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Il medico che lucra sulla finta invalidità è come il poliziotto che ruba

di Fabrizio Gianfrate

Per questo ogni ombra o sospetto di “moral hazard” deve essere minimizzato, azzerato. Ma sono responsabilità che non possono essere lasciate alla  discrezionalità deontologica del singolo medico, ma inserite in un processo con idonee e robuste regole di sistema

17 FEB - Era finta la paraplegia e la cecità di quell’anestesista delle Molinette, per accaparrarsi arbitrariamente succulente pensioni e lauti indennizzi. Chi avrà certificato quelle inesistenti invalidità da cui sono dipese vere erogazioni da oltre un milone di euro? Queste truffe vere o presunte, grandi o piccole, ciclicamente sui media (il “ceco” che legge il giornale, lo “zoppo” che vince la maratona, il “paraplegico” in bici, ecc., ecc.) transitano da medici che certificano il falso, consapevoli o no, costretti o meno, forse ingannati anch’essi. Come nell’altro recente caso mediatico, fatte le dovute differenze, dei circa 600 medici messi sotto indagine a Roma per i certificati ai vigili romani assenti la notte di capodanno.
 
Mi soffermo maggiormente sulle false invalidità perché particolarmente intollerabili: sottraggono risorse ai più bisognosi, azione tra le più miserevoli e incivili. Sono quasi tre milioni in Italia gli invalidi con specifica pensione, il 5% circa degli italiani, neonati inclusi. Tanti, numeri da Bosnia-Erzegovina post-bellica. Nell’Ocse spendiamo largamente più di tutti, circa 17 miliardi, una cifra pressoché raddoppiatasi nell’ultimo decennio. Quanti quelli falsi? Le varie verifiche a campione degli ultimi tempi parlano di circa uno su dieci, la maggior parte di questi però solo parzialmente irregolari (es.: invalidità anche appena superiore al reale, assegno di accompagnamento senza pieno diritto, ecc.).
 
Cottarelli nella sua “spending review” parlava di possibili risparmi per 400 milioni, quasi il 2,5% della spesa. Una buona cifra in termini assoluti, poco in percentuale. Le autorità preposte nell’ultimo biennio ne hanno recuperati 170, spendendone però 110 per farlo, un saldo non esaltante. Non rasserena in merito leggere che la stessa Inps, alla ricerca dei truffatori, fatichi a ottenere i dati da Asl e Ao, che rispondono a un decimo delle sue richieste.
Falsi status, va ricordato, non solo per raccattare pensioni e assegni di accompagnamento ma pure per vincere concorsi o per scorrazzare nelle Ztl del centro. Il tutto in sottrazione a chi è invalido davvero. Quanti i contrassegni su Suv o cabrio nelle vie del centro o (vedi le cronache di quest’inverno) ai piedi delle piste di Cortina (la terribile “nera” del “Drusciè” su cui, sistemato il Suv nei posti loro riservati di fianco allo skilift, sfrecciano su carving e snowboard non vedenti e grandi disabili).
 
Il medico che lucra sulla finta invalidità è come il poliziotto che ruba, il prete che bestemmia, il delegato antimafia affiliato o, in sedicesimo, l’assessore alla legalità che parcheggia il Suv in divieto. Sono perversi loop esistenziali, cortocircuiti dell’ego, ma che in sanità e medicina tuttavia fanno più scintille che altrove perché a fare male al più fragile è invece proprio chi lo dovrebbe curare. Distorsioni “facilitate” spesso da un far west senza rispetto delle regole, dove sopravvive il più svelto a estrarre dalla fondina il parente influente, la conoscenza illustre o la bustarella.
 
Per il ruolo e la competenza che i nostri medici hanno e meritano, ma anche e soprattutto per la credibilità e il buon funzionamento dell’intero sistema, è allora indispensabile che in queste situazioni ogni ombra o sospetto di “moral hazard” sia minimizzato se non azzerato. Si tratta di responsabilità, allora, che non possono essere lasciate alla sola discrezionalità deontologica del singolo medico ma inserite in un processo condotto attraverso idonee e robuste regole di sistema (“checks and balances”) che, invece, accolgano il medico stesso proteggendone la professionalità e le scelte comportamentali e deontologiche (ne avevo commentato qui su QS lo scorso 31 maggio). Occorre, in sintesi, alle spalle una struttura organizzativa portante di regole e controlli che rafforzi e rassicuri il singolo medico, cioè tutti singoli, quindi l’insieme del sistema stesso.
 
In scienza dell’organizzazione aziendale, quanto sopra potrebbe somigliare a una derivata della “Teoria della Burocrazia” di Max Weber e del più recente, ma conseguente, “Terzo Meccanismo di Coordinamento della Standardizzazione” di Mintzberg, dottrine che mettono al centro la tecnostruttura e soprattutto le sue regole, ponendo in secondo piano la decisione discrezionale del singolo. Una “burocrazia”, come la chiama Weber (forse il significato di “potere agli uffici” è improprio), che oggettivi processi e decisioni connesse secondo regole e schemi definiti “ab initio”, nei quali si stemperi la discrezionalità del singolo ma allo stesso tempo si instradino tutti i partecipanti al processo verso gli stessi obiettivi strategici (“telocrazia”: potere dell’obiettivo da raggiungere), nel nostro caso la corretta utilizzazione delle risorse e la minimizzazione delle truffe e del “moral hazard” a vari livelli connesso.
 
Oggi queste vecchie teorie organizzative desoggettivanti e decentralizzanti la collocazione del potere e della connessa discrezionalità decisionale sono piuttosto neglette, a favore invece di organizzazioni centrate sulla leadership dove la discrezionalità decisionale è del vertice e della stretta oligarchia a esso afferente e deferente, un modello di “governance” ormai “mainstream” per le classi politiche e dirigenti odierne e pertanto molto amata anche dai tanti colleghi economisti ad esse inclini (e inclinati).
 
Tuttavia in certe condizioni di elevato rischio di opportunismi e “moral hazard” da parte di singoli soggetti, e la sanità pubblica dal “terzo pagante” ne è piena, può essere utile ragionare se e come riprendere e adattare, attualizzandole e “tecnologizzandole”, vecchie ma pur sempre valide, benché per molti scomode, teorie.
 
Fabrizio Gianfrate

17 febbraio 2015
© Riproduzione riservata

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