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Ecco perché gli Ordini dei medici devono essere dei “rompi scatole”

di Ivan Cavicchi

Le previsioni sull’evoluzione del quadro politico alla luce della nuova legge elettorale, il persistere di politiche tese a rendere il nostro sistema pubblico sempre più regrediente nei confronti del privato, l’accanimento a controllare, snaturandola, la professione per ragioni di sostenibilità, le anacronistiche invarianze che, nel nostro sistema sanitario, bloccano il rinnovamento, sono tutti “fatti” che ci dicono che è arrivato il momento di cambiare passo

23 OTT - Inutilmente compiacente, l’intervista della presidente Fnomceo Roberta Chersevani al dottor Ranieri Guerra il noto funzionario del ministero della salute responsabile della prevenzione, nominato da poco assistant director general dell’Oms.
 
Perché con tutti i guai che hanno i medici la presidente Fnomceo, come presidente, si dovrebbe occupare di altro.  
 
Il mio disappunto tuttavia non deriva dalla intervista in sé, anche se molto banale, ma, nel clima crepuscolare in cui si trova ormai da tempo la Fnomceo, dalla dissonanza che essa  ripropone  tra  la dirigenza della Fnomceo  e i problemi drammatici che riguardano direttamente gli ordini e la professione.
 
Presidenti “sco” e politiche regionali
Se consideriamo i seguenti aggettivi: scorbutico, scocciante, scomodo, sconveniente e assumiamo le prime tre lettere “sco” come una parola dotata di un significato autonomo, possiamo avere quello che si chiama un prefissoide il cui uso sarà sufficiente a richiamare un intero concetto.
 
Dire che qualcuno è “sco” in questo editoriale equivale a dire che qualcuno è un rompi scatole, un garantista delle regole, uno che in autonomia fa il suo dovere.
 
A Bologna G. Carlo Pizza è stato rieletto presidente facendo en plein. Egli si è portato a casa 15 consiglieri su 15 ma quel che più conta la percentuale dei medici votanti rispetto alla volta precedente è cresciuta all’incirca del 30%. Davvero niente male se consideriamo la disaffezione cronica dei medici verso gli ordini.
 
Il dato politico più importante, tuttavia, non è il successo personale di Pizza ma è che il suo unico vero e diretto competitor è stato la sua controparte istituzionale, quindi la regione Emilia Romagna, vale a dire una lista che non a caso, sul posto, è stata definita senza mezzi termini la “lista dell’assessore”.
 
La cosa ovviamente non mi sorprende se penso al bordello che l’ordine di Bologna ha creato alla regione Emilia Romagna sul 118, mettendo a nudo tutte le contraddizioni. Ma a parte questo, non mi sorprende che un ordine ovviamente indisponibile a priori a subordinare i valori intangibili della professione alla politica, sia inviso alla politica e non solo.
 
Vorrei ricordare che l’ordine di Bologna sulla deontologia non ha fatto sconti neanche alla Fnomceo e in particolare proprio alla presidente Chersevani, responsabile, a suo tempo, della commissione deontologica, rifiutandosi di applicare un codice giudicato troppo cedevole proprio sul piano della difesa della professione.
Definisco G. Carlo Pizza senz’altro un presidente “sco”.
 
A Milano stessa cosa di Bologna, il presidente uscente che si ripresenta è Roberto Rossi e il suo competitor è rappresentato da una lista appoggiata se non ispirata direttamente dalla regione Lombardia.
 
Anche in questo caso che si tratti di   ingerenza della politica nell’autonomia dell’ordine lo si capisce dalle dichiarazioni sulla stampa, attraverso la quale tanto il presidente Maroni che l’assessore Gallera, si dicono costernati che l’ordine di Milano abbia espresso dubbi sulla loro sedicente “rivoluzione sanitaria” (che mi risulta, tra l’altro, rispetto alla adesione dei medici un vero flop), fino ad auspicare un cambio nella sua leadership.
 
L’obiettivo, dichiara testualmente Gallera, è di avere “interlocutori costruttivi che contribuiscano al miglioramento dell’assistenza sanitaria dei malati cronici”. In pratica secondo Gallera dovrebbe essere la Regione a decidere chi è “appropriato” a rappresentare la professione medica e nessun altro.
 
Di Roberto Rossi, come ho scritto su questo giornale, non condivido per niente la sua mania di radiare i medici perché ritenuti in odore di eresia, ma a parte ciò anche lui per me è senz’altro un presidente “sco”.
 
Filippo Anelli è stato appena rieletto all’ordine di Bari con risultati lusinghieri e anche lui con significativi aumenti della partecipazione, recentemente come ordine ha preso posizione contro la sua Regione che con un nuovo regolamento punta a disciplinare le prescrizioni farmaceutiche" (DGR 1452 del 25/09/2017), con lo scopo di trasformare i medici in tanti dispenser a dosatura limitata e controllare così la spesa farmaceutica.
 
Filippo Anelli senza peli sulla lingua ha denunciato pubblicamente il rischio di scadere nella medicina amministrata (musica per le mie orecchie), rifiutandosi di subordinare la deontologia alle decisioni della politica e quindi si è rivolto a tutta la professione facendo un appello all’unità deontologico-professionale e ai cittadini spiegando loro i rischi che corrono. Bella mossa per davvero.
 
Per me senza alcun dubbio Filippo Anelli è un presidente “sco”.
 
I fini e i programmi
Le Regioni tutte hanno gli stessi problemi, in genere finanziari, organizzativi, di riordino, gestionali, per cui spesso non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena. Nessuna di esse ha in testa un pensiero riformatore capace di rendere compossibile (non compatibile) la deontologia con la gestione della sanità.
 
Per le loro politiche di deregulation, la deontologia finisce per essere un ostacolo, quindi un problema, che alcuni pensano di risolvere mettendo gli ordini sotto il controllo informale degli assessori, quindi riducendoli a semplici estensioni istituzionali, convinti che tra istituzioni comunque pubbliche, debbano esserci delle complicità e delle collaborazioni.
 
Solo l’idea che le Regioni con le loro liste di comodo o con i loro regolamenti possano controllare gli ordini mi fa orrore come mi fa orrore, sia chiaro, che vi siano medici che si prestino a questo genere di soprusi.
 
Per un ordine essere un ente ausiliario dello Stato non vuol dire essere un ente banalmente dipendente dalle Regioni come pretendono certi assessori disinvolti. L’ordine proprio perché è un ente ausiliario persegue fini propri assegnategli con piena autonomia da un altro ente pubblico al quale è legato da vincoli di soggezione istituzionale.
 
Sono i fini assegnati all’ordine che ne definiscono l’autonomia nel senso che sulla deontologia l’ordine, pur nella sua ausiliarietà è del tutto sovrano, anche se assoggettato istituzionalmente per via gerarchica ad un altro ente pubblico.
 
Ma se è così la contraddizione a ben vedere riguarda il sistema pubblico in quanto tale, di cui fa parte l’ordinistica e riguarda, al suo interno, i rapporti tra gli scopi (teleologia) e i programmi (teleonomia).
 
Non ha senso che lo Stato deleghi gli ordini a sovraintendere agli scopi della deontologia e poi lo stesso Stato li contraddica con altri scopi perché l’autonomia di questi ultimi sono incuranti della autonomia dei primi.
 
Per me non sono gli scopi degli ordini che debbono adeguarsi a quelli delle regioni ma il contrario, vale a dire le regioni devono trovare il modo per rendere le loro politiche compossibili con essi.
 
L’unico modo per rendere compossibili scopi diversi è concordare un programma (teleonomia)i cui esiti finali (teleologia) siano quelli che co-emergeranno dai loro rapporti di compossibilità.
 
Se le regioni non sono capaci di fare compossibilità non possono pretendere di eliminare i presidenti “sco” e meno che mai di fare strame della deontologia.
 
Deontologia quale interfaccia tra valori diversi
Quindi, non è il presidente Rossi che si deve adeguare alla riforma della Lombardia e men che mai il presidente Pizza all’organizzazione del 118 della sua Regione e ancor meno, il presidente Anelli, ai regolamenti della regione Puglia. Insisto: sono le Regioni che nel momento di definire le loro politiche debbono trovare soluzioni che garantiscano il rispetto della deontologia quale norma sovrana. Perché la deontologia è una garanzia sociale per tutti.
 
Se le politiche entrano in conflitto con la deontologia si può essere sicuri che le sue proposte di fatto sono inaccettabili. Se le politiche delle regioni sono anti- deontologiche si può essere certi che esse sono immancabilmente anti-sociali. Punto. Su questo non si discute.
 
Vorrei ricordare, a questo proposito, che la deontologia funziona come un meccanismo di interfaccia per l’informatica nel senso che il dovere di una professione è garanzia del diritto del cittadino. Essa quindi è l’unico dispositivo normativo di collegamento in grado di assicurare la comunicazione tra due sistemi di valori quelli dei cittadini e quelli delle professioni e quindi dei servizi.
 
Insomma la superiorità della norma deontologica non è quella ideologica che considera in modo categorico l’etica più importante di qualsiasi altra cosa, ma è quella pragmatica legata alla sua efficienza nel senso di essere l’unica norma a tenere insieme valori diversi e a garantirli nello stesso tempo.
 
Le politiche sanitarie delle Regioni entrano in contraddizione con le deontologie perché esse, condizionate soprattutto dai limiti finanziari, molto raramente sono un’interfaccia tra sistemi valoriali diversi dal momento che il più delle volte (come dimostra la riforma della Lombardia, l’organizzazione del 118 in Emilia, il regolamento sui farmaci in Puglia, ma anche le vicende del Veneto e di altre regioni) esse sono l’‘affermazione di certi valori a discapito di altri.
 
Quando il criterio del risparmio diventa teoria della sopravvenienza in ragione della quale tutto il resto deve diventare automaticamente subveniente, ci si rimette tutti a partire dal cittadino.
 
Quindi care Regioni invece di fare stalking, cioè di tormentare gli ordini con comportamenti persecutori ripetuti e intrusivi, come minacce, dichiarazioni stampa, molestie politiche o attenzioni indesiderate, datevi da fare per aggiornare il vostro pensiero che, fatevelo dire, è terribilmente inadeguato.
 
Conclusioni: superare la dissonanza
Definisco autonomia la posizione giuridica di un ordine che si governa di fronte alle altre istituzioni con le proprie deontologie e nella cui sfera di attività non è consentita nessun tipo di ingerenza. Essa è la facoltà riconosciuta dallo Stato alla professione medica di dare a se stessa la propria regola. Guai se la professione, come vorrebbero certi assessori, negoziasse o rinunciasse a tale facoltà.
 
Definisco dissonanza la divergenza che esiste tra ciò che non è “sco” (come ad esempio l’intervista della presidente Chersevani) e ciò che è “sco” come i tre presidenti dei quali ho raccontato le disavventure.
 
In questi anni, da convinto assertore della “questione medica”, non ho fatto altro che descrivere in tutti i modi possibili il problema della dissonanza ad ogni livello. Non ripeterò quindi esempi a tutti noti.
 
In questi anni non ho mai ridotto la critica anche insistente alla Fnomceo, alla sua presidente, cioè non ho mai personalizzato la mia analisi su una persona, in parte perché oltre a lei c’è un gruppo dirigente che ha primarie responsabilità sulle scelte fatte, in parte perché personalmente a Roberta Chersevani voglio bene. Ritengo che essa sia una brava persona, onesta, lavoratrice, trasparente come il diafanoscopio davanti al quale ha trascorso la sua vita professionale.
 
Nello stesso tempo penso, come tanti (ma non è un mistero), che essa sia stata una nomina adeguata, non tanto alle urgenze complesse della professione, ma ai giochi di potere tesi a perpetuare il controllo sulla federazione da parte di un gruppo di persone che essendo molto vicino al governo, è stato indubbiamente molto poco “sco”. I risultati che non cito sono sotto i nostri occhi. Essere “no sco” non paga.
 
Le vicende che ho qui richiamato sono solo la piccola parte di una grande crisi della professione ma che dimostrano due cose:
· il suo crescente grado di compromissione,
· la crescita  dell’arroganza da parte di una politica spregiudicata  che non si ferma davanti a niente.
 
Le previsioni sull’evoluzione del quadro politico alla luce della nuova legge elettorale, il persistere di politiche tese a rendere il nostro sistema pubblico sempre più regrediente nei confronti del privato, l’accanimento a controllare, snaturandola, la professione per ragioni di sostenibilità, le anacronistiche invarianze che, nel nostro sistema sanitario, bloccano il rinnovamento, sono tutti “fatti” che ci dicono che è arrivato il momento di cambiare passo.
 
Per cambiare passo bisogna togliere di mezzo la dissonanza cioè fare in modo che la federazione sia “sco” almeno quanto i presidenti di ordine che la rappresentano in prima linea. Cioè che agisca semplicemente la sua autonomia. Altrimenti la vedo nera.
 
Ivan Cavicchi

23 ottobre 2017
© Riproduzione riservata

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