Ecco com’è cambiata la professione medica negli ultimi 50 anni
di Antonio Panti
In questi 50 anni i medici hanno fatto il loro dovere ma è doveroso spiegare i grandi cambiamenti in atto perché la professione possa procedere in sintonia con le esigenze dei pazienti, che è lo scopo della medicina. Occorre ritrovare unità d'intenti per affrontare le questioni che affannano la categoria. Difendere i valori della tolleranza e del rispetto dell'uomo significa tutelare la salute della gente
12 MAR - Ogni anno gli Ordini fanno omaggio di una medaglia ricordo per il cinquantennio di laurea. Per 30 anni consecutivi ho premiato gli anziani colleghi con un convinto discorsetto. Cos'è questo riconoscimento, mi chiedevo, un premio aziendale, un conforto per la vecchiaia, un ricordo da conservare nel cassetto? No, quel premio rappresenta il passaggio di testimone tra chi inizia una professione bellissima e faticosa e chi l'ha onorata per decenni nonostante immani difficoltà.
Penso alla mia laurea nel luglio 1961, disponevamo dei soli RX, dei primi antibiotici, il cortisone era una novità; quell'anno fu introdotta in commercio la pillola. Il lavoratore era titolare del libretto di assistenza di tutta la famiglia, la società era basata sul principio di gerarchia e nessuno era andato sulla luna.
Vedevamo lascia o raddoppia e lo smartphone non esisteva neppure nei libri di fantascienza. In questo mezzo secolo il mondo è cambiato davvero e la società non è più quella dei nostri padri e la medicina è irriconoscibile. Eppure, chi più chi meno, ci siamo attrezzati, noi laureati nel 61, per adeguare le nostre competenze e imparare le novità della scienza e della tecnica; abbiamo cambiato stile con i pazienti nello sforzo di comprenderne le difficoltà e di adeguarci ai nuovi costumi. E, intanto, siamo transitati dalle mutue al servizio sanitario, un altro bel colpo alle nostre certezze. Avevamo iniziato da padroni di casa di qualche stanzetta e ci troviamo inquilini di enormi condomini più grandi di un grattacielo.
In mezzo alla baraonda del mondo moderno (ci volevano anche le fatture elettroniche e gli acquisti su Amazon per toglierci il piacere della passeggiata in centro) come non essere a disagio, come non rimpiangere il bel tempo antico? Però abbiamo imparato, ci siamo adattati, siamo stati utili ai nostri pazienti, abbiamo esercitato la medicina con onore, mantenendone i valori originari, compreso il rispetto delle decisioni del cittadino e l'attenzione ai costi.
E ora? Si discute su come "coordinare deontologia, epistemologia e metodologia medica" per rinnovare la professione per un nuovo modo di essere medico. Sullo stesso tema scrive assai saggiamente la collega Mirka Cocconcelli lamentando le criticità del lavoro di medico, l'uso obbligante delle linee guida, il contenzioso giudiziario, l'estinzione degli specialisti e la carenza di vocazioni, il blocco dei contratti, la formazione inadeguata e la burocratizzazione eccessiva, il blocco del turn over e gli straordinari non pagati, l'attività usurante.
Questi, e altri ancora, sono i problemi che mettono a disagio i medici: la collega ha messo il dito sulla piaga: il problema della governance e del ruolo dei professionisti. Di questo dobbiamo parlare, della professione oltre che sulla professione.
La medicina non la creano i medici, al massimo contribuiscono. I medici si sono sempre adeguati ai nuovi paradigmi scientifici e ai canoni professionale. I medici hanno sempre praticato la medicina che ritenevano giusta, privilegiando il malato nella sua interezza umana, servendosi della ontologia e della tassomia a scopo ordinatorio, e così da Ippocrate a Sydenham a Osler, da Morgagni a Murri a Rita Charon.
Il medico soffre i limiti posti all'esercizio professionale dalle enormi organizzazioni della medicina moderna, limiti burocratici, economici, di governo delle cose, mentre la scienza, complessificata dai big data, costringe l'inventiva sul singolo paziente dentro il rigore matematico della valutazione degli output.
Il Codice Deontologico è ancora una guida di comportamento, sia pur da aggiornare? Penso di si, la questione è che la scienza, la società, il diritto, tutto è in transizione, tutto cambia senza una direzione precisa e questo crea un'ubiquitaria incertezza. L'uso giudiziario delle linee guida preoccupa i medici; ma finché il diritto non avrà ripensato il suo essere nel mondo moderno, come far coincidere i paradigmi della medicina con quelli della legge? Ecco il burn out dei medici, un disagio che colpisce tutti i cittadini.
Nessuno può prevedere come sarà la medicina tra qualche anno, la medicina 4,0. La capacità ermeneutica del medico e la sua competenza relazionale varranno più di quelle dell'ICT? Prevedo di si, ma che ne pensano i giovani? Non sappiamo se vogliono, come gli anziani, mantenere una professione indipendente e fondata su antichi ideali di servizio oppure preferiscono un ruolo subalterno, più certo sul piano contrattuale e forse più tranquillo come ruolo sociale.
In questi 50 anni i medici hanno fatto il loro dovere ma è doveroso spiegare i grandi cambiamenti in atto perché la professione possa procedere in sintonia con le esigenze dei pazienti, che è lo scopo della medicina. Occorre ritrovare unità d'intenti per affrontare le questioni che affannano la categoria. Difendere i valori della tolleranza e del rispetto dell'uomo significa tutelare la salute della gente; se la Costituzione afferma che "La Repubblica tutela la salute..." è evidente che questo precetto si può realizzare solo se i medici sono sereni. E' un problema di tutti.
Antonio Panti
12 marzo 2019
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