Sulla dignità e autodeterminazione dal punto di vista medico
di Maurizio Benato
Se con l’autodeterminazione “terapeutica” la persona può disporre anche della vita che è stato il bene indisponibile per eccellenza, come può la dignità, che è evidentemente un attributo della vita, costituire un limite? Quale spazio rimane per il rispetto della dignità umana nella sua ontologia? Se la società rivendica, sulla base del proprio “sentire”, come diritto ciò che fino ad oggi è stato giudicato, sulla base dell’evidenza, un delitto, mi chiedo allora: se il diritto cede, anche la medicina deve cedere?
08 MAG - La medicina ha un proprio dominio nella area della conoscenza e di attività dell’intelletto umano dove le diverse entità che la costituiscono, le relazioni che intercorrono fra queste, espresse sotto forma di proprietà o attributi e di valori che questi attributi possono avere, si sono sempre collocate tra la vita e la morte. Questa disciplina non ha mai abbandonato il malato e si è posta come fine il governo della morte fino all’attimo finale dell’esistenza della vita umana; il morire per la medicina è sempre stato considerato un tempo proprio dell’esistenza umana. Il medico, che ne è lo storico interprete, nella sua prassi ha sempre agito nel rispetto della dignità e della libertà della persona malata.
Oggi l’esperienza della morte è profondamente filtrata e modellata dalla tecnologia medica che è in grado di incidere sulla vita separando nettamente l’aspetto biologico da quello biografico della persona. Esistono poi, come da sempre nella nostra umanità anche vite che compiono la loro esistenza nel completo vuoto mentale, in mancanza della coscienza di sè, altre che questo vuoto l’hanno acquisito patologicamente nel loro percorso vitale. Anche in questi casi, tranne poche eccezioni tragiche a noi vicine e condannate dalla storia, il medico, si è sempre attenuto al rispetto della dignità di queste persone viventi, pur mancando in queste situazioni esistenziali il modo di esercitare la libertà.
Sono considerazione che mi vengono in mente nel leggere le argomentazioni e l’invito di
Ivan Cavicchi su QS ad anticipare alla Corte Costituzionale e alla politica come intendiamo comportarci in scienza e coscienza con “raziocinio e pietà” di fronte alla richiesta del paziente di autodeterminarsi la morte mediante suicido medicalmente assistito. La questione avanzata dalla Corte costituzionale è chiara e cerco di riassumerla in poche righe. Il suicidio pur essendo un atto intriso di elementi di disvalore, e questo la Corte lo ammette, non viene punito neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio.
Il codice penale però protegge il soggetto da decisioni possibili fatte in suo danno ,punendo severamente chi concorre nel suicidio altrui o determinando e rafforzando in altri il proposito suicida o agevolandone in qualsiasi modo l’esecuzione. La Corte dichiara che l’aiuto al suicidio dovrebbe essere riletto alla luce della Costituzione e in particolare, del principio personalistico enunciato dall’art. 2 che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale e di quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13. Alla luce di questi principi , la vita che è il primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, non può essere concepita in funzione di un fine diverso rispetto al suo titolare.
Pertanto si deve ammettere anche la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza. Il principio costituzionale richiamato è quello previsto nell’art. 32 della Costituzione nel passaggio relativo ai trattamenti terapeutici. Si tratta del principio di autodeterminazione che ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza e poi dal legislatore con la recente legge 219/17 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) sancisce l’obbligo di rispettare le decisioni del paziente, anche quando ne possa derivare la morte.
La preminenza del diritto alla vita, che è stato il bene giuridico finora protetto, cede ora il passo alla libertà (autodeterminazione ) e alla consapevolezza della decisione del soggetto di porre fine alla propria esistenza. Cade così il divieto assoluto di aiuto al suicidio perché questo divieto finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato incapace di darsi la morte nella scelta della terapia , compresa quella finalizzata a liberarlo dalle sofferenze, con la conseguente lesione del principio della dignità umana.
In questa sintesi giuridica emergono tre concetti: dignità, persona e autodeterminazione, che sono oggetto di una dialettica mai sopita in ambito filosofico - giuridico ma anche sociale e scientifico, un dibattito che sembra essere senza fine, senza un reale punto di convergenza ed elementi di condivisione. Per definire cosa sia la dignità sarebbe necessario definire la “persona umana” che supera, per livello ontologico e valore, il mondo materiale e non può solo concepirsi dentro la capacita di autocoscienza e autodeterminazione.
Ma dando per scontata la definizione di persona, anche se non lo è certamente, senza invadere il campo del diritto, vorrei focalizzare la mia attenzione sul concetto di dignità umana e autodeterminazione che sono concetti portanti anche della deontologia medica. Ivan Cavicchi recentemente, sostenendo la tesi di assecondare la volontà del malato suicidario, quella per intenderci che si rifà ai principi di auto-determinazione, dignità e libertà dell’uomo ha scritto “la perdita della dignità e della libertà per un malato spesso dipendono semplicemente da una perdita totale della autonomia, dalla perdita di funzioni importanti, cioè dalla privazione certo di alcune attribuzione biologiche ma anche dalla privazione di quelle più semplicemente esistenziali. (…)
Cioè la perdita della dignità di un malato oltre il dolore, procede con la perdita crescente della sua umanità, della sua relazionalità, della sua condizione di persona (…) Che la sedazione continua e profonda sia un trattamento che non porta alla morte è vero, ma è altrettanto vero che essa prefigura di fatto una condizione di premorte, determinata dalla perdita della coscienza. La perdita della coscienza biologicamente non equivale alla morte ma dal punto di vista morale sì. (…) Il problema nuovo, quindi, che sorge è quello che chi non ha coscienza non ha il problema della dignità perché non è in grado di percepirne la mancanza” .
Mi soffermo su questi passaggi perché l’affermazione di Cavicchi da come assodato il concetto che la dignità umana si risolva in un complesso di diritti senza alcuna petizione di principio in cui la dignità umana possa trovare il suo spazio vitale indipendentemente dai diritti. Faccio notare che se ricomprendiamo il concetto di dignità tutto nel diritto, ne favoriamo la vacuità retorica e di fatto la sua inutilità. Mi chiedo allora, ma la nozione di “dignità umana” non è logicamente antecedente a quella dei diritti umani? Che cosa permette ai diritti umani di avere queste particolari caratteristiche se non il fatto di essere diritti propri di un essere dotato di una particolare dignità?
Il nostro codice deontologico richiama all’ articolo 3 il concetto di dignità separandola dalla liberta del soggetto attribuendole così un significato più ampio della somma dei suoi diritti. E’ una impostazione etica cha al contrario del diritto non ha mai separato i fatti dai valori. Nel diritto, concetti ontologici e antropologici-filosofici sono presenze non gradite. Scrive Pulitanò a proposito del diritto ….. Un’analisi formalmente wertfrei ( libera dai valori) – che eviti di far poggiare l’impresa conoscitiva su giudizi di valore – può e deve essere in grado, utilizzando appropriate categorie concettuali e facendo parlare i dati di fatto, di rendere riconoscibili i valori in gioco ed il modo in cui il legislatore li abbia messi in gioco…………………… I giudizi di valore potranno seguire.
La teoria giuridica, e i diritti umani sono giuridici a tutti gli effetti, aspira alla indipendenza da basi non giuridiche e quindi dalla morale. Da medico però constato che se oscuriamo la componente ontologica della dignità umana e ne facciamo solo il risultato dell’agire umano e dei diritti che lo supportano, si oscurano anche i doveri per altri esseri umani per i quali la dignità umana non obbedisce ai criteri funzionali del diritto, ciò vale per gli esseri umani che sono impediti in modo grave o totale dall’esercizio attuale delle facoltà razionali e morali.
Nel 1920 l’autorevole medico tedesco
Alfred Hoche rispondeva affermativamente alla domanda del grande giurista
Karl Binding che in punta di diritto si chiedeva “Esistono vite umane che hanno perduto a un punto tale la loro qualità di bene giuridico che la loro prosecuzione non possiede più alcun valore per loro stesse e per la società?". Nel decennio successivo , senza una particolare legislazione, si attuava il programma Aktion T4 di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da handicap mentali, le cosiddette "vite indegne di essere vissute" (lebensumvertes leben).
L’aiuto al suicidio attivo da parte del medico con “raziocinio e pieta” ovvero la Gnadentod richiamando altri tempi (morte caritatevole) non rischia di sancire un principio secondo cui l’unica vita degna è la vita del soggetto in grado di esprimere il proprio consenso nella scelta tra il diritto di vivere e il diritto all’autodeterminazione di morire togliendo valore alle altre esistenze? Se disancoriamo la nozione di vita da qualunque valenza giusnaturalistica e la analizziamo semplicemente sotto la lente della concretezza e dell’immanenza , non c’è il rischio di una progressiva deriva tale da farci ricadere nella “damnatio memoriae” dei fatti accaduti in Europa nella prima metà del secolo scorso? Come ho già chiarito si sta profilando una indeterminatezza dei limiti del potere di autodeterminazione, potere che sembra libero di espandersi in ogni direzione e in misura indefinita. Il diritto alla vita deve cedere il passo al diritto alla autodeterminazione.
Se sarà conservato un orientamento giuridico di questo tipo, ogni tentativo di limitare l’arbitrio del singolo in nome della dignità umana è destinato a scontrarsi con la sancita supremazia del diritto all’autodeterminazione. A tal proposito scrive
Francesco D’Agostino: «Il valore che sta a fondamento dell’etica, cioè il bene, e quello che sta a fondamento del diritto, cioè la giustizia, hanno una struttura relazionale: dipendono dall’oggettività del rapporto e non dalla volontà soggettiva di chi del rapporto è parte. […] L’autodeterminazione, da impegno consapevole e quindi meritorio, per il bene, diviene arbitrio insindacabile. E a questo punto la paranoia della modernità diviene di fatto un vero e proprio delirio […]; perché l’autodeterminazione, pensata nella logica libertaria e non liberale dell’insindacabilità delle preferenze soggettive, trasforma i diritti dell’uomo nei diritti dell’io».
Mi chiedo allora come si potranno arginare le mutilazioni genitali femminili, la sterilizzazione volontaria irreversibile, la commercializzazione di parti del proprio corpo e cito solo alcuni casi divenuti “classici” del dibattito bioetico ? . Finora queste pratiche hanno incontrato il limite della dignità umana quale bene indisponibile anche in presenza di consenso pienamente informato. Mi chiedo con Mauro Ronco …. può … l’ordinamento giuridico …….. trasformare in “diritto” la mera libertà di fatto di distruggere il bene che costituisce la ragione per cui il diritto sussiste ?
Se con l’autodeterminazione “terapeutica” la persona può disporre anche della vita che è stato il bene indisponibile per eccellenza, come può la dignità, che è evidentemente un attributo della vita, costituire un limite? Quale spazio rimane per il rispetto della dignità umana nella sua ontologia?
La post-modernità si muove nell’ambito di un soggettivismo sempre più esasperato e seguendo questa falsariga è giunta a fondare una cultura in cui l’individuo e la società vivono nel più completo distacco dal reale. Oggi la doxa viene prima dell’episteme, per cui l’individuo e la società pretendono di “creare” il reale secondo le proprie esigenze. In questo contesto si sviluppa la società “dei diritti”, dove non si ricerca più il loro fondamento ontologico, ma si risponde esclusivamente allo “spirito del popolo” di hegeliana memoria, che ha perso ogni collegamento con la legge naturale.
Se la società rivendica, sulla base del proprio “sentire”, come diritto ciò che fino ad oggi è stato giudicato, sulla base dell’evidenza, un delitto, mi chiedo allora: se il diritto cede, anche la medicina deve cedere?
Maurizio Benato
08 maggio 2019
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