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Responsabilità professionale. E se a “pagare” fossero i periti? 

di Arnaldo Capozzi

11 SET - Gentile Direttore,
la ricerca della rata assicurativa più vantaggiosa, la promozione di soluzioni extragiudiziarie dei contenziosi, il miglioramento delle già esistenti  strutture di risk management prospettate da più sedi istituzionali sono auspicabili ma per ridurre l’eccesso di contenziosità in medicina è necessario colpire lo spirito delle numerose pratiche frivole.

In esse, secondo il  dott. Carlo Nordio, Procuratore della Repubblica di Venezia: “la salute non c’entra nulla, si tratta di tentativi di arricchimento”. Colpendo questo spirito, si potrà ridurre, teoricamente, il 70% delle cause cioè le cause inutili che vedono, attualmente, il medico vincitore.
Nel combattere le pratiche frivole appare ineludibile considerare il ruolo del Consulente Tecnico di Parte e, in tale battaglia, sinceramente, non vedo alternative: deve nascere forte e chiaro il rischio che egli possa essere chiamato a dover risarcire di tasca propria. Affinché ciò si realizzi devono porsi le basi per il sospetto di dolo nella sua relazione e che si rafforzi un’opinione negativa riguardo la facilità ad intraprendere un procedimento civile.

Per ottenere ciò:
1) il medico chiamato in causa dovrebbe confrontare la relazione avversa con il Codice Deontologico (CD) e chiedere, quando opportuno, all’Ordine professionale di interporsi;
2) la classe medica dovrebbe rendere pubblico il fatto che esistono già pazienti che risarciscono i sanitari chiamati ingiustamente in causa e che questa richiesta di risarcimento deve essere sempre presa in considerazione.
Il primo punto può svilupparsi soltanto se si rafforzerà tra i medici l’idea secondo cui l’istanza nei confronti del responsabile di una perizia medico-legale deontologicamente disdicevole rientra naturalmente tra le istanze da effettuare in tutte le azioni disdicevoli nei confronti del corretto esercizio professionale. Il medico chiamato in causa dovrebbe fare attenzione, ad esempio, se il perito dichiara in maniera manifesta competenze medico-legali o se è comprovata la sua esperienza e competenza specifica riguardo il caso in esame, se sono presenti evidenze ed oggettività scientifiche nella sua relazione, se in essa vi è prudenza, se è presente o meno rispetto e considerazione dell’attività dei colleghi, se sono presenti tutte le consulenze necessarie e quindi, in definitiva, verificare se gli articoli 62 e 58 del CD siano stati o meno disattesi.

Nel caso vi fosse un semplice dubbio di criticità dal punto di vista deontologico, il medico chiamato in causa dovrebbe chiedere all’Ordine dei Medici di appartenenza di interporsi sulla base dell’art.3 - lettera g del D.Lgs.C.P.S.13.09.1946 n.233 (successivamente chiamato decreto del 1946). La lettera con la richiesta di interposizione, meglio se particolarmente breve ed essenziale, può esporre il perito a sanzioni disciplinari.

Prendiamo in considerazione, ora, il caso del medico chiamato ingiustamente in causa e del paziente costretto a risarcirlo. Ebbene, quest’ultimo potrebbe tentare di rifarsi nei confronti del suo Consulente Tecnico. Nell’ipotesi in cui il Consulente Tecnico dovesse, successivamente, risarcire il paziente stesso, l’assicurazione professionale potrebbe non sostenere finanziariamente o sostenere soltanto in parte il proprio assicurato-perito essendoci “sospetto” di dolo nel suo comportamento soprattutto se sanzionato disciplinarmente.

La richiesta di interposizione del medico chiamato in causa rivolta al suo Ordine professionale può riguardare le cause in corso. I medici potranno richiedere istanze di tipo deontologico da utilizzare come grimaldello nella mediazione civile al fine di ottenere tutti i possibili giovamenti del caso.
Frequentemente si assiste, ad esempio, ad un’eccessiva richiesta risarcitoria della parte attrice in netto contrasto con la ”prudenza nella valutazione relativa alla condotta dei soggetti coinvolti” prevista nell’art.62 del CDM.

La richiesta di interposizione del medico chiamato in causa rivolta al suo Ordine professionale può riguardare cause vecchie di anni. Il fatto che il decreto del 1946 non sia stato utilizzato (sembra che esso sia per lo più sconosciuto), non significa che le attuali decine di migliaia di pratiche medico-legali siano esenti da problematiche deontologiche! Nell’immediato futuro  potrebbe nascere una sorta di coalizione involontaria di medici richiedenti l’interposizione nei confronti di un unico perito medico-legale responsabile, in questi ultimi anni, della ripetizione di una medesima incongruità deontologica.
Ad esempio, secondo l’art. 62 del CD: “L’accettazione di un incarico deve essere subordinata alla sussistenza di un’adeguata competenza medico-legale e scientifica in modo da soddisfare le esigenze giuridiche attinenti al caso in esame”; ebbene, come può un ortopedico firmare una perizia nei confronti di un ginecologo e poi, magari, una perizia contro un pediatra senza incorrere in quelle sanzioni disciplinari contemplate nello stesso art.62? Appare evidente la possibile sovraesposizione disciplinare e finanziaria del perito medico-legale (con l’auspicabile fuga dalle perizie senza quel grado di competenza richiesto dall’art. 62 del CD o, peggio, dalle pratiche frivole).

Il decreto del 1946 può rappresentare il vero argine all’aumento delle denunce in campo sanitario e non è necessario che si realizzino i vari scenari sopradescritti, chiaramente negativi per la vita professionale del perito. La Medicina Difensiva, infatti, ha insegnato che il solo rischio, la sola possibilità che si manifesti un fatto negativo può essere sufficiente a determinare grossolani cambiamenti di comportamento. 

Dott. Arnaldo Capozzi
capozzi@ecografie3d.com

 

11 settembre 2012
© Riproduzione riservata

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