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Colpa grave per il medico che non prescrive il test antirosolia per accertare immunità partoriente


Secondo i giudici il medico che non prescrive alla paziente l'indagine sull'immunità alla rosolia agisce con negligenza, se è consapevole che la donna, in età fertile, desidera una gravidanza ed è quindi responsabile se la paziente, una volta rimasta incinta, si ammala e abortisce per il rischio di malformazioni del feto. LA SENTENZA

04 GEN - I test ordinari in una gravidanza vanno eseguiti e il medico che non prescrive quello per verificare l’immunità dalla rosolia sbaglia ed è perseguibile penalmente.

A stabilirlo è la sentenza 51479/2019 della Cassazione (quinta sezione penale), che ha ritenuto per questo responsabile un medico del fatto che una paziente rimasta incinta non abbia eseguito il test non prescritto (negligenza), si sia ammalata e abbia abortito per il rischio di malformazioni del feto. E ha annullato la sentenza della Corte d’Appello – a cui ha rinviato la decisione – ma non per assolvere il medico, per spiegare meglio semmai il nesso di casualità e il fatto che non si tratta di colpa lieve – come anche specificato dalla Corte di Appello - ma di colpa grave.
 
Il fatto
 
Durante una visita medica presso lo studio dell'imputato, la donna manifestò la sua intenzione di affrontare, a breve, una gravidanza (che il medico invece descrive come “generica manifestazione dell'intenzione di procreare da parte della persona offesa”.

Nella cartella clinica si fa riferimento all'annotazione del successivo appuntamento a giugno 2012, alla dizione "ricerca di prole da dicembre 2011"; all'assunzione solo a gennaio 2012 dell'acido folico prescritto dal 6 luglio 2011; alla sospensione dell'assunzione di contraccettivi sulla base di autonoma decisione della donna, che vi aveva riconnesso, senza consultare alcun medico, manifestazioni tachicardiche; all'assenza del marito a quella visita; al tardivo ritiro dei test di gravidanza praticato presso l'ospedale.
Nella vicenda però si evidenzia la violazione dell'art. 40 cod. pen. in relazione all'art. 17, legge n. 194/1978 con riferimento al nesso causale tra la condotta omissiva dell'imputato e l'evento abortivo, non essendo stata raggiunta la certezza processuale (in termini di elevata probabilità logica della decisione) che la persona offesa, nel caso in cui fosse stata tenuta la condotta doverosa da parte dell'imputato, avrebbe eseguito il test antirosolia.

E anche la violazione dell'art. 43 cod. pen. con riferimento all'omessa inclusione della negligenza quale ipotesi integrabile la colpa lieve, nei casi, come quello in esame, in cui non vi sia stata violazione delle linee guida, che, appunto, prevedono il test antirosolia.
 
La sentenza

In sostanza secondo i giudici il medico che non prescrive alla paziente l'indagine sull'immunità alla rosolia agisce con negligenza, se è consapevole che la donna, in età fertile, desidera una gravidanza ed è quindi responsabile se la paziente, una volta rimasta incinta, si ammala e abortisce per il rischio di malformazioni del feto.

“La Corte distrettuale – spiega la sentenza della Cassazione -  è pervenuta al convincimento che l'intenzione di procreare nell'immediato fu chiaramente esposta dalla donna e che il medico ne ebbe piena contezza, tanto da prescriverle l'acido folico”.

La Corte d’Appello ha quindi argomentato le ragioni per le quali non si è in  presenza  di colpa  lieve (secondo la legge Balduzzi),  replicando ai motivi di appello,  che tendevano  a escludere il  giudizio  di gravità  della colpa.

La sentenza impugnata ha considerato non lieve la negligenza del medico che, a fronte della prospettata volontà della paziente di procreare “ha omesso di prescrivere una indagine diagnostica del tutto ordinaria, in vista di una possibile gravidanza. Ha escluso che si trattasse di imperizia, per la insussistenza di specifici protocolli, e ha inquadrato la condotta dell'imputato nell'ambito di una più ampia negligenza considerando che l'indicazione clinica del test per verificare l'immunità dalla rosolia  di  una  donna  in  procinto  di  avere  figlio  appartiene  alla cognizione comune  e  costituisce  dato  ovvio  per  un  medico”.

La Cassazione ha quindi ribadito i parametri valutativi della condotta del medico che permettono di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave:
- la misura della divergenza tra la condotta tenuta e la condotta attesa;
- la misura del rimprovero personale, sulla base delle condizioni specifiche dell'agente (del medico);
- la motivazione della condotta;
- la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa.

La sentenza chiarisce che “si imputa al medico la violazione di regole di diligenza, nella specie, ritenuta non lieve, anzi inescusabile, a fronte della situazione di fatto che si era manifestata al medico attraverso la dichiarata intenzione della paziente di procreare. Al cospetto di una tale prospettazione, da parte di una donna fertile, secondo la Corte di appello, a prescindere dai tempi, prossimi o più lontani, in cui la stessa avrebbe dato concreta attuazione a tale volontà, il medico non poteva prescindere dal prescrivere il test immunologico in questione, trattandosi di un esame di routine da espletarsi preventivamente, ovvero in tempo utile per prevenire rischi di malformazioni fetali, in caso di gravidanza. Rientra, infatti, nei compiti del medico verificare preventivamente quali accertamenti la paziente abbia già effettuato, prescrivendo l'esecuzione di quelli mancanti, in tempi utili per prevenire, grazie a essi, rischi specifici. L'avere omesso di prescrivere un test tanto ordinario, nella situazione concreta descritta, non consente, pertanto, di configurare come lieve la colpa medica in questione”.

Secondo la Cassazione “in tema di reati omissivi, l'accertamento del nesso di causalità richiede che, ipotizzandosi, con giudizio ex ante, riferito cioè alle condizioni di fatto del momento dell'omissione, il compimento dell'azione doverosa e omessa, e esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, si possa concludere, con elevato grado di credibilità razionale, che l'evento non avrebbe avuto luogo; questo significa che, nella verifica del rapporto di causalità, l'ipotesi scientifica o la massima di esperienza generalizzata devono avere un elevato grado di conferma e le ipotesi alternative devono essere ragionevolmente escluse”.

In questo caso, spiegano i giudici, occorre accertare se il test (doveroso) avrebbe bloccato il processo causale sfociato nell'evento.

“Compito del giudice di merito – sottolinea la sentenza - sarebbe stato indicare le ragioni per le quali si è attribuita alla mancata prescrizione una significativa incidenza sulla scelta abortiva, tale da far ritenere la sussistenza del nesso causale tra omissione e l'aborto medesimo.  Tale compito non è stato, tuttavia, adeguatamente assolto dalla Corte di appello che non ha fatto corretta   applicazione   dei  principi   di  diritto  sopra  menzionati. Si afferma, infatti, nella sentenza impugnata, che la scelta di abortire, da parte della paziente fu la inevitabile conseguenza dell'avere contratto la malattia, anche perché  la donna si era rivolta al medico proprio per timore di malformazioni fetali e in passato aveva dimostrato di non avere pregiudiziali ideologiche verso  le pratiche abortive. Pertanto, nel caso di specie, la scelta  di ricorrere all'aborto, in caso di malformazioni fetali, era necessitata e prevedibile con certezza, anche perché tutto il comportamento della paziente era stato improntato a evitare malformazioni del feto, motivo che fu alla base della visita del 6 luglio 2011, né risultava una sua pregiudiziale ostilità alla somministrazione del vaccino”.

La verifica della sussistenza del nesso causale tra omissione ed evento deve essere effettuata, non secondo un coefficiente probabilistico, ma in termini  di certezza  processuale, mentre la sentenza della Corte d’Appello non spiega dove il nesso causale è ricostruito “facendo riferimento alla verosimile condotta che la paziente avrebbe tenuto se le fosse stato prescritto il test antirosolia.

La Cassazione si riferisce a circostanze come la scelta della donna di interrompere l'assunzione di anticoncezionale, “non per favorire la procreazione, ma per i ritenuti effetti collaterali negativi; a quella di iniziare l'assunzione dell'acido folico solo nel gennaio 2012, ovvero molti mesi dopo la prescrizione medica, quando, cioè, era già gravida; all'avere ritirato il referto del test di gravidanza con molti giorni di ritardo; all'avere già fatto ricorso, in passato, all'aborto, non per necessità terapeutiche, ma per evitare una gravidanza indesiderata”.

La Corte di Appello avrebbe dovuto valutare secondo la Cassazione questi elementi e avrebbe dovuto verificare “la tenuta della massima di esperienza secondo cui chi si rivolge al medico ne segue le prescrizioni nella situazione specifica portata all'esame dei giudici, nella quale erano stati, invece, segnalati dalla difesa comportamenti della persona offesa apparentemente dissonanti con tale percorso logico”.

Quindi la Cassazione ha annullato la sentenza e l’ha rinviata ad altra sezione della Corte di Appello per nuovo esame del requisito del nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l'aborto praticato, “da effettuarsi alla lue dei richiamati principi”.
 

04 gennaio 2020
© Riproduzione riservata

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