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Tumore dell’ovaio. Otto volte su dieci si scopre troppo tardi


Le cause? Diagnosi difficile perché manca uno screening ad hoc e le donne ignorano sintomi e fattori di rischio. Eppure colto in uno stadio precoce guarisce nel 90% dei casi. A scattare la fotografia sulla patologia che colpisce ogni anno nel nostro Paese 4.500 donne è un’indagine condotta da Aiom e Sigo e presentata oggi a Milano.

24 OTT - In Italia i nuovi casi di tumore ovarico sono circa 4.500 all’anno e le donne che ne muoiono 3.000, una mortalità alta rispetto all’incidenza. Le sfide si chiamano soprattutto diagnosi precoce - l’80% dei casi arriva al riconoscimento al III-IV stadio quando la sopravvivenza scende al 30% - e prevenzione delle recidive. “E’ importante anche l’approccio multidisciplinare tra ginecologi e oncologi a tutti i livelli dalla diagnosi alla terapia” sottolinea Marco Venturini, presidente dell’Associazione italiana di Oncologia medica (Aiom). Un sondaggio condotto dall’Aiom con la Società italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo) su un migliaio di iscritti ha invece evidenziato che il 63% egli oncologi e il 32% degli oncologi giudica la collaborazione insufficiente: da ciò un progetto Sigo-Aiom, annunciato oggi, per definire un percorso comune per migliorare la gestione delle pazienti e anche l’informazione delle donne.
Il carcinoma ovarico se individuato in fase precoce in genere è asportabile ma il problema è che spesso nella fase iniziale non dà sintomi e può quindi diffondersi con metastasi prima di essere diagnosticato: la sopravvivenza raggiunge il 90% se scoperto quand’è ancora confinato, mentre cala al 50-60% al II stadio e appunto al 30% al III-IV. I sintomi iniziali poi possono essere confondenti, come dolori o gonfiore addominale, irregolarità mestruali, perdita di appetito; anche in stadi più avanzati nella maggior parte dei casi sono aspecifici, quali dispepsia, anoressia e sazietà precoce, dolori da gas intestinale e lombalgia. “A volte ci sono pazienti trattate per presunta colite, senza accertamenti diagnostici” dice Nicola Surico, presidente della Sigo. Quanto alle donne a rischio, circa il 10% di quelle che si ammalano hanno una storia familiare di neoplasia ovarica o mamaria dovuta in particolare a una mutazione dei geni BRCA1 e 2, che può essere individuata. “Non ci sono tecniche di screening di massa” continua “forse lo si può fare per le donne con mutazione genetica e fattori di rischio, con ecografia e dosaggio del marcatore CA125”.  Oltre all’età post-menopausale, altri fattori di rischio moderato sarebbero menarca precoce e menopausa tardiva e, tra quelli evitabili, fumo e sovrappeso. Ma ci sono anche fattori protettivi: multiparità, allattamento al seno, uso protratto di contraccettivi orali (rischio ridotto del 50%).
“In caso di sintomi riconducibili alla neplasia è consigliabile procedere subito con visita ginecologica, ecografia e dosaggio del marcatore CA 125” specifica Nicoletta Colombo, direttore dell’Unità di Ginecologia oncologica dell’Ieo (Istituto europeo di oncologia) di Milano: centro dedicato e di riferimento nazionale per il tumore ovarico. “Per lo screening generale invece questi approcci hanno fallito, occorrerebbe scoprire dei marcatori circolanti e per questo bisogna fare ricerca. La maggioranza dei casi avanzati poi è di tipo sieroso, non nasce non dal tessuto ovarico ma per esempio dalle fimbrie e in questo caso l’ecografia non serve”. Altro problema, oltre alla diagnosi precoce, è la recidiva. “Con la chirurgia si deve asportare tutto il tumore visibile, anche quello al di fuori dell’ovaio, puntando cioè al cosiddetto zero residuo. Poi si effettua la chemioterapia, che dà una buona risposta nel 70-80% dei casi, ma il tumore tende a recidivare (in quasi l’80% delle pazienti in stadio avanzato), in maggioranza entro 15 mesi dalla diagnosi iniziale. Il grande obiettivo è evitare o almeno ritardare la recidiva, allungando il periodo libero dal peso della malattia, anche rispetto alla qualità della vita. In questo senso sembra ritardare la recidiva un farmaco che inibisce l’angiogenesi tumorale, bevacizumab, per il quale c’è un parere europeo favorevole e che dovrebbe essere disponibile in Italia l’anno prossimo. Bisognerà verificare se questo trattamento aumenti anche la sopravvivenza. Ai farmaci antiangiogenetici (ce ne sono altri allo studio) sarebbero più chemiosensibili le pazienti con la mutazione genetica”.
La buona gestione della pazienti con il tumore ovarico passa per una presa in carico da parte di un’équipe multidisciplinare, come quella attivata all’Ieo. “Il nostro obiettivo è la costituzione di una rete di centri con integrazione tra operatori” spiega Venturini “tra i quali prima di tutto ginecologo e oncologo dedicato, ma anche patologo, genetista, psicologo e altre figure professionali. La collaborazione Aiom-Sigo vuole realizzare percorsi comuni codificati  per favorire la multidisciplinarietà, e punta anche ad approntare linee-guida comuni. Altro obiettivo è migliorare l’informazione alle donne su questo tumore, con una guida che sarà pubblicata a breve, per sensibilizzarle per esempio ai controlli quando c‘è familiarità per il tumore”. Quanto ai medici, nel sondaggio c’è un 20% di ginecologi che si limita nelle pazienti a rischio a una visita ginecologica di controllo semestrale.

Elettra Vecchia
 

24 ottobre 2011
© Riproduzione riservata

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