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Manifestazione del 27 ottobre. L’adesione di “Se Non Ora Quando-Sanità”

di Maura Cossutta

Parteciperemo perché vogliamo contribuire al cambiamento, colmare questo gap innanzitutto di democrazia, tornando all’impegno individuale e collettivo, per difendere una conquista che non dobbiamo perdere, per difendere una conquista che ci possiamo permettere

23 OTT - Per la sanità pubblica è vero “allarme rosso”. Mentre aumentano le disuguaglianze sociali e il divario tra il Nord e il Sud del nostro paese, mentre in sole 8 regioni sono a tutt’oggi garantiti i LEA, i tagli al finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale sono imponenti (26 miliardi dal 2010 al 2015). 
 
La situazione è tale per cui è oggettivamente messa in discussione la sostenibilità stessa del modello pubblico e universalistico, ma senza che se ne parli apertamente, se non attraverso qualche sporadica uscita sui media di economisti come Giavazzi e altri. Siamo davvero a questo punto? La sanità pubblica e quindi l’universalismo è una conquista che davvero ormai non ci possiamo più permettere? 
 
La discussione è serissima, anche se non nuova. Anzi, francamente datata. Ripetutamente infatti negli anni passati, anche al riparo dalla drammaticità della crisi economico-finanziaria, l’idea che si dovesse rompere il monopolio pubblico del finanziamento (e quindi anche il monopolio pubblico della programmazione) del nostro sistema sanitario, piegando il modello istituzionale ai mercati assicurativi, è stata il leit motiv non solo del pensiero liberista, ma anche di tanta parte di un pensiero cosiddetto “nuovo e innovatore”, che molto si affidava alle analisi degli uffici studi di prestigiose università. 
 
Sono quindi innanzitutto d’accordo con chi invoca finalmente sulla spesa sanitaria “un’operazione verità”, cominciando a dire che non è vero che l’opinione dei “tecnici” è “neutra” e quindi realistica e giusta perché “oggettiva”. E infatti dietro la lettura delle cifre, dei dati – che certo tutti dobbiamo conoscere e riconoscere – c’è un’interpretazione che dipende dall’orizzonte di principi e valori che si scelgono, dalla cultura di riferimento cui ci si ispira. E questo è vero soprattutto quando si affronta la complessità del governo della sanità pubblica. 
 
L’abbiamo visto con la spending review: è stata fatta passare come operazione di razionalizzazione della spesa, “a servizi invariati”, ma sono stati solo tagli lineari, inefficaci a modificare le cause strutturali della spesa inappropriata, con il paradosso che le regioni più virtuose (che garantiscono i LEA e hanno i bilanci in ordine) dovranno ridurre i servizi e le regioni non virtuose (che hanno scadenti risultati assistenziali e disavanzi strutturali) non saranno spinte a migliorare. E’ stata comunicata all’opinione pubblica come lotta agli sprechi e alle inefficienze – che nessuno certo si permette di difendere – ma non come scelta di “conseguire i risparmi anche attaccando i confini dell’intervento pubblico”, decidendo “se un’attività può essere mantenuta all’interno del settore pubblico, se deve essere rimandata per intero verso il settore privato dell’economia oppure se il coinvolgimento pubblico nel suo sostegno deve essere ridotto”. Eppure così è scritto nel documento del governo. L’intento non è certo rimasto “tra le righe”, ma continua ad ispirare le scelte. Anche il decreto Balduzzi – che per il fatto stesso di venire “dopo” e non “prima” della spending review è di per sé ininfluente rispetto a quelle scelte – non ci tranquillizza affatto. Come si garantisce il riordino dell’assistenza territoriale senza fornire ai servizi attrezzature e tecnologie, ma soprattutto senza aver messo un euro sul Fondo per la non autosufficienza? Come si può parlare di un provvedimento di “riforma” del SSn, quando i tagli lineari smantellano di fatto i pilastri di un buon governo della sanità, e cioè la programmazione e la valutazione? 
 
In realtà il necessario processo riformatore del nostro sistema sanitario si è interrotto da tempo, tra ritardi, ambivalenze, rimozioni, errori, con passaggi via via sempre più stretti “centrifughi” al sistema. Servirebbe allora un grande dibattito pubblico, una discussione politica, su cosa è successo e su cosa non è successo, su quello che si è fatto e che non si è fatto, sui cambiamenti necessari certo, ma soprattutto sul primato dell’universalismo rispetto ai modelli assicurativi. 
 
Infatti – come già altri hanno efficacemente dimostrato – la sanità pubblica è stata sicuramente una conquista fondamentale per i ceti meno abbienti, ma anche per quelli più socialmente garantiti perché, al di là delle ideologie della cosiddetta “libertà di scelta”, fuoriuscire dal sistema di solidarietà fiscale e dal sistema universalistico resta un terribile azzardo, non esistendo al mondo nessuna assicurazione in grado di offrire le 4.500 prestazioni comprese nei LEA alla cifra di 1.891 euro, corrispondente alla spesa procapite del sistema sanitario nazionale. Invece si procede a colpi di fiducia, senza il coinvolgimento propositivo dei cittadini, delle associazioni, delle istituzioni locali. E soprattutto degli operatori, che sono sempre più umiliati nella loro professionalità e nelle condizioni di vita e di lavoro dai tagli lineari e dall’accanimento contro il pubblico impiego. 
 
Del destino della sanità pubblica si tratta, quindi, e di tanto altro di più. Se infatti il diritto costituzionale alla salute è il “diritto forte” che riconosce e promuove tutti gli altri diritti, economici, sociali, politici, civili per chi è cittadino e anche per chi non lo è, il destino della sanità pubblica riguarda la stessa idea di società, di comunità, la concezione della democrazia, il modello economico di sviluppo, l’emancipazione e la libertà delle persone. Di tutte le persone, ma soprattutto delle donne. 
 
È infatti solo la difesa della sfera pubblica, della responsabilità statale rispetto ai bisogni di cura che può modificare i rapporti di potere, le relazioni e i ruoli sociali e culturali tra le donne e gli uomini. E’ solo il cambiamento riformatore della sanità pubblica e del sistema di welfare che può riconoscere il valore del “lavoro non retribuito delle donne”. Gli interessi dei mercati assicurativi pensano ad altro, cercano il profitto nella sfera dei bisogni umani, ma scaricano sulle donne tutto il costo sociale. 
 
Per questo alla manifestazione del 27 ottobre - al di là delle sigle dei sindacati che ci sono e di quelli che non ci sono - aderiremo come “SNOQ – Sanità”, un gruppo che si è costituito da poco, sulla spinta dell’indignazione e della voglia di contare, di uscire dall’isolamento e dall’ininfluenza. Siamo professioniste della sanità pubblica, siamo donne che ci sentiamo parte di una società consapevole ed esigente, che soffre dello spreco delle intelligenze e del merito, della mancata valorizzazione dell’impegno e della responsabilità, della mancanza di legalità, dell'occupazione e della lottizzazione dei partiti nel pubblico, della barbarie nelle relazioni umane e dello strapotere degli interessi privatistici nelle relazioni sociali, dell'aumento dei privilegi e dello snaturamento dei diritti e delle libertà. 
 
Parteciperemo alla manifestazione perché vogliamo contribuire al cambiamento, colmare questo gap innanzitutto di democrazia, tornando all’impegno individuale e collettivo, per difendere una conquista che non dobbiamo perdere, per difendere una conquista che ci possiamo permettere. Serve pensiero e volontà politica, rigore nei principi e coerenza nelle scelte. Ma per la sanità pubblica il tempo è ormai scaduto. Se non ora, quando?
 
Maura Cossutta
“Se Non Ora Quando - Sanità"

 

23 ottobre 2012
© Riproduzione riservata

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