Corte dei conti condanna un medico a risarcire 140mila euro all’Ao che li aveva anticipati come risarcimento per danni subiti da una donna durante il parto
I magistrati (sentenza 368/2019, Corte dei conti sezione Calabria) hanno condannato il medico al rimborso nei confronti dell'azienda riconoscendone la responsabilità per imperizia, nonostante il sanitario non fosse stato preliminarmente informato della transazione tra ospedale e paziente, come previsto si debba fare in base alla legge Gelli. E questo perché il fatto era antecedente all'entrata in vigore di quella legge e la norma non può essere in alcun modo retroattiva. LA SENTENZA.
25 OTT - La legge 24/2017 non c’entra in quanto i fatti si sono svolti prima della sua approvazione. Mentre l’imperizia del medico e una serie di errori “grossolani” hanno convinto la Corte dei conti a condannare il sanitario (sentenza 368/2019, Corte dei conti sezione Calabria) al rimborso di 140.000 euro (più gli interessi di legge e le spese legali) nei confronti di un’azienda ospedaliera che aveva già anticipato la somma a una paziente che oltre ad aver perso il feto aveva subito anche l’asportazione dell’utero.
In sede penale la procura aveva chiesto l'archiviazione del procedimento perché comunque il medico aveva seguito le procedure corrette, seppure in forte ritardo, quindi niente negligenza, ma solo imperizia secondo la Corte dei conti.
Il fatto
Una donna alla trentatreesima settimana di gravidanza, si recava presso il Pronto Soccorso di un’Azienda Ospedaliera con persistenti dolori pelvici interno alle 7 del mattino. Veniva ricoverata presso l’Unità Operativa di Ginecologia e Ostetricia e presa in carico dal dirigente medico di turno, con la diagnosi di “minaccia di parto prematuro”. Alle 08,10 veniva sottoposta a consulenza ginecologica specialistica che confermava la diagnosi di ingresso e il medico richiedeva analisi urgenti (urgenza legata anche al fatto che essendo domenica era il modo per poterle far eseguire prontamente).
Da questo momento il parto cesareo e la conseguente asportazione oltre che del feto deceduto dell’utero è avvenuta intorno alle 14,55. E solo dopo che era stata segnalata una sospetta “HELLP”, una sindrome indicata con un acronimo inglese, caratterizzata dal ricorrere, in via alternativa o cumulativa, di emolisi (hemolysis), aumento degli enzimi epatici (elevated liver enzyme levels) e riduzione del numero di piastrine circolanti o trombocitropenia (low platelet count).
La sentenza
La difesa del medico portava avanti la tesi che il ritardo e le conseguenze legate a questo (la perdita del feto e l’asportazione dell’utero) fossero dovute alla disorganizzazione della struttura e che comunque, basandosi sulla legge 24/2017, il medico non sarebbe stato avvisato dell’instaurazione del giudizio.
Ma la Corte dei conti non è stata di questo avviso. Per quanto riguarda la legge 24/2017 perché i fatti sono antecedenti alla sua entrata in vigore e quindi la richiesta risulta inaccettabile.
Per quanto riguarda i fatti accaduti, perché i magistrati hanno ritenuto quello del medico “un comportamento riprovevole in quanto non rispondente perfettamente alle regole della scienza e dell’esperienza, unitamente a una serie di errori indubbiamente non scusabili per la loro grossolanità o per l’assenza di cognizioni mediche fondamentali attinenti alla professione”, giudicandoli elementi idonei “a qualificare l’elemento soggettivo della colpa grave nella condotta del sanitario”.
Secondo la Corte “il nesso di causalità tra la condotta dell’operatore sanitario e l’evento dannoso sussiste anche quando l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili probabilità di successo”.
La Procura erariale contesta al medico diversi profili di negligenza, imprudenza e/o imperizia. In particolare, si legge nella sentenza, il medico “a fronte di una diagnosi di ingresso di ‘minaccia di parto prematuro’, non avrebbe ordinato l’esecuzione immediata di una ecografia ostetrica approfondita, ma si sarebbe adoperato in tal senso soltanto alle ore 13,00, dopo aver preso visione dei valori ematici; in secondo luogo, pur avendo ordinato l’esame emocromocitometrico, definendolo “urgente”, non ne avrebbe sollecitato l’esecuzione, sicché il referto delle analisi, inviato alle 10:15, sarebbe stato esaminato soltanto alle 13,00; infine, a fronte di una sospetta “HELLP”, non avrebbe proceduto all’esecuzione immediata del taglio cesareo, ma avrebbe atteso l’arrivo del primario”.
Inoltre, secondo i magistrati della Corte “il ritardo nell’esecuzione dell’ecografia e degli esami emocromocitometrici avrebbe impedito di diagnosticare tempestivamente la sindrome ‘HELLP’, che avrebbe a sua volta causato il distacco della placenta, la morte del feto e l’infarcimento dell’utero, con la conseguente necessità di procedere all’isterectomia totale”.
E anche dopo la richiesta di esami ed analisi secondo la sentenza “la condotta successiva dimostra come, in realtà, la gravità della situazione sia stata sottovalutata fin dall’inizio. A seguito della lettura delle analisi, il medico ha temuto che ricorresse una sindrome HELLP, com’è confermato dalla scheda di consenso informato sottoscritta dalla paziente e controfirmata da lui stesso. Nonostante il sospetto che ricorresse una sindrome di estrema gravità come l’HELLP, ha ingiustificatamente ritardato nel procedere all’esecuzione del parto cesareo, procrastinandolo per quasi due ore”.
La sentenza aggiunge anche che il medico “aveva pesantemente sottovalutato la gravità della situazione e la necessità di intervenire con estrema urgenza, sicché aveva preferito rinviare l’intervento non in attesa della stabilizzazione della paziente e dell’arrivo del plasma congelato, ma perché riteneva che non vi fosse alcuna ragione per adoperarsi prima dell’arrivo del primario”.
Inoltre, dalla ricostruzione della vicenda emerge che il medico ha “gravemente sottovalutato la delicatezza della situazione fin dall’inizio; è questa la ragione, per la quale non ha proceduto con immediatezza ad un esame ecografico approfondito, non ha sollecitato le analisi, non si è affrettato a prenderne visione ed ha procrastinato l’intervento per quasi due ore. La condotta del convenuto è qualificabile come caratterizzata da colpa grave”.
La Corte dei conti conclude quindi nella sentenza che ”si ritiene che la condotta del medico abbia assunto efficacia determinante nella produzione dell’evento dannoso. Non si reputa, pertanto, di dovere rideterminare la somma in virtù dell’esercizio del potere riduttivo, sia per la sequela di errori inescusabili che ne hanno caratterizzato la condotta, sia per l’amplissimo arco temporale in cui egli non ha provveduto a monitorare adeguatamente la paziente, sollecitando la consegna dei risultati delle analisi”.
Quindi condanna il medico “al pagamento della somma complessiva di € 140.000,00 (centoquarantamila/00), in favore dell’Azienda Ospedaliera, oltre alla rivalutazione monetaria dall’evento lesivo e fino alla pubblicazione della presente sentenza, oltre agli interessi legali sulla somma così rivalutata, da quest’ultima data e fino al soddisfo.
E “pone a carico del convenuto le spese di giudizio, che liquida, fino al deposito della presente sentenza, in complessivi € 791,51”.
25 ottobre 2019
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