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La psichiatria al Bar

di Andrea Angelozzi 

21 NOV -

Gentile Direttore,
nell’impoverimento generale della sanità pubblica, le strutture territoriali tradizionali stanno mostrando da anni una perdita importante in termini di risorse e di interesse, e questo avviene senza che la popolazione si senta particolarmente turbata da questi tagli. E’ interessante che tutto ciò riguardi in primo luogo strutture che volevano essere più facilmente accessibili, immerse nel tessuto sociale e della quotidianità delle persone, ed indirizzate a prendersi cura con un modello pluriprofessionale di una vasta gamma di problemi che spaziava da quelli medici, a quelli psicologici, a quelli sociali ed a quelli giuridici.

Alla fine viene il sospetto che proprio questa prossimità abbia tolto valore, e quello che doveva essere un aspetto aggiuntivo sia diventata una banalizzazione. E non è solo una questione di disponibilità di strutture e persone. Gli stessi ambiti di cui si occupano i consultori familiari, la neuropsichiatria infantile, le dipendenze o la Salute mentale fanno parte di un “sapere” popolare che fa ritenere a chiunque di potere intervenire in maniera competente, quasi non ci fosse necessità di un sapere specialistico.

Ed allora, se tutti possono spiegare quali sono i problemi e proporre soluzioni all’insegna del più ovvio e scontato senso comune, che necessità c’è di questa complessità di strutture e personale? Certo, amministratori e politici dovrebbero essere lungimiranti e cogliere quello che serve veramente e su quale sapere ed organizzazione deve appoggiarsi. Ma il “dovrebbero” cede facilmente al “seguire" quello che la popolazione crede ed il valore che attribuisce ai vari servizi.


Questa perdita di valore attribuito e della relativa contrattualità è un tema cui fa ampiamente riferimento Cavicchi (2022) nel suo libro “Oltre la 180”. A mio parere è particolarmente evidente nell’ambito della salute mentale proprio per tutta una serie di convinzioni sulla genesi, la gestione e la cura, fortemente radicate nella popolazione e poco modificate da quanto afferma la psichiatria “scientifica”, e comunque senza che questa abbia potuto sottolineare il proprio valore (per una rassegna sulla “psichiatria popolare” vedi Angermeyer et al. 2017; Angelozzi, 2022).

Tutti ritengono di poter parlare di psichiatria, dalle cause alla terapia, dalla efficacia alla prognosi, quasi non richieda un sapere specifico, che viene spesso anzi banalizzato, finendo per impregnare i salotti televisivi, così come ha impregnato la letteratura ed il cinema. Mentre nessuno riterrebbe di poter disquisire in una conversazione al bar degli aspetti tecnici di un intervento chirurgico o di una terapia oncologica, questo non pare sia un problema quando si parla di salute mentale.

Alla fine il lavoro clinico diventa un sapere banalizzato. Non solo, ma la sottile continuità fra comportamenti normali e patologici, e la stretta continuità apparente fra molti interventi terapeutici e quanto governa le quotidiane interazioni fra le persone, priva il tutto di procedure spettacolari e pertanto valorizzatili nella logica della propaganda aziendale e politica.

Il sapere popolare trasforma la psichiatria sociale nel curare con la casa ed il lavoro attraverso un’opera da assistenza sociale; l’intervento psicologico nel parlare un po’ dei propri problemi ricevendo qualche utile consiglio; i farmaci vengono ritenuti generici tranquillanti per “stare calmi” limitandone l’uso ai casi più gravi e ritenendo che sia meglio affidarli al medico di medicina generale, meglio se privilegiando le vitamine. E chiede un controllo sociale per le situazioni poco gestibili per il quale è sufficiente una attività da tutori dell’ordine pubblico e gli idonei istituti

A questa mancata crescita di una cultura psichiatrica ha contribuito non solo lo stretto intreccio intrinseco fra psichiatria clinica e psichiatria popolare, ma le letture semplificanti che sono state date della stessa riforma psichiatrica. Alla fine sono banalizzati anche i suoi esiti, dove si pensa che di queste malattie nessuno muoia e, nel sapere popolare o se ne viene fuori parlando un po’ o semplicemente non si guarisce.

Negli anni 80 un articolo sul New York Times valorizzava un corso che permetteva ai baristi di avere conoscenze di psichiatria, sfruttando la loro capacità di interagire e il buon senso di cui erano portatori. E’ un caso estremo ma rappresenta un buon indice di quanto in genere si pensa e ci si aspetta. Lo stesso lavoro clinico quotidiano sembra autosvalutarsi, e, talvolta per scelta e spesso per mancanza di risorse, alla fine considera l’intervento specialistico EBM un lusso e si rifugia nella quotidianità di quello che si è sempre fatto e del buon senso comune.

Non è un caso che la psichiatria torna per qualche giorno importante quando la pacifica quotidianità è rotta perchè qualcuno muore per eventi connessi alla malattia psichiatrica, occupando le pagine dei giornali, così come lo era stata quando Basaglia aveva proposto qualcosa così fortemente controintuitivo e contrario al pensiero popolare come la chiusura dei manicomi.

In questa logica che banalizza il lavoro psichiatrico, la complessità dei servizi per la salute mentale non è solo sconosciuta, ma incomprensibile: se il problema è puramente sociale basta una assistente sociale e se è una pura questione di relazione basta un po’ di empatia; se è una vicenda da ordine pubblico va bene qualche istituto con un po’ di personale di assistenza. Perché un costoso apparato per tutto questo? E politici ed amministratori se non sono essi stessi pensiero popolare, vi aderiscono totalmente.

Alla fine il problema non è il 5% che nessuno investirebbe con questa idea, ma cosa significhi finanziare una salute mentale così svalorizzata, senza chiarire cosa faccia e come. Aggiungere risorse ora, in assenza di un modello chiaro e condiviso porterebbe solo il rischio di andare a finanziare aspetti già economicamente privilegiati e “popolari” come il momento ospedaliero o quello residenziale, eventualmente in appoggio ai privati, che nell’idea popolare comunicano sempre qualità, e soprattutto aiutano gli amministratori del pubblico a non doversi confrontare con la complessità.

Quello che emerge di fronte al malessere non è infatti confrontarsi con l’universo dei servizi già esistenti, ma il tentativo di moltiplicare agenzie di aiuto esterne sotto forma di “sportelli”, che rischiano di banalizzare il problema parlando di “disagio” invece che di malattia e di interventi di consultazione invece che terapia, pensando in questa maniera frammentata di poter dare risposta a problemi che invece richiedono un apparato complesso, pruriprofessionale ed altamente specialistico.

Se la psichiatria non riesce, in controtendenza a molto orientamento che vi è stato in questi anni, a rivendicare un proprio sapere specialistico ed una complessità che si intreccia con questo, temo che il suo percorso sia fortemente segnato.

Andrea Angelozzi
Psichiatra

Note bibliografiche:
Angelozzi A. (2022). Folk psychiatry. La psichiatria fra immagine scientifica e psichiatria popolare. Psicoterapia e Scienze Umane, 56, 3: 431-456. DOI: 103280/PU2022-003004.

Angermeyer M.C., van der Auwera S., Carta M.G. & Schomerus G. (2017). Public attitudes towards psychiatry and psychiatric treatment at the beginning of the 21st century: A systematic review and meta-analysis of population surveys. World Psychiatry, 16, 1: 50-61. DOI: 10.1002/wps.20383.

Cavicchi I. (2022). Oltre la 180. Roma: Castelvecchi.



21 novembre 2022
© Riproduzione riservata

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