Demenza. I disturbi dell’udito triplicano il rischio di svilupparla
Da Bologna gli esperti riuniti per il workshop internazionale “Perdita di udito e declino cognitivo: quale è il legame?” sottolineano la necessità di avere cura dell’udito e di diagnosticare al più presto i disturbi per intervenire più efficacemente. In Italia oltre 7 milioni di persone hanno disturbi dell’udito.
15 APR - Un deficit moderato dell’udito può aumentare di tre volte il rischio di sviluppare una forma di demenza. Inoltre, gli anziani con una forma significativa di ipoacusia hanno il 24% di probabilità in più di compromettere le proprie abilità cognitive, tra cui concentrazione, memoria e capacità di pianificazione. È questo l’allarme lanciato oggi dal workshop internazionale “Perdita di udito e declino cognitivo: quale è il legame?” che, promosso dalla Fondazione Giovanni Lorenzini, ha riunito oggi a Bologna alcuni esperti italiani per un confronto e dibattito con il professor
Frank Lin, della Johns Hopkins University di Baltimora negli Stati Uniti. Lo studioso americano è autore di numerosi studi scientifici ed è considerato uno dei massimi esperti internazionali del collegamento tra udito e problemi cognitivi: un legame sciagurato che in futuro, però, potrebbe permettere di prevedere con anticipo la formazione delle lesioni cognitive, in modo da intervenire tempestivamente proprio su demenza e Alzheimer.
“L’opinione comune – ha spiegato Frank Lin – è che la perdita di udito sia una semplice conseguenza dell’invecchiamento. In realtà gli studi più recenti mostrano come l’ipoacusia possa influire sulla buona salute del cervello. Così, si ipotizza che un trattamento efficace dei disturbi dell’udito possa aiutare a prevenire il declino cognitivo”.
Si tratta di un collegamento importante, considerando che solo in Italia vivono oltre 7 milioni di persone con disturbi dell’udito, hanno sottolineato gli esperti. Secondo Lin l’ipoacusia può contribuire in quattro modi diversi allo sviluppo di una forma di decadimento cognitivo. “L’ipotesi più ovvia – ha proseguito Lin – riguarda l’esistenza di un processo fisiologico comune che contribuisce sia all’ipoacusia, sia al declino cognitivo. Un’altra possibilità è legata a quello che gli esperti chiamano ‘cognitive load’: cioè lo stress esercitato sul cervello dal continuo sforzo di comprensione dovuto a un deficit uditivo. La terza ipotesi considera come la perdita di udito possa modificare la struttura del cervello, contribuendo così allo sviluppo di problemi cognitivi. Infine, sembra possibile che anche l’isolamento sociale, a cui spesso l’ipoacusia costringe, giochi un ruolo nel favorire lo sviluppo di questi disturbi”.
“È indubbio – ha affermato
Andrea Peracino, della Fondazione Giovanni Lorenzini - che alcune patologie legate all’avanzamento dell’età, come la demenza e la perdita cognitiva, costituiscano un tema di grande attualità e rappresentino un vero macigno per la società, sia dal punto di vista della salute delle persone, sia per il loro impatto economico sui sistemi sanitari. Da alcuni anni, dunque, la comunità scientifica internazionale sta indagando il legame tra la perdita di udito e la comparsa nel tempo di una riduzione delle capacità cognitive: questo legame potrebbe permettere di prevedere con anticipo la formazione delle lesioni cognitive, in modo da intervenire tempestivamente proprio su demenza e Alzheimer. Ecco perché il workshop promosso oggi dalla Fondazione Lorenzini vuole costituire un primo momento di confronto multidisciplinare sui risultati che si sono già raggiunti negli Stati Uniti e su quello che invece si sta facendo e si potrà fare in Italia”.
15 aprile 2014
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