indirette da tumori, malattie cardiovascolari e altre patologie, dovute all’abbandono delle cure.

Patologie che, quando diventano croniche, possono e devono essere curate sul territorio. E, per far questo, dobbiamo sganciarci da modelli ormai obsoleti.
Appare necessario pensare ad una sanità territoriale “nuova”, ispirata ad una vision in grado di rispondere alla domanda di salute presente e futura del Paese, che possa essere realmente integrata da un punto di vista organizzativo sia al suo interno sia con le strutture ed equipe ospedaliere e che possa essere in grado di valorizzare le specificità di tutti i suoi attori, pur nelle diverse peculiarità, al fine di rispondere al crescente bisogno di salute della popolazione nel nostro Paese.

Dobbiamo abbandonare l’immagine, romantica ma non più aggiornata alle attuali esigenze, del medico condotto, solo nel suo studio, con la sua borsa, il fonendoscopio, lo sfigmomanometro. Dobbiamo sostituirla con quella di un medico di medicina generale che lavora in equipe con l’infermiere, l’assistente di studio, il fisioterapista, lo psicologo e l’assistente sanitario. Che dispone di una strumentazione adeguata, che lo mette in grado di fare diagnostica di prima istanza: un’ecografia, un elettrocardiogramma. Che può collegarsi, in teleconsulto, con gli specialisti ambulatoriali. È questo il medico del prossimo futuro, un futuro sul quale siamo già in ritardo.

Ora è il momento dell’azione e della ricostruzione: occorre riconoscere e valorizzare l’impegno di tutti i medici. Non solo adeguando finalmente le loro retribuzioni – e le loro condizioni di lavoro – agli standard europei. Ma anche coinvolgendoli, come richiedono a gran voce, nei processi decisionali: chi, meglio di un medico, sa cosa occorre, ai medici e ai pazienti, perché il sistema di cure funzioni con efficienza, efficacia e qualità?
Infine, non per importanza ma quale obiettivo ultimo degli interventi sin qui elencati, occorre  garantire il superamento delle differenze ingiustificate tra i diversi sistemi regionali, creando un sistema sanitario più equo, salvaguardando il servizio sanitario nazionale pubblico e universalistico.
 
Manfellotto. Una delle priorità è certamente quella di abbandonare il dogma economicistico che ha guidato negli ultimi 20 anni la gestione della sanità. L’aver legato il tutto al rispetto del budget economico guardando poco all’efficienza clinica, ha portato a tagli di personale e ridimensionamento degli ospedali penalizzando i risultati di salute. Non finirò mai di ripeterlo, immettere risorse in sanità è un investimento perché si produce lavoro qualificato, sviluppo tecnologico e si favorisce l’industria e l’indotto, producendo e tutelando allo stesso tempo la salute della popolazione. In questo modo il Ssn può essere economicamente sostenibile. 
 
Pensa che i progetti attualmente inseriti nella Mission 6 del Recovery Plan con un finanziamento complessivo di circa 20 miliardi siano quelli giusti o servirebbe altro? E pensa che le risorse siano sufficienti?
Anelli. Sono un buon punto di partenza, e dobbiamo cercare di utilizzarli al meglio, individuando gli obiettivi e fissando i tempi di realizzazione.
Constatiamo, più in generale, una maggiore attenzione che la nuova proposta del Recovery plan riserva alla Sanità e alla riduzione delle disuguaglianze che ancora persistono nel nostro Paese. Il nuovo piano raddoppia gli investimenti sulla Sanità, che passano da 9 a quasi 18 miliardi, 7,5 dei quali per la sanità territoriale e 1 per la digitalizzazione degli ospedali. Potenzia inoltre i progetti destinati alle donne, ai giovani e al Mezzogiorno.

Chiediamo però un ulteriore sforzo al Governo e al Parlamento affinché siano aumentate le risorse assegnate alla missione Salute del Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano: la sanità deve diventare una priorità dell’agenda politica, al fine di superare quelle difficoltà storiche e strutturali, amplificate e messe a nudo dalla pandemia, di un SSN che non riesce più a garantire accessibilità, equità e qualità delle prestazioni erogate. Occorre incrementare le risorse, senza le quali il futuro di un Servizio sanitario pubblico e nazionale, e con esso il destino del diritto alla salute di tutti i cittadini, rischierebbe di non essere garantito.
 
Manfellotto. Condividiamo gli obiettivi ma è del tutto evidente che essi vanno però declinati e precisati perché le parole scritte nel Piano possono voler dire tutto e niente. L’auspicio è che non rimanga un diario delle buone intenzioni. Per quanto riguarda per esempio gli investimenti negli ospedali è fondamentale l’ammodernamento strutturale e tecnologico di tutte le strutture pubbliche e classificate. La lezione del Covid ci ha insegnato che le nostre strutture, che sono molto vecchie o comunque datate nella maggior parte dei casi, devono essere a ‘fisarmonica’, ovvero in grado di mutare pelle nel giro di una settimana quando ci si trova di fronte ad un’emergenza.

Mi faccia anche dire che sono molto orgoglioso che nel Recovery Plan si parli di colmare le carenze di personale medico relativamente ad alcune figure specialistiche, citando espressamente la medicina interna.  Per noi internisti, che da un anno ci stiamo facendo carico di assistere oltre il 75 % dei malati Covid ricoverati in ospedale è un importante riconoscimento.  Non sono in grado di dire se le risorse siano sufficienti perché bisogna attendere di vedere i progetti nello specifico, ma è chiaro che si devefare un grande sforzo per rilanciare la sanità italiana. Però un grande impegno deve essere rivolto a ricerca e formazione. Anche negli ospedali va fatta ricerca, perché in questo modo migliora l’assistenza che viene prestata.
 
Tra le riforme auspicate c’è in primis quella della medicina e dell’assistenza del territorio di cui si parla da anni ma senza molto costrutto. Perché a suo avviso finora non si è riusciti a cambiare e innovare questo settore? Quali sono gli ostacoli che ne hanno impedito la riforma?
Anelli. In primo luogo, il motivo va ricercato nell’incapacità, da parte di una certa politica, di ragionare a lungo termine, di porsi obiettivi di ampio respiro. Viceversa, almeno in passato, si sono privilegiate politiche di tagli, di risparmi immediati, a politiche di investimento sulla sanità. Quella che noi auspichiamo per la medicina del territorio è una vera e propria rivoluzione del sistema, che, abbandonando modelli verticali ‘a silos’ ormai obsoleti, miri a un modello orizzontale e multiprofessionale, in cui le diverse competenze siano messe, sinergicamente, al servizio del cittadino. Siano portate ‘al letto del malato’, in un concetto di sanità dove la parola chiave sia prossimità. Prossimità in senso fisico, reale, ma anche in senso di aderenza alle domande di salute dei cittadini. Per compiere questa rivoluzione occorrono risorse: occorre considerare la salute e la sanità non come un costo ma come terreno di investimento. E occorre la volontà di cambiare, anche dall’interno: il coraggio di lasciar andare schemi obsoleti, che hanno dimostrato di non funzionare. Il coraggio di mettere in secondo piano i personalismi, per un obiettivo più alto: inutile, ad esempio, moltiplicare i ruoli dirigenziali a scapito dell’assistenza reale al paziente.     

Manfellotto. Di territorio tutti ne parlano ma nessuno sa cos’è. È un termine molto vago e poco definito.  Oggi l’assistenza territoriale vede una miriade di servizi, con annessa burocrazia, che non fanno altro che rendere il lavoro degli operatori e la ricerca di assistenza da parte dei cittadini molto complicata. Rafforzare il territorio non vuol dire disseminare l’Italia di altre strutture burocratiche ma SI deve mirare a mettere insieme le forze già in campo, che sono molte ma senza una regia. Prima di tutto è necessario avere percorsi di assistenza chiari e semplificati, evitando di creare ulteriori percorsi a ostacoli per cittadini e operatori sanitari, proprio in quel “territorio” che dovrebbe agevolare le cure.
 
Un tema al centro di molte polemiche in quest’anno di pandemia ma anche prima, è senz’altro quello dell’autonomia regionale in materia sanitaria, Pensa che l’occasione di un Governo con una potenziale maggioranza parlamentare attorno all’80% possa prendere in mano la questione e riscrivere il Titolo V della Costituzione rivedendo l’attuale equilibrio dei poteri in materia di tutela della Salute?  Oppure, al contrario, ritiene che la “differenza” regionale nelle modalità di organizzazione e gestione della sanità vada salvaguardata?
Anelli. Sicuramente la pandemia di Covid ha messo in luce l’inadeguatezza del Titolo V, soprattutto sul versante dell’equità. Avere 21 sanità diverse non ha giovato alla gestione di una situazione che avrebbe dovuto avere una risposta comune e unitaria. Possiamo dire che Bergamo è stata la nostra Caporetto: la Caporetto della nostra sanità e dei suoi modelli gestionali, in primis il regionalismo.

Non possiamo non evidenziare come i singoli sistemi sanitari regionali registrino rilevanti differenze di qualità ed efficienza rispetto alla garanzia dei livelli essenziali d'assistenza. Come siano in aumento le disuguaglianze di salute tra le regioni: soprattutto tra quelle del Nord e quelle del Sud. Il Covid è arrivato su questo terreno e ha aperto varchi, scavato solchi, che rischiano di diventare voragini capaci di inghiottire i diritti civili, garantiti dalla nostra Costituzione. E a tutela di tali diritti, del diritto alla Salute, di cui all’articolo 32, del diritto all’Uguaglianza, di cui all’articolo 3, della garanzia stessa dei diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’articolo 2, lo Stato elegge gli Ordini delle Professioni Sanitarie, quali suoi Enti Sussidiari. Dobbiamo vigilare quindi: ripianare tali solchi, affinché non si aprano crepacci insanabili. Occorre pertanto garantire il superamento delle differenze ingiustificate tra i diversi sistemi regionali, creando un sistema sanitario più equo, salvaguardando il servizio sanitario nazionale pubblico e universalistico.

Mi chiedo se questa riforma, pur urgente e necessaria, possa essere condotta dalla maggioranza che si sta costituendo o debba essere delegata ai Governi che verranno dopo, una volta usciti dall’emergenza che è ora il centro di aggregazione di forze tanto diverse. Metterla in campo ora sarebbe, certo, una grande scommessa, e dimostrerebbe la volontà di focalizzarsi sulla tutela dei diritti e non solo di gestire la crisi generata dalla pandemia.
 
Manfellotto. Sono sempre stato contrario alla riforma che portò alla regionalizzazione della sanità. Secondo me è stato un errore. il Sistema sanitario è nazionale e deve dare linee d’indirizzo anche organizzative alle Regioni. Abbiamo visto tutti durante la pandemia quanti problemi abbia creato l’assenza di una rete di comando ben definita. Il Paese si deve muovere nella stessa direzione, ed è chiaro che ogni Regione ha delle sue specificità, ma il Ssn dev’essere uno, non solo di nome ma di fatto.
 
Tra le prime questioni sul tavolo del nuovo Governo ci sarà certamente il Piano vaccini anti Covid. Cosa servirebbe secondo lei per accelerare le vaccinazioni?
Anelli. Il problema sta nel numero delle dosi, nel ‘collo di bottiglia’ che si è creato tra le persone da vaccinare e i vaccini disponibili, che sono oltretutto diversi per target e modalità di somministrazione.  Adesso dobbiamo andare avanti con il piano strategico. La priorità va data sempre ai medici, ovunque e in qualunque veste esercitino, e agli operatori sanitari. Per prima cosa, occorre dunque completare la vaccinazione dei medici e del personale sanitario per mettere in sicurezza chi deve curarci e somministrarci gli stessi vaccini. Poi vanno ‘coperti’ gli over 80, che sono più a rischio, e le persone a stretto contatto con loro. In questa fase, è auspicabile il coinvolgimento dei Medici di Medicina Generale, per la vaccinazione dei pazienti che non possono fare grandi spostamenti. Per quanto riguarda il vaccino Astrazeneca, indicato per le persone con meno di 55 anni, potrebbe sin da ora essere utilizzato nei caregiver, oltre che negli insegnanti e, in una fase successiva, negli alunni. Sarà poi il turno dei soggetti fragili: ed è qui che i medici di medicina generale avranno un ruolo da protagonisti nell’individuare i pazienti più a rischio.

In tutto questo, l’Italia non si è comportata male: sono, ad oggi, 2.770.302 le dosi somministrate e 1.241.015 le persone vaccinate. Resta il disappunto per non aver dato subito corso alle indicazioni del Piano vaccinale redatto dal Ministero, che invitava a vaccinare per primi gli operatori sanitari. E, anche qui, la situazione si è rivelata difforme tra regioni, manifestando, una volta di più, il fallimento del regionalismo. Anche per le politiche di vaccinazione occorrerebbe, in definitiva, una maggior forza del potere centrale, per coordinare in maniera uniforme sul territorio la campagna.

Ora, infine, abbiamo a disposizione anche gli anticorpi monoclonali, che potranno essere somministrati nell’ambito del Servizio Sanitario nazionale a un target definito di pazienti, che possano trarne giovamento.    Avere a disposizione anche questa opzione terapeutica, che, in determinate condizioni, permette di ridurre le ospedalizzazioni e di migliorare i risultati clinici, può essere una strategia per prendere fiato e condurre a termine la campagna vaccinale in un tempo più flessibile.
 
Manfellotto. Anche in questo caso si rischia di trasformare la campagna vaccinale in burocrazia. Bisogna porsi degli obiettivi e pianificare al meglio. Per esempio occorre dare a tutte le strutture sanitarie la possibilità di vaccinare assumendo rapidamente operatori a contratto o incentivando il personale in servizio. Non trovo utili le Agenzie interinali che creano solo ulteriori filtri. Ma a parte ciò è chiaro che si può avere il piano più efficiente del mondo, ma se mancano le dosi di vaccino è del tutto irrealizzabile. Al nuovo Governo spetta anche questa sfida.
 
Altra questione, riguarda l’azione di contrasto all’epidemia. Secondo lei funziona il sistema a zone colorate funziona o va cambiato?
Anelli. Il sistema a zone ha dato risultati in termini di abbassamento dei contagi e soprattutto delle ospedalizzazioni. E laddove le misure sono state più restrittive, si sono avuti i risultati più evidenti.  Non altrettanto, però, si può dire delle ‘zone gialle’, che sono a volte state interpretate come zone franche, in cui poter allentare le regole e fare ciò che si voleva. Dobbiamo anche aggiungere un effetto boomerang, per cui il giallo al termine di un periodo di rosso viene, a maggior ragione, vissuto come un ‘liberi tutti’ in cui si può tornare a una vita normale. Non è purtroppo così: il virus è ancora tra noi e, fino a che non saremo usciti dall’emergenza, dobbiamo continuare a rispettare le regole.  
 
Manfellotto. A mio avviso ha funzionato parzialmente. Crea imbarazzo vedere migliaia di persone in giro quando una regione diventa ‘gialla’ e poi tutti chiusi in casa quando si è in ‘rosso’. Il lockdown è una misura di emergenza ma è l’unica che realmente limita la curva. Se occorrerà, andrà fatta seriamente per almeno un mese. Non possiamo continuare all’infinito con gli stop & go dell’attuale sistema.

12 febbraio 2021
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