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Il “tempo giusto” per gli Stati generali della professione medica

di Giacomo Delvecchio

Un popolo in cammino: questo sono gli Sati generali: di fronte agli esiti paradossali della modernità tecnocratica che sempre più può fare ma sempre meno sa darsi la direzione e la regola, tanti medici intenti a re-inventare, senza utopie ma contro ogni distopia, il limite e le opportunità della medicina di oggi per il medico e per il cittadino malato di domani, rinnovando il giuramento etico, che diventa mandato pubblico e politico di essere il garante della salute

22 MAG - Gli antichi avevano il kairòs, una parola necessaria per dire un tempo particolare nello scorrere del tempo, una parola che dice il momento giusto. Anche per i medici è giunto il tempo giusto; il momento opportuno è adesso per riflettere a fondo su una professione che dalle origini ha sempre avuto il duplice mandato di esercitare la cura per i singoli e di essere irrinunciabilmente destinata a produrre benessere sociale. Però questa professione così particolare nella sua vocazione – non a caso questo termine è elettivamente riferito al medico e al sacerdote - oggi è in crisi.
 
Crisi della medicina: espressione abusata ma appropriata per indicare un’insufficienza della professione nell’assolvere il suo mandato. Poiché la medicina non costituisce un microcosmo a sé stante nella società civile, la crisi della medicina potrebbe essere intesa come il rispecchiamento di un’analoga condizione che sarebbe presente nella società nel suo complesso e di cui la medicina è solo un’articolazione. Sarebbe più opportuno in questo caso parlare di medicina della crisi. È però più proficuo, parlando da medici e tra medici e intendendola alla stregua di un sintomo, parlare di medicina come crisi.

Esistono almeno due significati diversi attribuiti alla parola “crisi” in medicina. Nel lessico medico indica il cambiamento improvviso di una condizione morbosa [1]; nel lessico comune indica la percezione sociale di una condizione di deterioramento con instabilità e decadenza [2]. Per tanti le due definizioni sono unite: la medicina odierna verserebbe in uno stato di crisi profonda acuitasi per crisi.

Se si guarda a questa condizione da una più ampia prospettiva storica non vi si scorge nulla di nuovo. Che i rapporti tra medicina e società civile non abbiano mai lamentato crisi nei tempi passati è condizione che non risponde al vero; basti guardare a come la classe medica fosse uscita provata dall’epoca dei lumi [3]. Quel che però colpisce sono l’attualità e la dimensione della crisi attuale. Per l’attualità basti pensare che proprio quest’epoca ha visto la vita allungarsi come mai nel passato per popolazioni in virtù della medicina igienistica e per moltitudini in virtù della medicina terapeutica. La dimensione, a sua volta, è ampia nella collezione dei molti fatti che vengono lamentati e che per la loro numerosità, pur tralasciandone l’amplificazione massmediatica con i riverberi negativi nell’immaginario collettivo e nelle aspettative delle persone, non possono più essere definiti come eventi sentinella.

Ma “crisi” ha un terzo significato: la crisi è anche un’opportunità, è una categoria implicante un ripensamento. Per questo la crisi della medicina va affrontata proprio come si affrontano gli eventi sentinella nella best practice. In altre parole, la crisi della medicina non può essere affrontata ex post, ossia con atteggiamenti che, sebbene comprensibili, sono banalmente reattivi e strutturalmente riparativi ma deve essere affrontata a viso aperto con coraggiosi interventi proattivi. Si tratta, insomma, di fronte alla crisi, di avviare un processo di cambiamento.

Questo processo non può essere avviato né sostenuto dalla medicina in quanto scienza, ma, piuttosto, chiama in causa i medici. Perché non c’è medicina senza medici. E oggi i medici, con gli Stati generali della professione aperti dal Presidente Filippo Anelli, si sono chiamati in causa per riflettere, partendo dalle 100 tesi affidate dalla FNOMCeO a Ivan Cavicchi, sulla crisi della loro professione. Al riguardo già Ornella Mancin ha riportato su questo giornale una sintesi dello “straordinario” “viaggio verso il cambiamento iniziato” [4], e non è il caso di ripetere quanto è già stato scritto.

Però, riflettere sulla crisi della professione medica vuol dire riconoscere che gli uomini e le donne che esercitano la professione hanno perso il controllo della loro professione o, quanto meno, dell’immagine della loro professione nei rapporti continuativi con i loro interlocutori, che sono il malato e i suoi famigliari e la società civile.

Riflettere sulla crisi della professione medica vuol dire affrontare un problema complesso. Dopo “crisi”, non a caso, “complessità” è la parola che più frequentemente è stata pronunciata agli Stati generali.

Complessità è una parola dai molti significati tra cui, in prima battuta e per i nostri fini, vi è quello di indicare la sovrapposizione di piani disciplinari multipli e interdipendenti tra loro per un unico scopo. In altre parole la pratica della medicina è un esercizio complesso perché con la sua scelta motivata (causa efficiente) e con la sua azione finalizzata alla cura (causa finale) il medico agisce contemporaneamente il livello della scienza, il livello della tecnica, il livello della relazione, il livello dell’organizzazione, il livello dell’economia, il livello della deontologia, il livello dell’etica. E l’esito della cura, indipendentemente da quale esso sia, scaturisce ogni volta e per ogni situazione solo dall’intersecarsi di tutti questi livelli. Ed è ancora dall’intersecarsi di tutti questi livelli che, ma solo dopo che è stato dato, si definisce la bontà o meno dell’esito dell’atto di cura. Per questo si dice che nei sistemi complessi l’esito è più (ma aggiungiamo noi: anche meno) della somma delle parti. Con due fattori di complessità ulteriori.
 
La prima è legata al concetto di bontà che è definito in maniera plurale (e a volte contraddittoria) a seconda dei livelli di cui si diceva e che vengono assunti come prioritari a seconda di chi sceglie e decide: medico, malato, familiari, organizzazione sanitaria, società pagante; la seconda è connaturata alla moderna società liquida, termine ad effetto che ben descrive una certa condizione odierna, in cui, da una parte, si confondono uguaglianza e libertà, libertà e diritti e diritti e desideri e in cui, dall’altra parte, si confondono autonomia e potestà in modo che il cittadino malato da paziente è diventato un esigente e il medico, viceversa, è strumento per una soddisfazione che deve essere sempre garantita.
Ben si comprende come questa condizione sia fonte di rapida trasformazione di ruoli, di compiti e di mansioni e, alla fine, sia foriero di incertezze e di disagio.

Traguardare il futuro attraverso il disagio odierno: questo lo scopo che ci si è dati agli Stati generali. Per questo ogni tavolo di lavoro cui l’assemblea con conduttori ed esperti era suddivisa ha concluso, all’insaputa l’uno dell’altro ma con piena consapevolezza e con spontanea sinergia di intenti, con la terza parola che ha caratterizzato questa fase degli Stati generali e la sua prima conclusione: formazione.

Mai come in questo momento storico la professione del medico ha bisogno di formazione; una formazione che declini la figura del medico del futuro salvaguardando l’esperienze dell’oggi, a maggior ragione per quanto riguarda il profilo di quel medico che ha e avrà il compito di essere il primo e il diretto interlocutore del cittadino. Non c’è da inventare nulla ma c’è da aggregare, consolidare, diffondere quanto di nuovo sta già venendo avanti nella professione. È la sfida qualificante lanciata alle Agenzie formative in sanità, oltre che alle rappresentanze ordinistiche.

Formazione, quindi; ma non di una formazione formale tecnico-applicativa di metodiche che si può recuperare con facilità per un aggiornamento continuo; la professione ha bisogno di una delicata formazione riflessiva su di sé ossia, per essere precisi, sui suoi fondamentali che sono epistemologici e antropologici. I primi trovano la loro ragione nel metodo clinico che è filiazione del metodo scientifico; i secondi trovano la loro ragione nella deontologia che è filiazione del mondo dei valori.
 
Entrambi, metodo e valori per quanto riferimenti immutabili per chi voglia ben operare, sono calati nel cambiamento: la scienza medica positivista sta lasciando sempre più il campo a visioni fallibiliste del sapere e della verità; la deontologia dottrinaria (e apodittica?) sta lasciando anch’essa progressivamente il campo a visioni storicistiche e situazionali del bene e del buono, sapendo che sopra tutto aleggia la legge che distribuisce il giusto. Anche se ripartire in parti uguali fra tutti il bene e il giusto in una società relativistica è oltremodo difficile. A questi cambiamenti il (nuovo) medico deve essere formato per continuare ad essere attore scientifico e agente morale di fronte la malato e alla società; in breve, per continuare a esercitare una professione intellettuale con le responsabilità sociali che questa comporta, a meno che non voglia confinarsi per il futuro in un mestiere tecnologico a fianco e a surrogato di una macchina.

Di tutto questo e di altro ancora si è cominciato a discutere agli Stati generali: di monopolio del sapere scientifico e dei suoi custodi non più riconosciuti ma delegittimati da diffuse posizioni antiscientifiche, di degradazione del rapporto medico-paziente con perdita di autonomia del medico e con imposizioni anche violente da parte del malato, di frammentazione dei legami sociali con svilimento di ruolo e di status, di intrusioni “giustizialiste” e risarcitorie per irreversibili decorsi morbosi e/o esiti sfavorevoli delle terapie, di precarietà e di proletarizzazione del mestiere, del paradosso di residue “cattive” pratiche paternalistiche di cura che pure si accompagnano a buone pratiche terapeutiche, di errori e di sbagli e di responsabilità e di colpe, di relazioni alessitimiche tra colleghi, di rapporti burocratici con l’amministrazione e l’istituzione, di carichi di lavoro e di burn-out. Di fronte a queste condizioni si palpava in aula una presenza: quella della fatica di fare il medico nella società di oggi. Ma si è discusso anche di altro con molto entusiasmo e con tanta passione: di buone pratiche di assistenza, di ricomposizione duale del rapporto terapeutico, di soddisfazione per una professione che ha dentro di sé radici di solidarietà, di ricambio generazionale e di femminilizzazione della professione.

In conclusione, dalla nostalgia del passato non ne può derivare la paura del futuro; da un dibattito franco acceso dalla volontà di comprendere le ragioni di tutti e condotto nella fiducia che viene dalla conoscenza della storia della medicina e dei cambiamenti nella professione, deriva la certezza che in ogni epoca il mestiere di medico non è mai stato uguale a quello dell’epoca che l’ha preceduta. Per dirlo con una metafora, si è come nell’attraversamento del Mar Rosso: alcuni un poco più avanti già verso la terra promessa e altri un poco più indietro in terra d’Egitto ma comunque tutti insieme, in crisi “di crescenza” (così avrebbero diagnosticato – curiosamente: una parola questa che non si è sentita agli Stati generali - i vecchi pediatri come di fronte a certe febbri giovanili sine materia) perché non si è più quel che si è lasciato e non si è ancora quel che stiamo costruendo. È il destino della professione nel divenire della società.

Un popolo in cammino: questo sono gli Sati generali: di fronte agli esiti paradossali della modernità tecnocratica che sempre più può fare ma sempre meno sa darsi la direzione e la regola, tanti medici intenti a re-inventare, senza utopie ma contro ogni distopia, il limite e le opportunità della medicina di oggi per il medico e per il cittadino malato di domani, rinnovando il giuramento etico, che diventa mandato pubblico e politico di essere il garante della salute, diritto umano fondamentale per tutti fin dai tempi della Dichiarazione di Alma Ata [5]. Il tempo per farlo è adesso perché, se non ora, quando? E se non noi, chi?

Giacomo Delvecchio
ATS Bergamo, Società Italiana di Pedagogia Medica, Fondazione Pietro Paci

 
1 Rumolo R., Vitolo E. (a cura di), Dizionario medico Dompé, Masson, Milano 1992 pp. 458-459
2 crisi: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/C/crisi.shtml
3  Betri M.L., La crisi del ruolo medico, Federazione medica 1987;XL;685-688
4  Mancin O., Professione medica. Il viaggio verso il cambiamento è iniziato, quotidiano sanità, 20 maggio 2019
5  Declaration of Alma-Ata, International Conference on Primary Health Care, Alma-Ata, 6-12 September 1978, https://www.who.int/publications/almaata_declaration_en.pdf
 

22 maggio 2019
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