Urgenza e condizioni (disperate) del paziente valgono più di best practice e linee guida. Medico di guardia assolto
Esclusa la responsabilità del medico (Cassazione, sentenza 43794/2018), anche se la sua condotta non è in linea con la buona pratica, per la morte da infarto di un paziente la cui situazione era già gravemente compromessa a livello cardiologico. LA SENTENZA.
06 OTT - La Cassazione (sentenza n. 43794/2018) ha confermato la sentenza della Corte d’appello che ha ritenuto non responsabile il medico di guardia medica di un’isola, anche se la sua condotta non è in linea con la buona pratica, per la morte da infarto di un paziente la cui situazione era già gravemente compromessa a livello cardiologico.
Il fatto
Un paziente, già afflitto in passato da problemi cardiaci, era giunto presso la guarda medica dell’Isola di Marettimo lamentando dolori al torace o comunque sintomatologia riferibile a un possibile prossimo infarto e nell’arco di 15 minuti era deceduto per arresto cardiaco.
Il paziente, come hanno verificato i giudici di Appello, era stato subito defibrillato, anche se non c’era una prova certa che si trattasse di un evento aritmico defibrillabile. Non era stato eseguito un Ecg, ma i periti hanno stabilito che non avesse alcuna utilità diagnostica e/o terapeutica in quel momento essendo prioritaria la necessità di rianimare il paziente nel breve lasso di tempo tra l’arrivo alla guardia medica e l’evento infausto.
Tempo che non aveva consentito nemmeno un collegamento in teleconferenza con l’UTIC dell’ospedale sulla terraferma che comunque non avrebbe potuto (sempre per il poco tempo) effettuare una valutazione diagnostica. La somministrazione di adrenalina per via sottocutanea e non per via venosa non aveva modificato il quadro clinico né determinato l’evoluzione degli eventi né poteva considerarsi un’omissione colposa la mancata reperibilità di accesso venoso in quanto l’arresto cardiaco era intervenuto dopo pochissimo tempo (circa 15 minuti appunto) dall’arrivo alla guardia medica e quindi si era creata una condizione di ipertensione che aveva impedito che l’adrenalina fosse somministrata per via endovenosa.
E sempre per il brevissimo tempo una somministrazione di aggreganti piastrinici e betabloccanti non sarebbe stata in grado di modificare il decorso clinico per il mancato assorbimento. Lo scompenso cardiaco congestizio aveva avuto un ruolo preminente nell’evoluzione fisiopatologica del caso ed era indicativo di una importante disfunzionale/contrattile che aveva condizionato l’esito sfavorevole in generale e della rianimazione cardiopolmonare della defibrillazione: il substrato anatomo-funzionale cardiaco era talmente compromesso da non consentire il ripristino di una attività elettrica efficace.
La sentenza
Secondo la Cassazione, che ha confermato la sentenza di non colpevolezza del medico emessa dalla Corte d’Appello, gli ulteriori ricorsi dei familiari sono infondati: esecuzione di trattamenti sanitari diversi da quelli previsti dalle best practice e dalle linee guida internazionali per pazienti in crisi coronarica; forme di negligenza, imperizia e imprudenza del medico “inadeguato” nel gestire la situazione; interpretazione attribuita dalla Corte d’Appello alle testimonianze e scelta delle valutazioni contenute nelle consulenze tecniche di segno contrario a quelle offerte al processo dalla pubblica accusa e dalle difese della parte civile.
“La corte territoriale – spiega la Cassazione nella sentenza - nel ripercorrere la valutazione degli elementi di probatori acquisiti, ha ribadito, con diffusa e coerente motivazione, come tutte le contestate omissioni o negligenze relative alla dedotta violazione delle linee guida previste dalla comunità scientifica internazionale per il trattamento di un paziente che presenta una chiara sintomatologia da sindrome cardiocircolatoria, potendo disporre di idonea strumentazione (vale a dire: monitorare il paziente per avere una traccia Ecg grafica per valutare il ritmo cardiaco, incanalare una vena periferica per somministrare farmaci ed eventuale terapia iniettiva, praticare terapia medica iniziando dall' aspirina sublinguale e somministrazione di eparina a basso peso molecolare in attesa del trasferimento del paziente, evitando di somministrare farmaci antidolorifici e seguire l'evoluzione, controllando la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca, utilizzando eventualmente dei farmaci come betabloccanti ed assistenza respiratoria con ossigenoterapia) o non si erano verificate o non avevano avuto alcuna incidenza causale concreta sulla morte del paziente”.
Questo "in relazione al breve lasso di tempo intercorso fra il momento del’arrivo presso la guardia medica e I' evento infausto". Tempo in cui non sarebbe stato possibile effettuare una valutazione diagnostica con il reparto di cardiologia del servizio UTIC, ma anzi, si sarebbe rivelata "una perdita di tempo che non sarebbe stata utile al paziente”.
Secondo la Cassazione la Corte d’appello “valorizzando il percorso scientifico dei periti nominati dal tribunale ha correttamente proceduto a escludere la responsabilità del medico ritenendo che la condotta del sanitario benché non conforme alla buona pratica non aveva avuto un ruolo causale nel determinismo dell'evento morte che alla luce del quadro clinico si sarebbe, comunque, verificato oltre ogni ragionevole dubbio “.
Secondo a sentenza, tutte le omissioni o negligenze contestate relative alla violazione delle linee guida previste dalla comunità scientifica internazionale per il trattamento di un paziente che presenta una chiara sintomatologia da sindrome cardiocircolatoria, potendo disporre di idonea strumentazione o non si erano verificate o non avevano avuto alcuna incidenza causale concreta sulla morte del paziente.
Quindi “in presenza di una pronunzia assolutoria, confermata in secondo grado, non sussiste alcuna violazione dei principi sopra richiamati avendo la Corte d'Appello, nell' esercizio dei suoi insindacabili poteri ritenuto di non dare corso ad alcuna rinnovazione dell'audizione dei testimoni indispensabile solo in ipotesi di reformatio in peius, atteso che “l'applicazione della regola dell'immediatezza nell'assunzione di prove dichiarative decisive si impone unicamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiché è solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio - operante solo pro reo e non per le altre parti del processo - sulla valenza delle prove dichiarative”.
Secondo la Cassazione è proprio questa incidenza asimmetrica del principio del ragionevole dubbio che opera in favore del solo imputato, rende necessitato il ricorso al metodo di “assunzione della prova dichiarativa, unicamente per il sovvertimento in appello della decisione assolutoria di primo grado. Trova così una razionale giustificazione, alla stregua delle regole costituzionali del giusto processo, il diverso e meno rigoroso protocollo di assunzione cartolare della prova dichiarativa nell'ipotesi della riforma di una sentenza di condanna”.
La Corte conclude che “il principio di immediatezza agisce come fondamentale, ma non indispensabile, connotato del contraddittorio e non è affatto dotato di valenza costituzionale autonoma, subendo anzi svariate, e del tutto giustificate, deroghe (con riferimento, ad es., alla possibile valutazione di prove precostituite) nella disciplina processuale ordinaria. Di certo, però, esso non può essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l'ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali»” e per questo dichiara infondati tutti i motivi di impugnazione della sentenza della Corte d’Appello, rigetta sia il ricorso del P.G. che i ricorsi delle parti civili che condanna al pagamento delle spese processuali.
06 ottobre 2018
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