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Coronavirus. La responsabilità nell’emergenza: non ‘scudi’, ma regole

di Maurizio Hazan e Luigi Isolabella

Aggiungere alla forzata esposizione al rischio per la propria incolumità personale, il potenziale assoggettamento a nuove campagne accusatorie appare inaccettabile. Occorre un intervento legislativo che enuclei la condizione emergenziale quale contesto peculiare e assorbente e preveda nel suo ambito la rilevanza della “sola” colpa grave, definita secondo parametri coerenti alla situazione attuale. Il tutto senza 'scudare' alcunché, né emendare responsabilità inemendabili

15 APR - Occorre miglior coesione e comunione di intenti. E’ il tempo dell’unione e non delle divisioni. E tantomeno della retorica. E’ il tempo di mettere in sicurezza il nostro Sistema Sanitario, sostenendolo nel suo insieme e sorreggendolo nella sfida più dura e dolorosa che la storia moderna, in tempo di pace, abbia mai conosciuto.
 
Il Covid, sfuggente ed ancora poco decifrato, non conosce linee guida o buone pratiche alle quali commisurare la diligente presa in carico dei singoli pazienti da parte degli operatori della sanità. Ma anche sul (prioritario) versante della sicurezza delle cure e della gestione del rischio, non vi è dubbio che questa emergenza abbia scompaginato tutte le organizzazioni, costringendole ad inseguire urgenze che solo il tempo potrà trasformare in esperienze, prima, ed in regole, poi.

Entro questi confini mobili sarà facile trovare pertugi accusatori, attraverso i quali utilizzare la leva della responsabilità come sistematico surrogato di altri e diversi rimedi solidaristici: di fronte ad un tessuto sociale che uscirà da questa crisi certamente provato, la caccia al responsabile rischia di diventare un esercizio sin troppo facile, ma estremamente pericoloso, perché idoneo a minare, oltre che la sostenibilità del sistema sanitario, la fiducia di chi, tutti i giorni, ha messo in gioco sé stesso per fronteggiare un avversario sfuggente e molto più forte di quanto si potesse prevedere.
 
Qualcosa può certamente non aver funzionato. Col senno di poi è facile dire che si sarebbe potuto/dovuto fare meglio: ma guardando con onestà ai limiti connaturati al nostro agire collettivo, individuale, pubblico e privato, non può non prendersi atto di quanto questa pandemia abbia stravolto l’intero globo terraqueo, mettendo in ginocchio sistemi che ci additavano come untori e si dichiaravano pronti a reggere, meglio di noil’urto del Covid.

Questo non significa essere fatalisti né tantomeno immaginare un sistema che, a fronte della gravità del momento, debba vivere di una propria immunità giuridica, ed andare sempre e comunque esente da censure. Non sia mai.

Per questo, parlare di “scudo” è esercizio improvvido, semanticamente e letteralmente.

Non è di uno scudo quello di cui si ha bisogno.

Ma di regole: di regole calzanti ed adeguate allo stato attuale di un’emergenza che, lo abbiamo detto più volte, rende difficile e complesso anche quel che è facile e che abbatte le normali capacità di risposta anche per patologie diverse dal Covid, a fronte dello scompaginamento delle tradizionali modalità e priorità di intervento.

Regole, dunque. E non scudi. L’ipotesi, da taluno ventilata, di una limitazione delle responsabilità civili al solo caso di dolo paiono davvero stare e cadere con le loro premesse, non essendo immaginabile che le gravi colpe rimangano impunite.

Il problema sta semmai nell’esigenza di fare uscire il concetto di colpa grave dalle coltri di una discrezionalità giurisprudenziale che talvolta potrebbe rischiare di trasmodare in arbitrio. E che oggi più che mai dovremmo evitare, accogliendo con favore la possibilità - finalmente- di circostanziare, nei limiti del possibile, quella colpa grave che costituisce, del resto, misura e paradigma di quel che proprio -anche in emergenza- “non si può fare”, se non pagandone le conseguenze.

Un duplice paradosso pone poi, oggi, con evidenza schiacciante,la sostanzialità del problema e l’assoluta esigenza di porvi rimedio.

In primo luogo, gli importanti parametri che il nostro legislatore (legge “Gelli”) ha recentemente elaborato per limitare la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria alla categoria della colpa grave -la conformità della condotta terapeutica alle linee guida o alle buone pratiche cliniche- sono, di fatto,inapplicabili in una situazione emergenziale caratterizzata, come quella attuale, dall’esigenza di intervenire su una malattia assolutamente nuova in un contesto di “stravolgimento” operativoe organizzativo che impatta su tutti i settori e su tutti i livelli del mondo sanitario.


La conseguenza è che, venuto meno il riferimento a tali parametri,i criteri con i quali sarà valutata, la responsabilità del curante che opera nel contesto emergenziale rischiano, per assurdo, di rivelarsi più severi -e caratterizzati da maggiore e non controllabilediscrezionalità- rispetto a quelli applicabili nei riguardi di chi ha agito in un contesto ordinario.
 
Infatti, mentre nella normalitàl'operatore sanitario risponde sostanzialmente solo per colpa graveove dimostri di aver seguito le linee guida o di aver agito seguendo le buone pratiche mediche, nell’attuale contesto emergenziale, non esistendo reali parametri esperienziali sui quali potersi attestare, l'operatore potrebbe essere chiamato a rispondere per colpa lieve -anche ove abbia agito dando tutto se stesso, molto spesso fuori dal proprio ambito specialistico, rischiando la vita, consumandosi in turni estremi, salvando decine di vite umane- “solo” per il fatto di non essere, magari, riuscito a modulare in termini perfettamente adeguati l’ossigeno di uno dei 100 pazientiin relazione ai quali, in quello stesso, momento doveva garantire la massima e costante attenzione.


E’ opportuno sottolineare che tale maggior severità punitiva non costituisce il frutto di una ponderata riflessione normativa finalizzata all’irreale pretesa di una maggiore attenzione, ma rappresenta -molto più semplicemente- la conseguenza non voluta,non prevista e in realtà non prevedibile di un buco normativo o, meglio, dell’applicazione di una previsione normativa -l'art. 590 sexies c.p.- che, per quanto valida, mal si concilia con un'ipotesi emergenziale come quella che stiamo vivendo.

Così, ai tanto declamati eroi che ogni minuto rischiano la loro vita per salvare le nostre, l’ordinamento riserva, invece di un regime di responsabilità commisurato alla drammaticità del contesto in cui operano e alla novità e difficoltà dell’oggetto che devono affrontare, un trattamento ingiustificatamente più severo. Non solo! Oltre ad essere schiacciato da questo assurdo e del tutto squilibrato debito di responsabilità, il comparto sanitario (intesocome categoria generale, dal direttore generale al singolo operatore) è molto spesso chiamato ad operare senza nemmenodisporre degli adeguati strumenti di protezione individuale.

Ma il vero problema è che al primo paradosso se ne concatena un secondo, che -di fatto- manda in corto circuito tutto il sistema, paralizzandolo.

Mentre chi gestisce in prima linea la cura è ben consapevoledell’insostenibile peso di responsabilità che si ammassa ogni giorno sulle sue spalle, molti addetti ai lavori sul versante giuridico negano il problema, proclamando l’assoluta adeguatezza del sistema vigente.

Alcuni interventi pubblici di esperti del settore hanno sottolineato, infatti, la superfluità di un intervento normativo ad hoc volto aridefinire i confini della responsabilità professionale alla luce del contesto emergenziale, sostenendo che i criteri di recente formulazione legislativa siano più che sufficienti per garantire la tutela di chi si occupa della cura dei pazienti.
 
All’obiezione che il rispetto delle linee guida e l’osservanza delle buone pratiche mediche rappresentino, oggi, parametri irrealistici e ben difficilmente applicabili rispetto all’assoluta unicità del contestoin cui gli operatori sono costretti a lavorare, gli stessi esperti controbattono che, comunque, il Giudice dispone di tutti gli strumenti per commisurare la valutazione della condotta del medico alla peculiarità del contesto emergenziale (ricorrendo, sul punto, ad analogie forzate con emergenze -disastri ferroviari, sismici o terroristici- che, pur nella loro indubbia drammaticità, nulla hanno a che vedere, in termini di impatto sul sistema sanitario, con la situazione attuale).

Ora, anche noi siamo convinti che, pur senza poter applicare il richiamo a linee guida oggi inesistenti, vi siano spazi solidi di difesa, a fronte di attacchi che non tengano in adeguato delle straordinarie specificità della presente crisi emergenziale: straordinarie specificità che potrebbero indurre a mitigare o ad escludere ogni addebito di responsabilità in applicazione di una illuminata lettura anche dell’art. 2236 c.c., valorizzandone lelimitazioni al filtro di questa impellente e poco governabile urgenza che rende difficili anche le attività più semplici (Css. Pen. Sez. IV, n. 24528/2014).

Ma per quanto questo possa essere sostenuto, a livello di principio generale, riteniamo non sia questa la strada da seguire.

Proprio nel momento più difficile per tutte le categorie professionali del mondo della sanità (lo si ribadisce, dai vertici delle strutture ai singoli operatori), l’accertamento della responsabilità dovrebbe essere affidato a criteri tassativi e univoci finalizzati a limitare la discrezionalità -o meglio l’arbitrio- del giudicante, senza riconsegnare all’interprete la piena e indisturbata signoria nella definizione del fatto colposo.


Il principio di legalità non è il capriccio di un giurista nostalgico,ma piuttosto la struttura portante di tutto il nostro sistemaordinamentale, civile e maggior ragione penale, e l’amplissima discrezionalità con la quale -nelle aule giudiziarie- è stata troppe volte applicata -“ricreata”- la categoria normativa della colpa si pone in radicale antitesi con il dettato della nostra Costituzione.

E’ questo il motivo per cui la strada iniziata con il Decreto Balduzzi e proseguita con la Legge 24/2017 non può e non deve essere interrotta, tanto meno nel momento in cui gli operatori sanitari, a tutti i livelli, hanno più che mai bisogno di chiarezza e di certezza.

Aggiungere, alla forzata esposizione al rischio per la propria incolumità personale, il potenziale assoggettamento a nuove campagne accusatorie, favorite dalla contingenza del momento appare, oltre che patologico, oggettivamente inaccettabile.

Inaccettabile per l’operatore sanitario, che -soprattutto in questo momento- deve essere messo in condizione di lavorare senza ulteriori preoccupazioni, avendo ben chiari quelli che sono i limiti della sua responsabilità; inaccettabile per la collettività, che habisogno di un comparto concentrato esclusivamente sulla cura.

La soluzione del problema è -in realtà- molto semplice, precisa e immediata: un intervento legislativo che enuclei la condizione emergenziale quale contesto peculiare e assorbente e preveda nel suo ambito la rilevanza della “sola” colpa grave, definita secondo parametri coerenti alla situazione attuale, e il più possibile precisi e definiti.

Il tutto, si tiene a ribadirlo, senza “scudare” alcunchè, né emendare responsabilità inemendabili.

A tal proposito preme rilevare come in questi ultimi giorni vi sia stato un grande fraintendimento intorno ad alcuni emendamenti sin qui presentati prima confusi con altri certamente meno chiari e, poi, tacciati tutti -senza alcuna discriminazione- di aver azzerato, come un colpo di spugna, le responsabilità delle strutture, tanto verso i pazienti quanto verso i “loro” medici.

I testi, tanto più in un momento delicato come quello attuale,non possono essere deformati ma vanno letti per quel cheeffettivamente e oggettivamente dicono.

E noi non possiamo fare altro che ribadire, come già sottolineato, che sia fondamentale limitare la responsabilità di tutti gli operatori coinvolti nella cura alla categoria dellacolpa grave finalmente qualificata con maggior precisione, in aderenza alla situazione storica del momento. Ed il fatto di accomunare le istanze di protezione di strutture e operatori, facendo fronte comune verso l’esterno, non può esser fonte di critica, anzi. Entrambe le categorie soffrono ed hanno sofferto, e, salvo il fondamentale limite della colpa grave, meritano di esser difese insieme, per consentir loro di continuare a garantire, insieme ed anche per il futuro, la sostenibilità del sistema salute. Perché contrapporsi, dunque?

E perché contrapporre agli interessi del sistema sanitario quelli dei pazienti?

La prima garanzia per questi ultimi risiede nella tutela dell’alleanza terapeutica. Di quell’alleanza che il Covid, a prescindere dalla retorica dell’eroismo, sembrava esser riuscita a ricompattare. Di quell’alleanza che sostiene ogni impegno ed allontana inutili difese, spingendo gli operatori della sanità a prendersi carico anche dei casi più difficili, ed anche a rischio della loro stessa salute.

Insomma, il sostegno sociale che si va cercando non può essere trovato (solo) nella via dei risarcimenti e dei contenziosi, ma soprattutto in quella della solidarietà.

E’ proprio sul versante della solidarietà che si potrà pensarea nuove tutele, scevre da intenti accusatori o, peggio, intimidatori.

Così, accanto all’auspicato e prioritario intervento normativo, potrà pensarsi ad un Fondo che, lasciando intatte le responsabilità più gravi, possa garantire, in aggiunta all’assicuratore sociale, i diritti degli operatori sanitari rimasti sul campo o comunque colpiti dal virus. Ed è comunque solo attraverso altri sistemi di indennizzo che, a conti fatti ed uscendo dalla crisi, si potrà forse prendere in considerazione l’idea, tutt’altro che facile, di fornire un sostegno alle altre vittime del COVID che non abbiano titolo per una qualificata azione di responsabilità.  
 
Maurizio Hazan e Luigi Isolabella
Avvocati

15 aprile 2020
© Riproduzione riservata

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