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Gli Stati generali dei medici e i “sei miti” da sfatare che nascondono la vera condizione della sanità

di Roberto Polillo

I medici sono tutti “baroni”. La sanità italiana è tra le migliori del mondo. Le equipe sanitarie sono destinate all’armonia. La stessa cura è buona per tutti. Tutti gli errori si possono evitare. La medicina cura tutto... Ancora oggi per la maggior parte dell’opinione pubblica e anche di molti addetti queste sei affermazioni non sono poi così lontane dalla realtà. Anzi in molti casi sono considerate assiomi indiscutibili celando così i veri problemi

08 OTT - Dopo tentennamenti, incertezze e cedimenti alle sirene di turno, la Fnomceo ha finalmente assunto una posizione chiara convocando gli Stati generali delle professione il 21 ottobre e preannunciando una manifestazione di tutti i medici per il prossimo novembre.
 
Gli Stati generali possono essere l’occasione per discutere finalmente sui medici e sulla medicina e avviare così una riflessione, non rituale, sulla nostra condizione attuale e sul modo di uscire da una situazione di difficoltà che negli ultimi anni si è ulteriormente accentuata.
 
Una discussione che dunque, per essere riflessiva e produrre effetti di cambiamento, deve evitare la sterile e stucchevole auto-celebrazione sul ruolo medico e sulla sua funzione insostituibile (obbligatoriamente presente quando una professione sia autointerroga e si svela).  E questo non perché non sia vero, ma perché l’urgenza è sgomberare il campo da una serie di equivoci e fraintendimenti che sono strumentali a mantenere la parte prevalente della categoria nello stato di scacco in cui versa. Una riflessione che deve tuttavia riprendere in considerazione lo stesso statuto della medicina cercando di ridefinirne limiti, confini, aspettative.
 
In tempi normali gli stati generali di una professione dovrebbero trattare al primo punto i fondamenti epistemici della disciplina, relegando a un momento successivo gli aspetti legati alla vita professionale e ai rapporti con le istituzioni. Questo non è possibile oggi, in cui si vogliono costringere i medici a perdere la loro possibilità di decidere quello che è meglio per il paziente, ingabbiandoli nell’ economicismo sterile di  una medicina totalmente amministrata
 
Bisogna allora iniziare sfatando “sei miti” che nascondono e celano la reale condizione dei medici nell’attuale contesto sanitario. Un campo istituzionale che, come ho più volte ricordato, è agito da forze contrastanti che, aldilà delle anime belle che lo abitano, cercano di raggiungere e mantenere una posizione di stakeholder nella divisione sociale del lavoro sanitario, stabilendo tra loro alleanze selettive, elaborando strategie ed imponendo norme, valori, credenze e miti razionali. Un terreno di confronto e di scontro in cui si mescolano inevitabilmente interessi materiali e obbligazioni morali, responsabilità individuali e collettive e che richiede un approccio analitico multi-dimensionale per svelarne la reale tessitura. 
 
Inizio da questi aspetti relazionali, che la contingenza attuale rende più evidenti e lascio in coda i problemi di più ampio respiro che spero la Fnomceo sarà in grado di promuovere.
 
Il mito del servizio sanitario più bello del mondo
Il Servizio sanitario nazionale del nostro paese vive una situazione di grave sofferenza.  Si illude che continua a ripetere come un mantra che secondo l’Oms il nostro Ssn è risultato al secondo posto di una graduatoria di merito tra i sistemi sanitari dei paesi membri. Quella valutazione era errata, come del resto ammesso dalla stessa Oms, e il dato più probabile è che il nostro SSN si colloca al 21° posto su 36 paesi esaminati  dall’organismo di analisi ed informazione svedese Health Consumer Powerhouse, nel rapporto Euro Health Consumer Index (EHCI) del 2014.
 
E del resto il de-finanziamento della sanità ha raggiunto un livello inaccettabile come certificato dai dati Ocse 2014 che fissano il finanziamento del Ssn a 8,8 del PIL,   inferiore perfino a quello della  Grecia che si attesta a 9,2,  per non parlare di quelli di Francia e Germania rispettivamente a 10,9 e 11. In soli 5 anni i tagli sono stato superiori a 30 miliardi di euro e le conseguenze di questo sono a tutti visibili specie nelle regioni del centro Italia costrette tra l’altro a pesanti piani di rientro che hanno aggravato ulteriormente la reale possibilità di accesso alle cure
 
Il mito del privilegio di status
Il secondo mito da abbattere è quello relativo allo status privilegiato dei medici rispetto alle altre professioni sanitarie e non. Al contrario i fatti ci dicono che in pochi decenni la collocazione dei medici nello spazio sociale ha subito una erosione che nessuno poteva immaginare. Il processo di proletarizzazione della categoria si è disvelata sia dal punto di vista dell’arretramento economico (con una perdita di salario reale del 50% e oltre) e sia dal punto di visto della capacità di dettare norme più favorevoli nella divisione sociale del lavoro.
 
Emblematica la perdita di potere dei sindacati (estesa ovviamente all’intero comparto della P.A.) dopo il passaggio del rullo compressore del Ministro Brunetta che ha fatto carta straccia della concertazione e della possibilità di incidere anche se in misura marginale sulle condizioni di lavoro, divenute sempre più dure e gravose specie all’interno dei grandi ospedali. Una perdita di potere che nessuno dei successivi ministri ha rimosso, e che si declina nei confronti dei due principali soggetti che nel campo sanitario agiscono politici e amministratori. A questa condizione di subordinazione verso il decisore politico e i loro preposti si è aggiunta una situazione di conflitto con le altre professioni sanitarie (di cui diremo dopo) e, ultimi arrivati, con i professionisti delle sventure che vivono sull’errore medico forzando in modo strumentale e per interessi di parte il contenzioso legale.
 
Di fatto la solitudine e l’isolamento del medico, spesso costretto a umilianti pratiche difensive di nessuna utilità per il paziente, è diventata sempre più evidente aggiungendo un problema in più a una già compromessa condizione lavorativa
 
Il mito della co-evoluzione delle professioni
L’idea che le professione medica debba rinegoziare con le altre professioni il proprio ruolo e le proprie attività di riserva a seguito e a compimento di un sincrono processo co-evolutivo è totalmente priva di ogni fondamento.
 
Le uniche professioni che sono evolute (e questo è sicuramente un fatto di grande rilievo) sono le oltre 20 e oltre professioni sanitarie che, in virtù di specifiche norme di legge, sono passate da professioni ausiliari prive di autonomia nei confronti del medico, a vere professioni con propri ambiti di attività esclusive. Tutto il contrario dei medici che, storicamente privi di norme di legge che ne definiscano ruolo e competenze (non necessarie finché essi hanno signoreggiato il campo sanitario) sono oggi sottoposti all’erosione di competenze da parte delle altre professioni.
 
E questo con la complicità e la partecipazione attiva dagli amministratori regionali che con lo shift delle competenze verso il basso vogliono cogliere il sogno del risparmio facile, comprimendo solo e soltanto il costo del lavoro ed evitando così una vera razionalizzazione degli sprechi. Se dunque la co-evoluzione è una distorsione della storia delle professioni, occorre fare chiarezza sugli ambiti di rispettiva responsabilità salvaguardando il principio che la diagnosi e terapia deve restare di competenza esclusiva di chi ha un percorso formativo e professionale specificamente rivolto a questo.
 
Il mito della univocità delle cure mediche
L’enfasi posta sulla appropriatezza stabilita per decreto del ministero nasconde, aldilà dei consueti e poco scientifici motivi di cassa, anche un errore concettuale di chi si illude che le malattie e la loro gestione  siano riducibili a  processi seriali,  univoci e totalmente riproducibili.
 
L’individuo è invece un sinolo in cui il genotipo di derivazione parentale diviene fenotipo unico, irripetibile e imprevedibile sotto lo stimolo dell’ambiente e dei fattori epigenetici che agiscono fin dalle prime fasi dello sviluppo fetale. I grandi meriti della Medicina basata sulle evidenze non possono farci dimenticare i limiti teorici di tale approccio investigativo e che nascono dai criteri utilizzati nella scelta del campione, in termini di età e di singole patologie su cui i suoi teoremi sono costruiti. E così, poiché la Evidence based medicine non si applica alla parte maggioritaria della popolazione perché troppo anziana (o troppo giovane) o perché affetta da poli-patologie, è chiaro che la sua interpretazione dei fatti clinici non può essere generalizzata.
 
Questo ovviamente non significa cadere nel relativismo incondizionato delle cure in una sorta di fai da te terapeutico; significa semplicemente che l’individuo non può essere massificato e che accanto all’universale su cui è costruita la medicina esiste un particolare in carne ossa che può tranquillamente deviaredalla media standard senza essere per questo “colpevole” e indegno di un trattamento personalizzato.
 
Il mito della razionalità olimpica
Il medico, specie se opera in condizioni di incertezza - e tale è in modo particolare chi lavora nei dipartimenti di emergenza, nelle rianimazioni o nelle sale operatorie - non dispone di una razionalità olimpica e né può contare su una informazione completa ed esaustiva che gli consente di fare sempre la scelta giusta.
 
Al contrario il premio Nobel Simon ha evidenziato come la nostra sia una razionalità di tipo limitato e che, specie in condizioni di incertezza, le scelte vengono effettuate utilizzando tracce mnemoniche immediatamente disponibili (euristiche) di precedenti scelte che in circostanze simili (ma non identiche!) sono risultate giuste. Questo ovviamente non esclude affatto la possibilità che quelle stesse opzione risultino ora sbagliate, ma di questo l’operatore non riesce a rendersi conto e pertanto è solo a cose fatte che diventa possibile discuterne. Da qui la necessità di un approccio radicalmente diverso verso l’errore medico non causato da colpa grave.
 
L’ errore medico dunque deve diventare un’occasione di riflessione e di crescita non solo per chi lo ha commesso ma per tutta l’equipe partendo da un’analisi accurata degli assets organizzativi quasi sempre concausa di quanto avvenuto. Ne consegue logicamente che anche la legislazione vigente deve essere rivista e che adeguate forme di tutela devono essere messe a disposizioni degli operatori. Senza di questo è semplicemente piratesco insorgere contro la medicina difensiva o la scarsa approprriatezza!
 
Il mito della onnipotenza della medicina
L’ultimo aspetto su cui gli Stati generali dovrebbero riflettere è quello della pretesa onnipotenza della medicina e più in generale della scienza.
La salute umana è ormai ampiamente dimostrato,  ha determinanti molteplici e l’apporto che  la medicina clinica può dare non vale più del 25-30% del totale. I fattori genetici, ambientali e sociali giocano un ruolo altrettanto forte e la medicina deve avere l’umiltà di riconoscere i propri limiti.
 
La salute dunque non può essere medicalizzata e la promozione del benessere richiede un approccio globale di cui la buona medicina è solo una componente. La medicina deve perdere l’autoreferenzialità che finora l’ha pervasa ed aprirsi al mondo e al confronto con altre discipline. Accettare i limiti significa anche abbandonare ogni residuo di paternalismo rivolgendosi al paziente in maniera nuova. Un paziente che semmai è anche disinformato dai media ma che è anche capace di cercare soluzioni ai propri problemi e questa ricerca non può trovare un atteggiamento di sufficienza da parte del medico.
 
Sono questi i temi che ritengo dovrebbero almeno in parte essere ricompresi nell’agenda del convegno. Spero che almeno alcune di queste suggestioni possano entrare a far parte della discussione
 
Roberto Polillo

08 ottobre 2015
© Riproduzione riservata

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